1.
Il caldo è solido come un muro e ci sbatto contro all’uscita dal palazzo del Tribunale. La porta a vetri non si è ancora richiusa alle mie spalle e già sento il bisogno di fermarmi. Mi appoggio a uno dei pilastri che disegnano l’ingresso e sento tiepide le minuscole piastrelle bianche che lo ricoprono. Eppure c’è ombra, qui sotto, in questo spazio che è scavato nel corpo dell’edificio e ne taglia la facciata, perché il primo piano gli sporge sopra e gli offre un soffitto da portico.
Sono in alto allo scalone e quando mi affaccio in pieno sole la luce è abbagliante. La colonna di cemento che ho accanto è bollente. Il caldo era un muro ma adesso è un cappio, mi stringe il collo e mi soffoca. Non so che gli ha preso, quest’anno, all’estate: è come se ce l’avesse con noi, sembra voglia farci pagare qualche misteriosa colpa, sono settimane che non ci dà tregua e un luglio così ce lo ricorderemo per un pezzo.
Boccheggio. Faccio un passo indietro, mi dico che non c’è fretta di peggiorare le cose andando a cuocersi là fuori, così prendo un bel respiro e poi con calma ne prendo un altro. Guardo davanti a me la vecchia caserma, l’angolo dell’isolato che le sta di fronte, la strada che corre verso la rotonda e il ponte. Chissà se almeno in riva al lago tira un filo d’aria.
Ho una sensazione strana e sento – ecco, sì – una specie di mattone sullo stomaco. Forse sono rimasto troppo tempo nell’ufficio degli avvocati, a concordare un po’ delle mille cose che avevamo in sospeso, e lì di sicuro tenevano il condizionatore troppo alto. Avrei dovuto chiedere che gli scalassero un paio di marce, visto che venivo da fuori ed ero accaldato. Macché. Mi si è gelato il sudore addosso, la prossima volta dovrò starci più attento, ci vuole poco a prendersi un accidente.
Un momento soltanto, adesso vado. Non so neanche più quante volte negli ultimi mesi ho salito e sceso questa scalinata candida che disegna un quarto di cerchio e ha l’andamento di un piccolo anfiteatro convesso. Del resto spostare un Palazzo di Giustizia dal centro città alla periferia è una faccenda complicata, ci sono mille cose alle quali pensare, da prevedere e controllare, da concordare e riverificare, e a dovermi occupare dell’operazione sono io.
I gradini in ogni caso sono dodici, e ci sono giorni nei quali andando su e giù mi sorprendo ancora a contarli in modo automatico: due-quattro-sei… È quel che sto pensando quando mi decido a muovermi e proprio in quel momento, all’improvviso, crollo come un sacco vuoto. Cado. Non riesco a fermarmi. Rotolo. Batto la testa, la schiena, le gambe, la faccia, le braccia e poi ricomincio daccapo: batto la testa, la schiena, le gambe, la faccia, le braccia.
Non pensavo fossero così tanti, dodici gradini: a scenderli in questo modo, come un pupazzo spinto di sotto, sembra non finiscano mai. Ecco, forse sono arrivato in fondo. Sento un fiotto caldo sul viso, sento male dappertutto, sento un dolore lancinante a una spalla e poi tutto prende di nuovo a girare e non sento più niente. Perdo i sensi. Per quanto tempo? Non lo so. Quando riprendo coscienza, ci sono facce sconosciute intorno a me. Passanti che si sono fermati a soccorrermi, che mi offrono fazzoletti per tamponare il sangue che mi sgorga dal naso, che mi guardano preoccupati, che mi sorreggono e mi aiutano a muovere cinque o sei passi e poi a sedere sulla scala metallica che sale all’ingresso laterale del teatro, quello del palco.
Cosa è successo? Lo chiedono a me. Cosa è successo? Lo chiedo a loro. Un piccolo malore, forse. Colpa del caldo, di sicuro, massì, sono giorni che non si respira. Magari uno sbalzo di pressione, succede. Il cuore è a posto? Mi pare di sì. Tutto bene, vede? Niente di grave. Tranquillo, che abbiamo già chiamato un’ambulanza, è meglio farsi dare un’occhiata, ci vorranno soltanto pochi minuti. Ecco un po’ d’acqua fresca, la beva piano.
Li ascolto parlare e fatico a riprendermi. Non riesco più a sollevare il braccio destro, mi accorgo che la faccia mi si sta gonfiando, è come se mi avessero pestato con un martello. Qualcuno nella confusione mi aiuta a comporre il numero sul cellulare, così riesco a chiamare uno dei miei ragazzi e a parlarci io stesso, per non farlo spaventare. Arriverà anche lui di volata, è già in macchina.
Pochi minuti, allora, sì, aspetterò. Per fortuna c’è un filo d’ombra, qui accanto al teatro. La scala di ferro però è calda e sa di ferro anche il sangue che mi sento scendere in gola. Gesù che botta. Sono spaventato. Non so cos’è successo e perché. Maledetto caldo.
2.
Mi chiamo Antonio, faccio l’architetto. Le scale di solito le progetto, mettendole ai posti giusti dentro gli edifici che nascono sulla mia scrivania, e non le collaudo certo facendoci sopra un gran volo, come se dovessi vedere l’effetto che fa prima di compilare qualche strano modulo.
Sono sposato, ho due figli e una vita felice piena di interessi e passioni: i libri, la musica, la montagna, l’arte. Credo in Dio. Amo il mio lavoro e insieme a un gruppo di amici cerco di rendermi utile a chi vive situazioni di difficoltà . Ho mille progetti in testa e anche un po’ di sogni pronti a saltar fuori dai miei cassetti. Alcuni aspettavano da un pezzo che arrivassi alla pensione, che potessi tirare il fiato e avessi finalmente più tempo a disposizione per mettergli le ali, il famoso «più tempo per me». Ci sono arrivato, questo è il momento buono, un possibile nuovo inizio. E sarebbe tutto perfetto, lo sarebbe davvero, se non fosse per quei dodici gradini fatti a rotoli.
Sono passate settimane, ormai, e non mi sono rimesso in forma. La sola cosa che ho capito, la cosa di cui adesso sono sicuro, è che il caldo non ha avuto niente a che fare con quella caduta. Era feroce, sì, però a mordermi è stato dell’altro. E il fatto è che continuo a non conoscere né l’avversario invisibile che mi ha sgambettato a tradimento, né la ragione per la quale l’ha fatto. Sgradevole, molto sgradevole. Anzi, di più: ansiogeno.
I medici mi hanno controllato e ricontrollato, riaggiustandomi a pezzi, eppure tutto intero e a posto come prima non sono tornato. Così, io che un po’ ho studiato, e che continuo a farlo perché penso che di imparare non si finisca mai, non so più neppure se sto coniugando i verbi nel modo giusto. Quando parlo di me i tempi devo metterli al presente? Devo ancora metterli al presente? O forse è il caso che passi all’imperfetto, perché le cose stanno cambiando o addirittura sono già cambiate senza che me ne sia reso conto? È un dubbio scomodo, ed è diventato un dubbio esistenziale, roba seria, non una paturnia come tante, non una sindrome da età avanzata, non una crisi innescata dalla banale e sacrosanta presa d’atto che il tempo ha preso ormai a correre troppo veloce.
Dopo più di tre mesi passati a vuoto tra ambulatori, sale d’aspetto, studi di specialisti con parcelle a due zeri e stanze con i macchinari più disparati, sono finito in un ospedale che promette di darmi finalmente tutte le risposte. Ed è qui che non ho impiegato molto a rendermi conto che la situazione stava prendendo una brutta piega.
Dividevo la camera con un ragazzo sui trent’anni arrivato dal Sud. Aveva girato tutte le corsie delle sue parti senza riuscire a cavare un ragno dal buco, così alla fine si era rassegnato a venirsene a Milano, sperando di riuscire una buona volta a capire qualcosa dei suoi disturbi. Era preoccupato, nervoso, agitato. Come me. Più di me. Dormiva poco, tormentato dalle sue domande senza risposta. Perché il suo corpo all’improvviso aveva cominciato a mettere in fila tremori, spasmi, debolezza, difficoltà a camminare, dolori muscolari?
Era terrorizzato, quel poveretto. Era terrorizzato che gli fosse arrivato addosso qualche accidente grave. Non riusciva neppure a dargli un nome, all’accidente, e tuttavia lo temeva capace di costringerlo a mettere in discussione i suoi progetti di vita, il lavoro da informatico, la famiglia e tutto il resto. E quando verso sera lui per sfogarsi mi raccontava gli esami ai quali era stato sottoposto durante la giornata, ascoltandolo senza dire niente e cercando di sorridere per rincuorarlo, io passavo in rassegna la stessa sequenza di accertamenti attraverso la quale era passata una persona a me cara. Sclerosi multipla, alla fine era stata questa la diagnosi per quella persona. Avrebbe avuto più fortuna il mio amico del Sud?
Non l’aveva avuta. Gli era toccata la stessa sentenza, e io l’avevo visto quasi spegnersi subito dopo aver saputo la verità , riordinare in silenzio le sue poche cose e ripartirsene con la cartella clinica in valigia e con lo smarrimento negli occhi. Nel salutarmi mi aveva allungato un’immaginetta di padre Pio: me l’avrebbe lasciata in suo ricordo, aveva detto così, e me l’avrebbe lasciata soprattutto perché forse il frate diventato santo avrebbe protetto almeno me.
Be’, ammesso che il cappuccino di Pietrelcina fosse stato davvero intenzionato a farlo, si sarebbe dovuto dare un bel daffare, e anche subito. Perché non stavo certo meglio del mio giovane compagno di stanza appena dimesso. Anzi. Io che pure avevo confidato di non avere in realtà nulla di serio, io che me l’ero ripetuto per cercare di convincermi che dovevo ancora soltanto trovare il dottore in grado di rimettermi in sesto, niente di più, proprio io alla fine mi ero ritrovato – improvvisamente, assurdamente – a sperare di poter condividere il destino del ragazzo che per qualche giorno aveva dormito nel letto accanto al mio.
Come potevo essere arrivato ad augurarmi una cosa del genere? Come avevo permesso al mio stato d’animo di precipitare fino a quel punto, in modo vorticoso e del tutto fuori controllo? Avevo una risposta. E la risposta era che, per quanto mi rendessi conto che la sclerosi multipla era una patologia complicata, se non altro sapevo – per averla incontrata – che era possibile conviverci. Una malattia fronteggiabile, insomma. A gioco lungo, invalidante, nella maggior parte dei casi, però, fronteggiabile. E mentre formulavo quel pensiero per dirmi pronto ad accettare una condizione comunque difficile, sentivo già salirmene dentro un altro che non mi dava tregua e spingeva e spingeva per prendere per sé tutto lo spazio della mia mente. Il pensiero che per quanto avessi spostato così in basso la mia asticella, così indietro la linea di confine di ciò che avrei potuto sopportare, in realtà stessi lo stesso peccando di ottimismo. Perché a quella certa sequenza di esami che ormai avevo imparato a memoria e che servivano a individuare la sclerosi multipla io non ero stato neppure sottoposto. Perché già al tirar delle somme di un primo consulto, al quale aveva assistito in religioso silenzio anche un gruppo di stagisti, il neurologo che mi aveva preso in carico se n’era uscito con una frase di congedo: «Questo signore lo passiamo al dottor…».
Aveva già capito tutto, lui? E cosa aveva capito? Chi era mai l’altro specialista al quale mi avrebbe affidato? Qualcuno più bravo? Perché serviva lui? E di che si occupava davvero?
Di quelle ore tormentate dal dubbio ricordo l’angoscia, il batticuore tenuto a bada da un tranquillante prescrittomi in reparto, il senso di oppressione al petto, l’incapacità di concentrarmi su altro se non su un’idea vaga eppure fissa: se fin lì non ne ero venuto a capo, allora doveva esserci per forza qualcosa di ben grave a dondolare torvo e implacabile su di me, qualcosa che benché non avesse ancora assunto una precisa fisionomia – ne ero sicuro e spaventato – si preparava a balzarmi addosso a denti sguainati. E per quanto fossi consapevole che persino a chi lamentava solo un insistente mal di testa poteva accadere, navigando su internet, di finire a consultare pagine apocalittiche su malattie spaventose talvolta segnalate da quel sintomo così banale e diffuso; per quanto ne fossi consapevole, ecco, sapevo però che se qualcosa del genere stava succedendo anche a me, qualche ragione c’era. Ancora misteriosa, tuttavia c’era. Non frutto di pessimismo cosmico. Fondata piuttosto sui segnali di corto circuito che arrivavano dal mio corpo dopo il maledetto volo dallo scalone del Tribunale, oltre che su certe sigle che erano state annotate sui miei primi referti ospedalieri. Sigle criptiche, e ciò nonostante in grado di indicare alcune possibili direzioni alle mie indagini al computer nelle ore vuote delle interminabili giornate di ricovero.
In realtà avevo cominciato a preoccuparmi già a casa, quando il neurologo che mi aveva visitato anche un anno prima per altri disturbi – dolori alle braccia, per i quali allora il consiglio era stato di dare una bella ripulita ai tunnel carpali – aveva cavato dalle sue macchine certi valori per i quali si era deciso ad annunciarmi l’immediata ripetizione dell’esame. Nutriva dubbi sui risultati ottenuti per via di una possibile anomalia tecnica, era stata questa la sua spiegazione. E li nutriva perché, messi a confronto proprio con i vecchi in suo possesso, i nuovi tracciati delle elettromiografie non tornavano.
Non sarebbe stato un gran problema, di per sé. Il fatto è però che il medico aveva ripetuto la stessa frase anche dopo il secondo test, e questa volta gli avevo visto in volto un pallore che forse pochi minuti prima era riuscito a dissimulare. All’improvviso aveva preso a sudare il doppio di me, e per quanto nello studio facesse caldo non c’era ragione che questo accadesse. A meno che, s’intende, lui non avesse visto qualcosa che naturalmente mi era sfuggito.
Una sirena d’allarme stava suonando senza che ne sentissi l’urlo? Il neurologo aveva cercato di non farmelo pensare e per non spaventarmi aveva preso i discorsi molto alla larga. Che le cose potessero stare proprio in quei termini, però, dopo oltre due ore di controlli mi era stato comunque confermato dalla sua richiesta di ulteriori approfondimenti da compiere con strumenti diagnostici più sofisticati. Dove? In un ospedale milanese, un polo d’assoluta eccellenza. L’ospedale dove mi trovavo ora.
Ecco da dove venivo, dunque. Da uno scalone sceso a rotoli, da una città che era stata infuocata e nella quale le foglie avevano ormai cominciato a ingiallire, dallo studio di un medico scrupoloso che sudava troppo. Ma anche da altri consulti che non avevano sortito alcunché di decisivo. D’accordo, era emerso che per via della caduta un certo legamento del braccio destro si era rotto dietro la spalla, e lo si sarebbe dovuto operare e ricucire. E il naso era guarito, gli ematomi sul volto e sul tronco riassorbiti, le costole incrinate dolevano sempre un po’ meno. Il cuore per fortuna era sicuramente a posto, e gli esami del sangue tutto sommato erano stati giudicati in ordine. Eppure c’erano problemi che continuavano a trascinarsi, e non avevano niente a che vedere con tutti gli altri in apparente via di soluzione. La mia debolezza, i cedimenti improvvisi della gamba destra, i ...