Pensando il lavoro
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Contributi a carattere prevalentemente filosofico

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Pensando il lavoro

Contributi a carattere prevalentemente filosofico

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Il lavoro è un tema che appare sempre più attrarre gli studi filosofici. In particolare, emerge oggi la tendenza a non valutare il lavoro solo dal punto di vista del risultato e in termini di efficienza. Vi alludono già un insospettato F. Nietzsche (Così parlò Zaratustra), per il quale il lavoro può divenire un agire perfettivo (praxis teleia, in Aristotele) un bene e un fine, e non solo mezzo: «cercasi lavoro per un salario: in ciò tutti gli uomini sono uguali; per tutti il lavoro è mezzo e non fine in sé […]. Esistono però uomini rari che preferiscono morire, piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza piacere di lavorare: sono quegli uomini dai gusti difficili, di non facile contentatura, ai quali un buon guadagno non serve a nulla, se il lavoro stesso non è il guadagno dei guadagni».A Nietzsche si aggiunge Ch. Péguy (Il denaro): «un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice ad un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta […]. Non occorreva fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone, ma essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura […]. Un assoluto, un onore, esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva doveva essere lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano».È chiaro però che il fine in sé non è tanto il lavoro, in quanto ben fatto, ma il retto amore verso sé stessi, quando ci si mette in gioco, nel lavoro ben fatto al servizio degli altri. Il lavoro è formativo della persona.In occasione del 500º anniversario della Riforma protestante, il Convegno The Heart of Work (Roma, 19-20 ottobre 2017), organizzato dalla Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce e dal centro di ricerca Markets, Culture and Ethics, ha cercato di approfondire l'idea cristiana del lavoro professionale. Con gli scritti raccolti in questo II volume degli Atti del Convegno The Heart of Work si vuole offrire un contributo filosofico allo sviluppo di un'anima del lavoro professionale.In vari contributi del volume emerge la figura di san Josemaría Escrivá (1902-1975), che ha indicato nella santificazione del lavoro il cardine della santità nella vita quotidiana. Emerge la presenza della stessa theoria, nell'esercizio del lavoro, che già Aristotele preconizza, quando include la tekne tra le virtù intellettuali (dianoetiche): la possibilità di ideare e contemplare il progetto dell'opera, prima ancora della sua realizzazione. La "contemplazione" nel lavoro si può poi sviluppare ed estendere in diversi ambiti, ivi quello religioso.

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III. Fenomenologie del lavoro: esistenziale, relazionale, etica, psicologica, narrativa e giuridica

l. 2

Capitolo 9
Un buon manager deve essere virtuoso? Una riflessione sulle chiavi del successo al di là del paradigma dell’individualismo

l. 2
Vincenzo Arborea e Gaetano Vecchione
Rispettivamente: Pontificia Università della Santa Croce (Roma) e Università degli Studi di Napoli - Federico II.

9.1 Introduzione

l. 8
Nella primavera del 2017, durante un corso di business ethics, abbiamo rivolto una domanda a 80 giovani studenti di una Business school: «Qual è il tuo sogno nel cassetto?».1 Dopo tre minuti di riflessione personale, ciascuno poteva fornire un numero illimitato di risposte; l’intenzione era suddividere queste aspirazioni in tre ambiti: sviluppo professionale, realizzazione personale, responsabilità sociale. La sorpresa è stata notevole nel constatare che un solo “sogno”, dei più di 200 proposti dai ragazzi, rientrava nel terzo ambito. Ci è sembrata una conferma della rilevanza, almeno nel mondo occidentale, dell’individualismo.2
La dicotomia tra interessi personali e bene sociale sembra piuttosto radicata. Come spiegare a dei giovani che si affacciano al mondo delle professioni, le ragioni che dovrebbero convincerli a mettere in secondo piano le proprie aspirazioni di carriera, di successo, di realizzazione personale a vantaggio di un bene comune che appare piuttosto aleatorio? Perché un professionista dovrebbe esercitare comportamenti virtuosi anche quando ne vanno di mezzo i propri interessi che potrebbero essere maggiormente tutelati anche senza varcare i limiti della legalità? Si può definire ciò che è legale in base a un criterio che massimizza il benessere soggettivo e l’esercizio della libertà individuale?

9.2 Individuo e comunità nelle principali scuole di pensiero

l. 13
Nel corso degli ultimi secoli molti filosofi della politica hanno tentato di dare una risposta alla domanda su quale debba essere il criterio per la costruzione di una società giusta. In estrema sintesi, edificare una società giusta vuol dire interrogarsi sulle modalità utilizzate per distribuire ciò che considera importante: diritti e doveri, ricchezza, potere e occasioni, cariche e onori.3 Adottando una chiave interpretativa economica, riferita alle modalità distributive, e con un notevole sforzo di sintesi, potremmo ridurre a tre i paradigmi principali e le scuole di pensiero che hanno tentato di dare una risposta a questo interrogativo: la scuola dell’utilitarismo, quella del liberalismo e quella comunitarista.
Ognuna di queste scuole ha alla base un principio filosofico e una visione antropologica precisa che costituisce il cardine nel giudizio dell’azione morale e, di conseguenza, nel giudizio delle scelte politiche ed economiche di un policy maker. Tali scelte politiche e convinzioni economiche sono figlie di un pensiero filosofico, molto spesso tanto semplice quanto potente, che è in grado di governarle senza che se ne percepisca pienamente l’influenza. A tal proposito John Maynard Keynes affermava:
“Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”.4
Questa affermazione ci porta a ribadire un altro concetto, spesso dimenticato dagli studiosi di economia, dagli operatori della finanza e dal mondo degli affari: l’economia è una scienza sociale e non una scienza esatta. La conseguenza è che, nei suoi “esperimenti”, essa non può adoperare gli stessi metodi delle scienze sperimentali o, almeno, non può adottare ipotesi sui comportamenti degli agenti economici (consumatori, famiglie e imprese, ad esempio) senza utilizzare un paradigma filosofico-antropologico. L’economia, in quanto scienza sociale, non è neutrale ma portatrice di valori e principi che discendono da visioni filosofiche precise e ben delineate. Per questa ragione riteniamo importante un ritorno alla matrice filosofica degli studi economici per comprenderne il significato senza limitarsi agli aspetti, pur necessari e di centrale importanza, che riguardano la sfera più tecnica e specialistica della disciplina.5
In generale, sia la scuola liberale che quella utilitarista, hanno una matrice spiccatamente individualista mentre la scuola comunitarista ha una connotazione differente perché si rifà a principi e valori “superiori” all’individuo che devono essere definiti dalla società, dalla comunità. Da un lato prevale una visione neutrale della politica e dell’economia, entrambe esclusivamente asservite al perseguimento degli obiettivi che puntano a massimizzare l’utilità o la libertà dell’individuo; dall’altro emerge una visione capace di definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è buono e ciò che non lo è, almeno per una comunità di individui.
Queste differenti visioni sono incorporate negli ordinamenti giuridici di un Paese e influenzano la sua cultura collettiva, il suo senso comune e, in ultima analisi, il comportamento dei singoli individui. Se si vuole operare una riflessione approfondita sull’individualismo e sull’impatto che esso esercita sulle azioni delle persone, e in particolare su quelle degli agenti economici, è opportuno interrogarci su un semplice quesito: qual è l’obiettivo verso il quale il sovrano, i policy maker, gli agenti economici tendono? Qual è il principio che regola i comportamenti e i rapporti in ambito economico? Profitto, denaro, libertà, equità, benessere, giustizia sociale, distribuzione… sono alcune delle parole chiave di un complesso puzzle che dobbiamo ancora imparare a comporre.
Liberalismo e libertarismo. Il liberalismo assume come fondamento di una società giusta la difesa dei diritti individuali e la tutela della libertà dell’individuo.6 Se John Locke (1632-1704) è considerato il padre del liberalismo classico, Adam Smith (1723-1790) è ritenuto il fondatore dell’economia e uno dei primi teorizzatori del liberalismo economico.7 Per la potenza e l’originalità delle intuizioni di Smith e per ragioni legate all’egemonia politica e culturale del tempo, il suo pensiero si è poi diffuso in tutto il mondo e costituisce ancora oggi uno dei fondamenti della moderna concezione di economia e teoria economica.8 Di fondamentale importanza è anche il contributo di John Stuart Mill (1806-1873) che, oltre a essere utilitarista e allievo di Jeremy Bentham (1749-1832), è considerato uno dei massimi esponenti del liberalismo. La moderna cultura è imperniata del pensiero di Mill, soprattutto per quanto attiene al nostro modo di concepire la libertà in relazione alla convivenza civile tra individui. Dobbiamo a lui, ad esempio, l’idea che ogni individuo è libero di perseguire la propria felicità come meglio crede e che nessuno può impedirglielo anteponendo argomentazioni diverse o contrarie alla libera volontà dell’individuo stesso, almeno fino al punto in cui non si arrechi danno all’altro. Uno dei suoi saggi più importanti, On Liberty (1859), è considerata una della pietre miliari del moderno liberalismo. Il liberalismo ha poi conosciuto la sua forma più piena con il libertarismo della cosiddetta scuola austriaca. Carl Menger (1840-1921), Ludwig von Mises (1881-1973), Friedrich von Hayek (1899-1992), Milton Friedman (1912-2006) e Robert Nozick (1938-2002) sono stati i più importanti esponenti di questa scuola che ha fatto del cosiddetto individualismo metodologico, la chiave interpretativa prediletta per condurre analisi sociali, economiche e politiche. Con un certo grado di generalizzazione, possiamo affermare che questa scuola si oppone drasticamente a ogni forma di intervento pubblico di impostazione paternalista arrivando ad affermare che gli unici ambiti di “pertinenza pubblica” sarebbero la sicurezza e la garanzia dell’eseguibilità dei contratti.9 Queste tesi non hanno avuto un grande seguito...

Table of contents

  1. Indice
  2. Presentazione
  3. I. Le relazioni principali
  4. II. Il lavoro e i suoi dilemmi, nell’analisi di singoli pensatori
  5. III. Fenomenologie del lavoro: esistenziale, relazionale, etica, psicologica, narrativa e giuridica
  6. IV. Tra filosofia e teologia: tematiche interdisciplinari