L’imprenditore
Un’invenzione senza futuro
In ogni storia del cinema, dopo l’introduzione dedicata al precinema e il capitolo sul cinematografo Lumière, si passa a parlare di George Méliès. Mago e illusionista, attivo a fine secolo a Parigi dove riscuote un discreto successo con spettacoli di prestidigitazione messi in scena al teatro Robert Houdin, già nel gennaio del 1896 cerca di acquistare l’apparecchio dei fratelli Lumière. Ne riceve un secco rifiuto, ma grazie al suo ingegnere di fiducia riesce a costruirne uno del tutto simile, con il quale dall’anno successivo inizia a girare i suoi film.
Alle scene di vita quotidiana, ai panorami e alle vedute dei Lumière, preferisce un cinema spettacolare in cui trasferire e sviluppare i suoi trucchi scenici. A tale scopo costruisce uno stabilimento a Montreuil-sous Bois, un gigantesco teatro di posa con un palcoscenico di 17 metri per 66. Con lo sfondo di scenari stravaganti e surreali dipinti da lui stesso, nei suoi cortometraggi racconta storie fantastiche dove la trama esile, a volte inconsistente, è quasi sempre un puro pretesto per esaltare la sua maestria di illusionista e stupire con trucchi e primordiali effetti speciali.
La mitografia delle origini lo vuole scopritore del trucco per eccellenza dell’arte cinematografica: il montaggio. Lui stesso racconta l’episodio fortuito alla base dell’intuizione: effettuando delle riprese a Parigi, in place de l’Opéra, il suo apparecchio si era inceppato, ricominciando a funzionare dopo qualche secondo, quando vetture e pedoni si erano spostati.
Leggenda o meno, è prassi ormai consolidata indicare in Méliès l’iniziatore del cinema narrativo, così come nei Lumière quelli del cinema documentaristico.
Per quanto sia innegabile ravvisare nei pionieri francesi una certa traccia originaria e primordiale delle due tendenze, si tratta di definizioni di comodo, indispensabili per storicizzare in maniera razionale e consequenziale la storia del cinema, ma di fatto sono e restano forzature.
Il cinema inteso come arte è ancora di là da venire. Méliès e i Lumière, pur con diversi intenti, lo concepiscono essenzialmente come illusione, generatore di stupore e meraviglia, punto di arrivo e di partenza di innovazioni prettamente tecnologiche. Il racconto, sia esso racconto dal vero della società contemporanea o racconto fantastico, interessa marginalmente. Ciò che conta è l’atto del vedere e del vedersi, la magia con cui trucchi sempre nuovi rendono sensazionale l’esperienza.
Uno spirito che non si limita soltanto a Méliès e ai Lumière, ma riguarda l’intero periodo delle origini del cinema.
Non a caso si parla di “cinema delle attrazioni”. La definizione, affascinante e calzante, è usata per indicare tutto il primo ventennio di storia del cinema, fino a quando, attorno al 1915, il cinema pur fra mille resistenze e diffidenze intellettuali, si impone in maniera definitiva come linguaggio artistico autonomo, dotato di una sua grammatica e incentrato sulla narrazione come necessità estetica.
Ma è soprattutto nei primi dieci anni che la smania dell’attrazione sovrasta nettamente l’esigenza della narrazione.
Dopo il relativo fiasco della prima leggendaria proiezione del 28 dicembre, dalla sera successiva gli spettacoli del cinematografo Lumière riscuotono un successo clamoroso e crescente. Ai trentacinque spettatori del debutto si sostituiscono folle di centinaia di borghesi curiosi ed eccitati che premono all’ingresso costringendo gli organizzatori a moltiplicare le repliche.
Da Parigi al resto del mondo, essendo Parigi già il centro del mondo, il passo è breve, a dir poco immediato. Come sappiamo, la potenza industriale dei Lumière spazza via la concorrenza soppiantando in un batter d’occhio tutte le invenzioni analoghe. E, per almeno due anni, impone un monopolio che, nonostante le innumerevoli imitazioni, domina pressoché incontrastato.
Se come imprenditori cercano di sfruttare al massimo le potenzialità commerciali della loro invenzione (riuscendoci in pieno, quanto meno in un primo momento), nel campo della realizzazione di film non tentano nemmeno in parte di seguire la strada suggerita da Edison poi battuta, come già accennato, da Méliès. Ovvero, non costruiscono teatri di posa, prediligendo esclusivamente le riprese dal vero in esterno.
Del resto, è lo stesso Louis Lumière che, pur rivelandosi cineasta di notevole talento, ammette più volte di non avere alcuna pretesa di messa in scena, ma di coltivare, nei confronti del cinematografo, interessi di natura esclusivamente tecnica.
Per comprendere tutto questo, basterebbe il nome che in origine Louis Lumière aveva proposto per il cinematografo: Domitor, contrazione del latino dominator, sintesi efficace e quanto mai eloquente dei sogni di onnipotenza coltivati dalla filosofia positivista, che con la scienza e la tecnica pensava di dominare l’universo. È, nella sua ottica, il punto di arrivo del voyeurismo borghese dell’Ottocento, la sublimazione del bisogno di guardare senza essere visti, la traduzione magica e stupefatta dell’autorappresentazione compiaciuta, la realizzazione del sogno di imprigionare un istante e poterlo riprodurre all’infinito sconfiggendo così la morte.
Gli oltre milleduecento titoli che compongono il Catalogo Lumière, per la maggior parte realizzati dai loro operatori sguinzagliati ai quattro angoli del pianeta, sono scene quotidiane, tipiche o curiose, vedute, riprese esotiche. Quasi tutti realizzati in assenza di montaggio, ovvero con un’unica inquadratura che in un primo momento è sempre fissa. Successivamente, alcuni operatori Lumière, come l’italiano Eugenio Promio, sperimenteranno con successo i primi movimenti di macchina, così che in breve tempo i cosiddetti panorami, riprese girate a bordo di treni, navi, palloni aerostatici, automobili e ascensori con abbondanza di carrellate, diventeranno parte imprescindibile delle proiezioni.
Con i medesimi intenti, sempre gli operatori Lumière iniziano a filmare i grandi avvenimenti. La prima e più celebre attualità filmata delle origini è l’incoronazione dello zar Nicola II, ripresa da Charles Moisson e Francis Doublier nel 1896.
Oppure il mezzo filmico viene utilizzato come strumento d’indagine, nel campo della scienza. Già nel 1898 il chirurgo francese Eugène-Louis Doyen fa riprendere alcuni suoi interventi, fino ad arrivare a far filmare una celebre operazione in cui separa due sorelle siamesi. Tuttavia, le pellicole usciranno sciaguratamente dal circuito accademico e, violando i più elementari principi etici, verranno proiettate nelle fiere suscitando grande scandalo.
Ad ogni modo, preso nel suo complesso, il lavoro di Louis Lumière, dei suoi operatori e dei loro epigoni, non solo non è interessato, ma nemmeno riesce minimamente a cogliere le potenzialità narrative e artistiche del cinematografo.
La stessa cosa accade, come già accennato, tra i pionieri del filone fantastico inaugurato da Méliès.
Al di là delle apparenze, anche nei suoi film più elaborati e narrativamente strutturati, come il celebre Voyage dans la lune, il perno del film non è il racconto, ma l’effetto a sorpresa, la magia del trucco, lo stupore per una meraviglia resa possibile dalla tecnica. Un moltiplicarsi...