Capitolo V
Questioni fondamentali di economia politica
1. Perché parlare di economia?
Il lettore potrebbe chiedersi perché trattare di economia in un libro di etica politica. La risposta più immediata è che basta guardare un giornale o un telegiornale di qualsiasi paese per vedere che buona parte degli atti del governo e del parlamento si riferiscono a questioni economiche: contratti di lavoro, salario minimo, contenimento del deficit per l’anno in corso, emissione di debito pubblico, legge di bilancio, investimenti pubblici, ecc. Queste e altre questioni, insieme alle decisioni delle autorità monetarie (Banca Centrale Europea, banche centrali nazionali) riguardanti il tasso di interesse, l’attività delle banche, ecc., costituiscono la politica economica dello Stato, il cui studio è oggetto di una parte della scienza economica chiamata economia politica. Questa disciplina si occupa di questioni rilevanti: se il governo deve avere una politica economica, quali sono i principi a cui si deve ispirare questa politica, in che misura lo Stato deve intervenire nelle questioni economiche, quali effetti ha l’intervento statale sull’economia reale, e così via. La posizione assunta sulla politica economica deriva da ciò che si considera giusto in sede di etica politica. Ecco perché dobbiamo occuparci dell’economia politica.
Nella politica economica, gli orientamenti ideologici, le esigenze etiche e le varie teorie economiche convergono. Un’ideologia marxista o socialista radicale implica che lo Stato sia il proprietario dei mezzi di produzione e che un organismo centrale sia responsabile della pianificazione di tutta l’attività economica della nazione. Questo organismo di pianificazione economica decide cosa si produce, come si produce, per chi si produce, stabilisce i salari, cosa si compra e si vende, e a che prezzo si compra e si vende.
Le esigenze etiche dipendono soprattutto dalla concezione della giustizia sociale, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Chi pensa che la giustizia sociale sia soprattutto uguaglianza economica, penserà anche che sia compito dello Stato portare avanti una politica di forte redistribuzione del reddito. D’altra parte, coloro che hanno una concezione della giustizia sociale come quella che abbiamo difeso nel capitolo precedente penseranno che la missione dello Stato sia quella di stabilire un insieme di leggi che garantiscano uno sviluppo secondo giustizia di tutte le attività economiche dei cittadini, che la povertà possa essere combattuta efficacemente e che la libera iniziativa economica non sia ostacolata da fattori che distorcono la libera collaborazione dei cittadini nel mercato.
Quando si deve tradurre una concezione della giustizia in politiche specifiche, entrano in gioco anche questioni di teoria economica. Le concezioni della giustizia indicano alcuni obiettivi che dovrebbero essere perseguiti, ma la determinazione dei mezzi concreti per raggiungere questi obiettivi dipende in larga misura dalla teoria economica assunta a principio. È facile essere tutti d’accordo sul fatto che sia necessario ridurre il livello di disoccupazione. Ma questo non significa che tutti saranno d’accordo sulle misure economiche da intraprendere, perché queste dipendono in gran parte da questioni di teoria economica. E, d’altra parte, le misure economiche che si prendono possono determinare diversi stili di vita, e quindi finiranno per avere ripercussioni etiche; la politica economica può incoraggiare il risparmio o il consumo, può rendere i cittadini più responsabili o può renderli meno responsabili, come succede quando una politica di credito poco saggia incoraggia le persone a spendere più di quanto in realtà hanno.
La confluenza di elementi ideologici, etici ed economici ha dato origine a tre sistemi o modelli di politica economica: l’economia di mercato, il socialismo reale, o economia pianificata centralizzata, e il sistema misto, in cui coesistono elementi di economia di mercato e di interventismo statale. Quest’ultimo modello è il più diffuso nella maggior parte dei paesi, ed è per questo che lo studieremo più in dettaglio, dopo aver trattato brevemente il socialismo reale e l’economia di mercato.
2. Il socialismo reale o economia pianificata centralizzata
Dopo quanto detto nella sezione 3 del capitolo II e nel capitolo IV, dal mio punto di vista c’è poco da aggiungere su questo sistema economico. È incompatibile con una società libera, perché l’assenza di libertà economica comporta la negazione di tutte le altre libertà: personale, sociale, religiosa, ecc. D’altra parte, l’esperienza storica ci mostra che anche dal punto di vista economico questo sistema è destinato al fallimento. Finisce per produrre povertà, dolore e morte. Come è successo in Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa dell’Est, l’impossibilità di realizzare un calcolo economico all’interno di questo sistema finisce per esaurire le risorse umane e materiali del paese, per quanto grande e ricco possa essere. Forse c’è ancora chi potrebbe essere sedotto dalle promesse di un mondo migliore, più giusto, dove tutto è abbondanza e il dolore e la fatica spariscono: una favola che la storia ha dimostrato essere un triste e doloroso inganno.
Bisogna riconoscere, tuttavia, che alcune delle idee alla base del socialismo reale persistono, forse non molto consapevolmente, nella mentalità di molti dei nostri contemporanei. E ciò si nota dalla sfiducia e dal tono etico negativo con cui sono visti l’impresa privata e gli imprenditori. Se esce la notizia, per esempio, che un famoso giocatore di calcio o un artista del cinema ha un reddito annuale molto alto, nessuno solleva alcuna obiezione. Lo stesso non accade per un’azienda o un imprenditore che realizzano elevati profitti. L’idea marxista che la ricchezza dell’imprenditore possa venire solo dallo sfruttamento dei lavoratori è ancora endemica e vi deriva il giudizio etico negativo con cui molti qualificano l’attività imprenditoriale. Vale la pena fermarsi a chiarire questo punto.
Marx parte dall’idea che il valore economico (il valore di scambio, il prezzo, semplificando un po’) di una merce dipende esclusivamente dal lavoro materiale (lo sforzo dei muscoli e del cervello) necessario per produrla. Solo i lavoratori, quindi, producono valore economico e, se l’azienda per cui lavorano fa profitti, ciò significa che i lavoratori non sono pagati in base a tutto il valore che producono. Si tratta del famoso “plusvalore”, ovvero quel valore che l’imprenditore o il capitalista sottrae ai lavoratori che lo producono.
Marx, in fondo, si rende conto che questa idea non corrisponde all’esperienza e che difficilmente resiste a una serena analisi della realtà economica. E infatti procede in modo piuttosto astratto, rifacendosi addirittura ad Aristotele. Secondo lo stagirita, gli scambi presuppongono una certa uguaglianza tra ciò che si dà e ciò che si riceve, e questa uguaglianza presuppone la commensurabilità, perciò il denominatore comune di tutte le merci scambiate nel mercato è il lavoro fisico necessario a produrle: una merce che richiede 100 ore di lavoro vale il doppio di una che ne richiede 50.
E. Böhm-Bawerk criticò in modo molto convincente la teoria del valore formulata da Marx, affermando che essa derivava da una lettura parziale degli economisti classici come Adam Smith e David Ricardo. Segnaliamo solo alcuni dei punti più importanti.
Marx assume un concetto molto ridotto di merce. Considera come tali solo i prodotti manufatti venduti sul mercato. Ma il concetto di bene economico è molto più ampio: terra, minerali (oro, argento), acqua, beni capitali (macchine, tecnologia), ecc. Marx intende per lavoro solo lo sforzo fisico dell’operaio non qualificato, che sarebbe il denominatore comune che si misura solo con il tempo. Ma vale la pena chiedersi: 10 ore di lavoro di uno scalpellino valgono quanto 10 ore di lavoro di uno scultore o di un chirurgo altamente specializzato? Inoltre, se un lavoratore produce una merce in 25 ore e il datore di lavoro gli fornisce un’attrezzatura tecnologica con la quale può produrre la stessa merce in 12 ore e mezza, il prodotto sarà venduto sul mercato alla metà del prezzo? L’attrezzatura tecnologica che il datore di lavoro fornisce al lavoratore non produce valore?
Affinché il lavoratore produca, un imprenditore deve studiare il mercato, deve progettare il prodotto (un nuovo tipo di processore per computer, un nuovo modello di automobile), deve rischiare l’investimento del proprio capitale, deve fornire le attrezzature per produrre, deve gestire la pubblicità, lo stoccaggio, la distribuzione e la vendita dei prodotti. Non è tutto questo lavoro? Anche l’imprenditore lavora, il suo lavoro è altamente qualificato, richiede molte conoscenze e comporta una grande quantità di rischi. Paga al lavoratore il suo salario immediatamente, anche se i suoi prodotti cominceranno ad essere venduti fra tre anni; quindi anticipa a interesse zero l’equivalente monetario del valore prodotto dal lavoratore. Il denaro che l’imprenditore eventualmente guadagnerà corrisponde al lavoro che ha svolto, lavoro che permette anche la creazione di occupazione per i lavoratori. Se l’azienda cresce, si crea più occupazione. Se i profitti sono sufficienti per investire in tecnologia, la produttività aumenta e quindi anche i salari dei dipendenti potrebbero aumentare. D’altra parte, con il calcolo della produttività marginale è possibile sapere abbastanza accuratamente qual è il valore monetario corrispondente al lavoro di ogni dipendente.
Marx omette dalla sua considerazione il valore d’uso dei...