V. Oltre i vincoli della gravità: Kazimir Severinovič Malevič e Michail Afanas’evič Bulgakov
Il tema del volo è un motivo conduttore costantemente presente nell’arte e nella letteratura russa. Nel 1865 Ivan Sergeevič Turgenev pubblica il racconto lungo Prizraki (Fantasmi) un eroe del quale spicca il volo verso Roma guidato da una misteriosa figura notturna, quella di Ellis, in grado di sollevarlo verso altezze vertiginose. Giunto al di sopra della città eterna sente salire, dalla folla carnevalesca che ondeggia orizzontalmente, un vociare ossessivo che rischia di turbare e spezzare il fragile incantesimo verticale stabilitosi tra lui e Ellis, il solo in grado di tenerlo in equilibrio sospeso nel volo. Superato questo rischio il suo viaggio nel cielo prosegue e l’eroe ritrova una nuova sicurezza, riesce a ristabilire l’armonioso equilibrio che aveva rischiato di perdere riconquistandolo proprio nel momento in cui sente di essere giunto con la sua guida al di sopra della placida orizzontalità dello specchio lacustre del lago Maggiore. Qui risuonano musiche che riescono a cancellare il tormentoso ricordo del vociare romano e finiscono per fondersi armoniosamente con il suono di melodiose canzoni italiane. Come dire che la verticalità e il volo verso l’alto si possono conquistare e mantenere soltanto in una situazione nella quale l’orizzontalità della vita quotidiana non sia investita da un eccessivo frastuono, tale da impedire ogni forma di pacata riflessione e da spegnere il desiderio dell’ascesa.
L’espressione più conosciuta e riuscita di questo leitmotiv è però certamente il capolavoro di Michail Bulgakov Il Maestro e Margherita. L’autore iniziò a scriverlo nel 1928, ma la prima versione venne distrutta, bruciata in una stufa, come attesta egli stesso, allorché fu informato della censura che avrebbe colpito la sua opera a causa del contenuto, giudicato cabalistico. Bulgakov si rimise al lavoro nel 1931, completando cinque anni dopo la seconda redazione, in cui l’intreccio era già solido e simile a quello definitivo. La terza scrittura dell’opera venne ultimata nel 1937, ma Bulgakov continuò a mettere mano al romanzo e a “ripulirlo” con l’aiuto della terza moglie Elena Šilovskaja. Smetterà di lavorare sulla quarta stesura solo quattro settimane prima della sua morte, nel 1940, e così Il Maestro e Margherita verrà ultimato dalla moglie nel 1941 e da lei, sfollata durante la guerra a Tashkent, conservato in un unico esemplare che veniva prestato di tanto in tanto a qualche fidato amico. Tra questi la poetessa Anna Achmatova che lo leggeva ad alta voce all’attrice Faina Ranevskaja, continuando a ripetere: «È geniale, Faina, Bulgakov è un genio!».
Il tema della distruzione del romanzo viene ripreso anche all’interno del libro, nella storia d’amore tra il Maestro e Margherita, sfondo dell’intera vicenda che introduce il lettore in una situazione paradossale, caratterizzata dall’intersezione di tre mondi: quello della Russia contemporanea all’autore, la Mosca del 1929 che si intreccia con la vicenda di Ponzio Pilato durante la prigionia e il processo a Yeshua: a governare, però, l’intera trama è un terzo mondo, quello sovrannaturale, privo di tempo, da cui proviene uno dei protagonisti chiavi del romanzo, Woland-Satana, sovrano di un mondo ultraterreno, accompagnato da una corte bizzarra: un grosso e grasso gatto nero, in grado di parlare, paggio e giullare del suo Signore il cui nome Behemoth richiama sia il mostro biblico descritto da Giobbe, sia l’assonanza con Begemot, che in russo significa ippopotamo; un maggiordomo, Korov’ev, che è solito affiancare Behemoth nelle scorribande magiche; un sicario molto particolare, Azazello, dall’ebraico “colui che è sfrontato verso Dio”, un uomo con un occhio solo e una zanna, al quale egli ricorre per compiere il suo volere; e la bella strega Hella, sua cameriera personale. Questo eterogeneo gruppo si muove e agisce sullo sfondo di una Mosca grigia, sonnolenta, sospesa tra il pubblico, formalmente devoto ai valori sociali del comunismo, e il privato, governato da un meschino egoismo, e dalla segreta disponibilità a vendere anche l’anima pur di arricchirsi.
Woland con la sua calata a Mosca si propone di punire coloro che hanno deriso il Maestro, di cui è il protettore e futuro liberatore, mettendo alla prova e alla berlina i vari personaggi, soprattutto i pigri funzionari, fidati e sciocchi guardaspalle dei censori che rifiutano la verità perché ciechi e rinnegano la creatività e la fantasia, ritenendole il frutto di un inutile e pericoloso volo pindarico. La condanna del volo: questa la motivazione principale che ha indotto il popolo di Mosca a rinchiudere ingiustamente lo scrittore in un manicomio, etichettandolo come pazzo: e qui scatta l’analogia con il popolo di Gerusalemme, istigatore della condanna e dell’esecuzione di Yeshua Na-Ha Nosri, con la prima sovrapposizione spazio-temporale, realizzata dal racconto di Woland, che dice di essere stato presente sul balcone del palazzo del Quinto procuratore di Giudea e di aver assistito al dialogo tra Pilato e Yeshua, e quindi si presenta come un testimone oculare della veridicità dei fatti avvenuti a Gerusalemme «nel primo mattino del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan». Questo che sembra un ampio flashback in realtà, come scopriremo, non è altro che un capitolo del romanzo del Maestro. I fatti raccontati sono pertanto la “verità” del Maestro che si interseca con la verità storica dell’esistenza di Cristo.
Yeshua non è descritto come il figlio di Dio, ma come una persona capace di andare oltre l’apparenza delle cose e di vedere ciò che sfugge all’occhio umano. Così a Ponzio Pilato, che durante il primo incontro con lui gli chiede «Che cos’è dunque questa verità» dà una risposta allusiva e piena di chiavi di lettura: «La verità è, prima di tutto, che ti duole la testa, e ti duole così forte che tu pensi vilmente alla morte. Tu non sei in grado non solo di parlare con me, ma fai fatica perfino a guardarmi. E in questo momento io mi sto trasformando nel tuo boia, cosa che mi addolora. Non riesci a pensare a niente e sogni solo di avere vicino il tuo cane, l’unico essere a cui sei legato. Ma le tue sofferenze ora finiranno, il male di testa passerà».
Questa espressione della verità del “sentire”, frutto dell’intuizione, contrapposta alla verità come dato oggettivo e inconfutabile, esito di un processo argomentativo, richiama in modo trasparente la definizione antinomica della verità medesima fornita da Pavel Florenskij nella lettera sesta, dedicata alla contraddizione, della sua celebre opera del 1914 Stolp i utverždenie Isdtiny. Opyt pravoslavnoj feodicej v dvenadcati pid’mach (La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere). Qui infatti egli scrive che «la verità è quel giudizio che racchiude in sé anche il limite di tutto ciò che lo può causare, in altre parole che la verità è un giudizio autocontraddittorio […] La verità è contraddizione per il raziocinio, contraddizione che diventa evidente appena la verità riceve una formulazione verbale. Ciascuna delle proposizioni contradittorie è contenuta nel giudizio della verità e perciò la presenza di ciascuna di esse è dimostrabile con il medesimo grado di pervasività, ovvero con necessità. Tesi e antitesi costituiscono insieme l’espressione della verità: in altre parole la verità è antinomica e non può non essere tale».
Nella seconda lettera delle dodici nelle quali si articola l’opera, dedicata al “Dubbio”, Florenskij trae le conclusioni da questa natura antinomica, fissando, prima di tutto, le «condizioni speculative» da soddisfare per poter dar luogo effettivamente all’esperienza della verità. Esse sono le seguenti:
1) la Verità assoluta esiste, cioè è assoluta realtà;
2) essa è conoscibile, cioè è assoluta ragionevolezza;
3) essa è data come fatto, cioè è l’intuizione finale; ma è anche assolutamente
dimostrata e quindi ha la struttura di un infinito discorso.
L’analisi ci dice che la terza tesi implica le altre due. Infatti se la Verità è intuizione, significa che esiste; se la Verità è discorso significa che è conoscibile. Infatti l’intuitività è l’immediatezza effettiva dell’esistenza, mentre la discorsività è la possibilità ideale della conoscibilità. Quindi tutta la nostra attenzione deve concentrarsi sulla tesi duplice nella forma, ma unica nell’idea: «La Verità è intuizione, la Verità è discorso», o semplicemente:
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