Virtù e obbligo morale
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Virtù e obbligo morale

Antichi e moderni

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Virtù e obbligo morale

Antichi e moderni

About this book

Il titolo di questo libro riflette il modo sintetico e netto con cui abitualmente si distingue l'impostazione dell'etica classica, fondata sulla virtù, dall'impostazione dell'etica moderna, fondata sull'obbligo e sul dovere. Il contenuto però punta a dimostrare che questa distinzione va superata in quanto fondata su una comprensione non sufficientemente accurata della filosofia morale classica, in particolare dell'etica di Aristotele, e di quella moderna. E in questo tentativo l'autore va a minare le fondamenta stesse su cui poggia buona parte dell'attuale Virtue Ethics, con la chiara pretesa di contrastare non solo la posizione di Prichard, ma anche quella, a suo parere ancora più inesatta, della Anscombe. L'autore non si limita a realizzare un mero esercizio di analisi e dissezione di testi, antichi o moderni, fine a se stesso, ma vuole rispondere alla domanda che – malgrado Prichard – ritiene non solo ragionevole ma ineludibile per ogni filosofo etico e per ogni uomo: perché dovrei comportarmi in un determinato modo? Perché dovrei perseguire il bene? Si tratta dunque di trovare una risposta alla questione del dovere morale. Tale risposta Irwin pensa di trovarla, almeno in nuce, nell'etica aristotelica che, pur sottolineando l'importanza della virtù, non può essere ritenuta una Virtue Ethics così come alcuni oggi la intendono, ovvero fondata soltanto sulla ricerca di una felicità e di un bene esclusivamente attraenti; per Irwin, infatti, anche nell'etica aristotelica è presente il dovere ancorato a ragioni esterne, a imperativi non solo ipotetici ma categorici, detto in termini kantiani. Se questa interpretazione dell'etica aristotelica è esatta, allora la pretesa distinzione tra l'impostazione etica classica, aristotelica, e quella moderna va riveduta, perché l'etica classica può puntare sulla virtù in quanto ha il sostegno di un bene fondato su ragioni esterne al desiderio del soggetto, senza bisogno però di una legge e di un legislatore.TERENCE IRWIN insegna Filosofia Antica presso l'Università di Oxford (Regno Unito). Specialista del pensiero etico classico e della storia dell'etica occidentale. Tra i suoi innumerevoli contributi e pubblicazioni, ricordiamo la monumentale opera in tre volumi The Development of Ethics: A Historical and Critical Study (2011).

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Information

Capitolo 3
Anscombe

11 Prichard e Anscombe

l. 609
Prichard ritiene, come abbiamo visto, che Platone e Aristotele sbaglino riguardo al carattere della moralità, e in particolare che essi sbaglino a ignorare la speciale caratteristica dell’obbligo morale. Secondo Prichard, la caratteristica distintiva degli obblighi morali e dei doveri è che essi introducono ragioni esterne. Se egli sbaglia, o perché (1) non è questo il tratto distintivo degli obblighi morali, o (2) non ci sono obblighi morali autentici, Platone e Aristotele non commettono un errore non riconoscendo la caratteristica specifica dell’obbligo morale.
A questo punto l’argomentazione di Anscombe diventa rilevante poiché anch’essa sostiene che un dato tipo di filosofia morale si basa su un errore, ma ha in mente un errore diverso da quello che Prichard menziona. Secondo Prichard, la filosofia morale moderna ha riconosciuto l’obbligo morale, e ha pertanto compreso una verità che i greci non comprendono. Secondo Anscombe, invece, la filosofia morale moderna ha introdotto un concetto spurio di obbligo morale, e ha pertanto fatto un errore che i greci avevano evitato. È la tipologia di filosofia morale di Prichard, pertanto, che si basa su un errore. Nella prospettiva di lei, i presupposti, gli scopi, e mentalità dell’etica greca, specialmente dell’etica aristotelica, sono così radicalmente diverse da quelle della moderna filosofia morale che davvero costituiscono una diversa impresa filosofica.
Anscombe espone la sua argomentazione in Modern Moral Philosophy.1 Questo documento è stato pubblicato nel 1958, e ha esercitato una considerevole influenza sin da allora.2 Si tratta di una fonte dell’interesse contemporaneo per “l’etica della virtù”.

12 Anscombe su “dovere” e “obbligo”

l. 620
Per difendere la sua affermazione circa la radicale differenza tra Aristotele e la filosofia morale moderna, e per dimostrare le ragioni di Aristotele, Anscombe argomenta che i moderni concetti di obbligo, compito, e dovere morale3 sono dei resti di una precedente concezione dell’etica, e che devono essere abbandonati.
… i concetti di obbligo e dovere – vale a dire obbligo morale e dovere morale – e di ciò che è moralmente giusto e sbagliato, nonché del senso morale di “dovere”, dovrebbero essere eliminati qualora questo sia psicologicamente possibile; poiché essi sono il retaggio, o derivati da un retaggio proveniente da una più antica concezione di etica che in genere non sopravvive più, e senza di essa sono solo nocivi.4
l. 627
Per comprendere che tale concezione di etica sia successiva ad Aristotele, è necessario notare che Aristotele non trova spazio per il nostro concetto di morale.
Chiunque abbia letto l’Etica di Aristotele e abbia anche letto la filosofia morale moderna, deve essere stato colpito dal grande contrasto presente tra di esse. I concetti che tra i pensatori moderni appaiono prominenti, in Aristotele sembrano essere assenti o ad ogni modo sepolti, o posti molto in secondo piano. Fatto ancora più evidente, lo stesso termine “morale”, che riceviamo per diretta eredità da Aristotele, semplicemente non sembra calzare, nel suo senso moderno, con il resoconto dell’etica aristotelica.5
l. 634
Il fatto che Aristotele non indica un tipo distinto di responsabilità come responsabilità morale è il segno che non si possano trovare in lui considerazioni distintamente morali.
Se qualcuno professa di esporre le teorie di Aristotele e parla in chiave moderna di una determinata “morale”, allora tale persona deve essere alquanto priva di percezione se non si sente costantemente come nei panni di chi abbia la mandibola spostata: i suoi denti non occludono perfettamente.6
l. 641
Ecco perché non possiamo pretendere di trovare alcuna discussione di obbligo morale in Aristotele.
Per distinguere l’obbligo morale da ciò che troviamo in Aristotele, abbiamo bisogno di guardare al suo uso di “dovere” e ai termini relativi.
I termini “dovrebbe” o “deve” o “ha bisogno” si riferiscono al bene e al male: ad esempio, il macchinario ha bisogno di olio, o dovrebbe o deve essere lubrificato, poiché metterlo in funzione senza olio lo danneggia, o funziona male senza di esso. Secondo questa concezione, ovviamente, “dovrebbe” e “deve” non sono utilizzati in uno speciale senso “morale” come quando si dice che una persona non dovrebbe truffare.7
l. 651
Diciamo che un uomo non dovrebbe truffare perché crediamo che un uomo così sia ingiusto, e che un uomo ingiusto sia un uomo cattivo. Anscombe non aggiunge, anche se dovrebbe farlo, che l’aggettivo “buono” nell’espressione “uomo buono” va spiegata senza la reintroduzione di un “dovere” che non può essere parafrasato nel modo in cui lei suggerisce. Vedremo successivamente perché questo è un punto importante. Per ora, possiamo concedere che Anscombe abbia ragione.8 Per gli scopi presenti, il punto rilevante è la contrapposizione tra questo funzionale e non morale senso di “dovere” e il senso morale.
[Questi termini] ora hanno acquisito uno speciale senso cosiddetto “morale” – vale a dire un senso secondo cui essi implicano una sorta di verdetto assoluto (come quello di colpevolezza/non colpevolezza nei confronti di una persona) in ciò che è descritto nelle frasi sul “dovere” utilizzate in certi tipi di contesto … I consueti (e piuttosto indispensabili) termini “dovrebbe”, “ha bisogno”, “deve”, “deve obbligatoriamente” hanno acquisito questo senso speciale dopo essere stati identificati, in contesti pertinenti, con “è obbligato”, o “è costretto”, o “è prescritto”, nel senso secondo cui uno può essere obbligato o costretto dalla legge, o qualcosa può essere prescritto dalla legge.9
l. 658
Se affermiamo che moralmente dobbiamo fare x, presupponiamo che qualche legge ci obbliga a fare x. Ma se una legge ci obbliga a fare x, qualche legislatore deve ordinarci di fare x. Dato che Aristotele non usa “obbligo” o “dovere” in questo speciale senso morale, non ha un concetto di moralità.
I principali elementi del “dovere” morale, secondo Anscombe, sono questi: (1) “Dovere” e termini relativi (“dovrebbe”, “bisogna”, ecc.) hanno uno speciale senso morale. (2) Questo speciale senso morale comporta un qualche verdetto assoluto. (3) I termini hanno questo speciale senso morale in quanto sono equiparati con “è obbligato” (ecc.) in uno specifico senso. (4) Il senso pertinente di “è obbligato” è il senso legale. (5) Abbiamo il concetto di moralità soltanto se utilizziamo termini pertinenti con lo speciale senso morale, così inteso.
Ognuna di queste affermazioni circa il “dovere” contrassegna la posizione di Anscombe su alcune questioni controverse. Non è sempre chiaro perché essa assuma ognuno di questi elementi come essenziale ai veri giudizi morali circa ciò che si deve fare. E se questo non è chiaro, non è chiaro che essa sollevi una domanda autentica circa i doveri morali e gli obblighi. In effetti, alla fine suggerirò che la sua domanda si basa su un falso presupposto riguardante l’obbligo morale. Per il momento, comunque, tenterò di precisare più compiutamente alcune affermazioni che essa espone brevemente.

13 Il senso morale di “dovere”

l. 669
Anscombe è d’accordo con la prospettiva di Prichard, secondo cui possiamo separare il senso morale di “dovere” differenziandolo dal “dovere” che introduce gli imperativi ipotetici. Ma l’argomentazione di Anscombe, che distingue il senso morale di “dovere” dal suo senso ipotetico, si allontana da quella di Prichard in un punto fondamentale.10
Una parte dell’argomentazione di Anscombe è simile a quella di Prichard. Se Beth dice ad Albert “Devi andare a vedere questo film”, intende che egli deve andare a vederlo perché egli ama film di quel tipo e andare a vederlo gli procurerà ciò che vuole. Ma non gli ordina di andare a vedere il film. Egli non le ha necessariamente disobbedito se si rifiuta di andare; può semplicemente aver deciso che non gli interessa abbastanza quel film, rispetto ad altre cose che ha voglia di fare. Ma se Clara dice ad Albert “Devi pagare a Dora ciò che le hai promesso”, Clara non fa però presente ad Albert che lui vuole qualcosa per la quale pagare Dora è un mezzo. Parlargli di cosa deve fare è un modo per dirgli di farlo, esprime un imperativo.
Fin qui la visione di Anscombe è simile a quella di Prichard. Lei però aggiunge un punto che Prichard non menziona. Se Albert avesse risposo a Beth che egli doveva andare a vedere il film, ma non ha molta voglia di andarci, egli non la starebbe ingannando quando le disse che era d’accordo sul fatto che doveva andare; può anche essere d’accordo sul fatto che gli farebbe piacere vedere il film, sebbene non si sente così fortemente motivato ad andarci. Invece se egli avesse detto a Clara che doveva pagare Dora, ma tuttavia egli non aveva un motivo per farlo, allora egli non sarebbe sincero nell’affermare che dovrebbe pagare Dora. Questi differenti rapporti con le motivazioni distinguono il senso morale dal senso ipotetico di dovere.
Se Anscombe accetta questa argomentazione, accetta che il “dovere” morale, ma non prudenziale, abbia un significato imperativo, così che il suo significato include un imperativo indirizzato a se stesso (nel caso della prima persona) o a un altro (nel caso della seconda persona). Questa analisi del “dovere” morale è un elemento familiare del prescrittivismo di Hare, e può essere stato anticipato da Hume.11 Dato che Anscombe non è solitamente un’entusiasta della prospettiva di Hare, potremmo essere riluttanti ad attribuirle questa analisi prescrittivista del dovere “morale”. Ma è difficile capire cosa altro sosterrebbe la sua asserzione che “dovere” ha un diverso senso morale quando è usato per esprimere giudizi morali.12
Se Anscombe accetta un’analisi prescrittivista del “dovere” morale, alcune delle altre osservazioni circa questo uso del “dovere” sono più facili da comprendere. Essa suggerisce che, in assenza di un legislatore divino, Hume è corretto nel dire che non possiamo derivare “deve moralment...

Table of contents

  1. Sommario
  2. Presentazione
  3. Prefazione dell’autore
  4. Capitolo 1Introduzione
  5. Capitolo 2Prichard
  6. Capitolo 3Anscombe
  7. Capitolo 4Teoria della Virtù
  8. Capitolo 5Ripensamenti su Anscombe
  9. Capitolo 6Ripensamenti su Prichard
  10. Capitolo 7Ripensamenti sulle Virtù
  11. Capitolo 8La Felicità e il Bene
  12. Capitolo 9Aristotele e alcuni scolastici sul Bene
  13. Capitolo 10Conclusione
  14. Bibliografia