No, non sono ancora morto
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No, non sono ancora morto

L'autobiografia

Phil Collins, Michele Piumini, Anna Mioni

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No, non sono ancora morto

L'autobiografia

Phil Collins, Michele Piumini, Anna Mioni

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No, non sono ancora morto è l'autobiografia sincera, ironica e senza filtri di Phil Collins: le canzoni e i concerti, i successi e i fiaschi, l'ascesa al top delle classifiche e nei titoli dei giornali. Collins è uno dei pochissimi artisti ad aver venduto oltre cento milioni di dischi, ma, pur appartenendo da tempo all'aristocrazia del pop, non ha mai perso la capacità di scrivere canzoni in grado di arrivare al cuore degli ascoltatori di tutto il mondo.

La sua è la storia di una carriera leggendaria: seduto dietro un tamburo prima ancora di imparare a camminare, dopo la gavetta negli squallidi ma elettrizzanti locali della Swinging London degli anni Sessanta Collins diventò il batterista dei Genesis. Più tardi, con il congedo di Peter Gabriel dal gruppo, si sarebbe guadagnato la luce dei riflettori imponendosi come cantante, e avrebbe raggiunto fama mondiale come solista e compositore con l'uscita di «Face Value» e In the Air Tonight.

Che si tratti di partecipare a una jam session con Eric Clapton o con Robert Plant, di mettere insieme una big band con Tony Bennett come frontman, di esibirsi due volte nello stesso giorno al Live Aid o di comporre della musica per il blockbuster disneyano Tarzan, premio Oscar alla migliore colonna sonora, Collins mantiene sempre un rapporto intimo con la propria musica, e la sua capacità di raccontare, con le note e con le parole, coglie sempre nel segno.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2016
ISBN
9788852077098
1

Non annegavo, facevo ciao

Ovvero: i miei inizi, la mia infanzia, e di come nel rapporto con mio padre ci fosse un po’ di maretta
Non annegavo, facevo ciao
Siamo convinti che le mamme e i papà sappiano tutto. Ma in realtà se lo inventano strada facendo. Ogni giorno improvvisano, si buttano, fanno buon viso a cattivo gioco (spesso per finta). È una cosa che ho sospettato per tutta l’infanzia, eppure mi viene confermata solo da adulto, e solo con un po’ di aiuto dall’aldilà.
In una grigia sera d’autunno del 1977 sono andato a consultare una medium. Vive a Victoria, nel centro di Londra, dalle parti della zona malsana dietro Buckingham Palace, in un appartamento quasi in cima a un palazzone. Non è la carovana degli zingari, ma immagino che lei si senta più vicina al paradiso.
Non ho una predilezione particolare per gli spiriti (mi verrà molto più tardi e sarà una dipendenza dallo spirito alcolico), però a mia moglie Andy non dispiacciono. Neanche mia madre è del tutto aliena alla tavoletta Ouija. A casa nostra, ai margini occidentali della periferia londinese, mia madre, la nonna e la zia, insieme ai miei cosiddetti zii Reg e Len, tra gli anni Cinquanta e Sessanta passarono più di un’allegra serata a evocare i cari estinti dall’aldilà. Di sicuro era meglio delle grame proposte in bianco e nero che sfarfallavano da quella televisione nuova e strana.
Il motivo per cui io e Andy andiamo a trovare questa Madame Arcati dei palazzoni è un cane briccone. Ben, il nostro bel boxer, aveva l’abitudine di trascinare fuori da sotto il nostro letto una pila di coperte elettriche. Le teniamo da parte per i nostri figli, Joely di cinque anni e Simon di uno, per quando smetteranno di bagnare il letto e avranno bisogno di un po’ di calore in più. Non mi è passato per l’anticamera del cervello che le coperte elettriche promettono ben più di un letto caldo: i fili piegati possono spezzarsi e prendere fuoco. Forse Ben lo sa.
Andy arriva alla conclusione che il rituale serale di Ben contenga elementi soprannaturali. Non che sia un veggente, ma di sicuro c’è qualcosa che noi umani non sappiamo.
In quel periodo sono presissimo a fare concerti con i Genesis: abbiamo pubblicato il nostro album «Wind & Wuthering» e da poco ho ereditato il ruolo di cantante solista da Peter Gabriel. Sono spesso un padre e un marito assente, e pertanto mi sento sempre in difetto riguardo alle questioni domestiche e familiari. Quindi non oppongo alcuna resistenza a questa linea di condotta poco ortodossa.
E allora ecco che andiamo da una medium. Victoria brulica di gente; nell’ascensore del palazzone suoniamo il campanello, parliamo del più e del meno con il marito che sta guardando «Coronation Street». Non riesco a immaginarmi niente di meno spirituale. Finalmente lui si stacca dalla tv e mi fa un cenno: «Adesso può riceverla...».
Appollaiata dietro un tavolino, la medium è una casalinga dall’aria banale. Nessun segno di doti soprannaturali. Anzi, ha un aspetto del tutto ordinario. Questo mi manda completamente nel pallone e in un certo senso mi delude, e ora il mio scetticismo si manifesta con un lampo di sconcerto e un pizzico di irritabilità.
Dato che gli oracoli i-ching interrogati da Andy l’hanno informata che sono gli spiriti della mia famiglia a infastidire il cane, l’ingrato compito di entrare nelle sale del soprannaturale tocca a me. A denti stretti racconto alla medium le imprese notturne di Ben. Lei annuisce con aria solenne, chiude gli occhi, lascia passare un intervallo di tempo significativo, infine risponde: «Si tratta di suo padre».
«Come ha detto?»
«Sì, si tratta di suo padre che vuole che lei si prenda alcuni oggetti: il suo orologio, il suo portafoglio, la mazza da cricket di famiglia. Vuole che chieda al suo spirito di parlare tramite me? Così potrebbe sentire la sua voce. Ma a volte gli spiriti non vogliono andarsene, allora la situazione diventa imbarazzante.»
Farfuglio un no. Già la comunicazione con il mio defunto padre non era il massimo quando era in vita, parlargli adesso, quasi cinque anni dopo la sua morte nel Natale del 1972, tramite una casalinga di mezza età in un’ambientazione domestica incolore e sconcertante in un palazzone nel centro di Londra, sarebbe semplicemente strambo.
«Be’, dice di portare dei fiori a sua madre, e di dirle che gli dispiace.»
Naturalmente, dato che ero un ventiseienne piuttosto razionale a cui piacevano le cose concrete e irreggimentate (del resto faccio il batterista) avrei dovuto liquidare il tutto come frottole da ciarlatani. Ma concordo che potrebbe esserci del soprannaturale nel fatto che il nostro cane si ostina a trascinare fuori le coperte elettriche da sotto il letto. E per giunta Madame Arcati ha detto delle cose su mio padre che non poteva sapere, soprattutto quella sulla mazza da cricket. Quella mazza da cricket ha fatto parte delle scarse attrezzature sportive del clan Collins da sempre. Al di fuori della famiglia nessuno ne conosceva l’esistenza. Non dirò che ero convinto, ma sicuramente incuriosito. Io e Andy ci congediamo dall’anticamera dell’aldilà e rientriamo nel mondo reale. Tornati sulla terraferma, le racconto le novità. La sua reazione è uno sguardo chiaro tanto per i vivi quanto per i morti: «Te l’avevo detto».
Il giorno dopo telefono a mia madre e le riferisco gli accadimenti della sera prima. È una donna di indole allegra, e non la sorprendono né il mezzo né il messaggio. «Scommetto che vuole farmi avere dei fiori» dice, mezzo ridendo e mezzo schiarendosi la gola. A quel punto lei vuota il sacco. Mio padre, Greville Philip Austin Collins, non è stato un marito fedele per mia madre, June Winifred Strange in Collins. Era stato assunto a diciannove anni dalla London Assurance Company nella City di Londra, come suo padre, e ci aveva lavorato per tutta la vita. E «Grev» aveva usato la sua esistenza quotidiana di pendolare con la bombetta dalle nove alle cinque per mantenere una doppia vita con una ragazza del suo ufficio.
Papà non era un donnaiolo o uno smaccato rubacuori. Era un po’ tracagnotto, e i baffoni da aviatore non compensavano molto i capelli radi. Evidentemente ho preso la mia bellezza dalla mamma.
Ma, a quanto pare, dietro l’apparenza dell’assicuratore cortese si nascondeva un’indole da libertino. La mamma mi racconta un episodio specifico. Alma Cole era una signora adorabile che lavorava con lei nel negozio di giocattoli che gestiva per conto di amici di famiglia. Alma era del Nord dell’Inghilterra e quando parlava aveva sempre un tono cospiratorio.
Lei e mia madre erano amiche, e un giorno Alma, un po’ scocciata, si lamentò: «Sabato ti ho vista in macchina con Grev e non mi hai nemmeno salutata». «Mai stata in macchina con lui sabato!» Evidentemente la passeggera era l’amichetta di mio padre, che lui stava portando a fare una gita romantica sulla nostra Austin A35.
Ora, quasi cinque anni dopo la morte di papà, anche se trovo fantastico che mia madre si stia confidando così con me, sentire quelle rivelazioni mi rattrista e mi fa infuriare al tempo stesso. Ora so che il matrimonio dei miei non si è sciolto ma si è ammosciato, in parte perché mio padre era, per così dire, occupato altrove. La sua infedeltà per me era una cosa del tutto nuova.
E non poteva essere altrimenti: quando è successo ero ragazzino, e a me i miei genitori erano sempre sembrati felicissimi. La vita a casa nostra mi appariva calma e normale. Semplice, diretta. Nella mia testa, mamma e papà erano stati felici e innamorati per tutta la durata della loro lunga vita matrimoniale.
Però io sono il piccolino di casa, ho quasi sette anni meno di mia sorella Carole e nove meno di mio fratello Clive. Probabilmente alcuni aspetti adulti della vita familiare mi sono passati sopra la testa. Ora, considerando i fatti che avevo davanti quella sera del 1977, credo di riuscire a intuire una corrente sotterranea di agitazione in casa, qualcosa che all’epoca mi era completamente sfuggito. Ma forse la corrente era quella nelle mie lenzuola: ho bagnato il letto tutte le notti fino a un’età imbarazzante.
In seguito, quando riferisco quella notizia sconvolgente a Clive, lui mi dice le cose chiare e tonde. Mi ricordavo tutte quelle lunghe passeggiate che i miei fratelli improvvisamente mi portavano a fare? Quei giri pigri e confusi tra i prefabbricati del dopoguerra di Hounslow Heath con mio fratello e mia sorella? Non erano l’allegra normalità di una semplice infanzia inglese di periferia tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In realtà, ero il complice ignaro di un mascheramento delle magagne familiari.
Fatico ancora a fare i conti con il fatto che mio padre si sia comportato con leggerezza quanto ai suoi voti nuziali. La sua mancanza di rispetto per i sentimenti di mia madre va al di là della mia capacità di comprensione. E prima che qualcuno alzi la mano e dica: «Hai una bella faccia tosta a rinfacciargli una cosa del genere, Collins», lasciatemelo mettere per iscritto: capisco, ma...
Sono molto deluso dal fatto di essermi sposato tre volte. Sono ancora più deluso per avere divorziato tre volte. Mi infastidisce molto meno che gli accordi con le mie ex mogli raggiungano una cifra vicina ai quarantadue milioni di sterline. E nemmeno mi secca che di quelle somme si sia parlato dappertutto. Di questi tempi non c’è più niente di privato. Ci ha pensato Internet. Inoltre, anche se i miei tre divorzi potrebbero suggerire un atteggiamento facilone nei confronti dell’idea di matrimonio in quanto tale, ciò non potrebbe essere più lontano dalla realtà. Sono un romantico che crede e spera che l’unione matrimoniale sia qualcosa da far durare e da curare amorevolmente.
Tuttavia, quel terzetto di divorzi dimostra con certezza la mia incapacità di convivere felicemente con le mie compagne e di capirle. Suggerisce che io non sia stato in grado di creare una famiglia e di rimanerci dentro. Dimostra un fallimento, punto e basta. Nel corso dei decenni ho fatto del mio meglio per far marciare alla perfezione ogni aspetto della mia vita, personale e professionale; anche se spesso, devo ammetterlo, il meglio non è bastato.
Eppure so bene che cos’è la normalità, ce l’ho nel DNA: ci sono cresciuto, o almeno con un suo simulacro, lì nelle periferie di Londra; ho lottato per ottenerla mentre cercavo di guadagnarmi da vivere facendo musica.
Mi sono sforzato di essere sincero sulla mia storia personale con tutti i miei figli. Li riguarda. Li condiziona. Vivono ogni giorno della loro vita con le conseguenze delle mie azioni, inazioni e reazioni. Cerco di essere il più possibile franco e schietto. E lo stesso farò in tutta questa storia, persino nei punti in cui non appaio esattamente candido come un giglio. In quanto batterista, sono abituato a picchiare forte. Ma ho dovuto abituarmi anche a prenderle.
E comunque, per tornare a mia madre: il suo stoicismo, la sua forza e il suo senso dell’umorismo davanti alle deviazioni di mio padre (uso questa parola di proposito) la dicono lunga su quelli della generazione della guerra, che usavano tutta la tenacia possibile per mantenere i propri impegni coniugali. È qualcosa da cui abbiamo tutti molto da imparare, compreso il sottoscritto.
Detto questo, quando considero la mia infanzia dalla posizione privilegiata dell’età avanzata, forse lo sconvolgimento e il turbamento emotivi, di quelli che lasciano il segno, erano filtrati nella mia giovane psiche senza che me ne accorgessi.
Sono nato al Putney Maternity Hospital, nel Sudovest di Londra, il 30 gennaio 1951, terzo figlio tardivo (e del tutto inatteso) di June e Grev Collins. A quanto pare, all’inizio la mamma era andata a partorirmi al West Middlesex Hospital, ma «non mi hanno trattata bene», così aveva incrociato forte le gambe e se n’era andata al Putney.
Ero il primo figlio nato a Londra, dato che Carole e Clive erano nati a Weston-super-Mare dopo che tutta la famiglia era stata sfollata lì dalla London Assurance prima del Blitz. Mia sorella Carole non era felicissima della mia nascita: avrebbe preferito una sorellina. Clive, invece, era al settimo cielo: finalmente un fratellino con cui giocare a calcio, fare la lotta e, quando si annoiava di quello, da torturare con i propri calzini puzzolenti.
Avendo mia madre e mio padre rispettivamente trentasette e quarantacinque anni, il mio arrivo, per quell’epoca, faceva di loro dei genitori attempati. Ma per mia madre non era affatto un problema. Per tutta la vita fu una donna generosa e affettuosa, con una parola buona per tutti, fino alla sua morte a novantotto anni nel 2011, il giorno del suo compleanno. Però una volta diede del «testa di cazzo» a un poliziotto londinese che l’aveva ripresa perché guidava nella corsia degli autobus.
Papà, nato nel 1907, veniva dal quartiere allora alla moda di Isleworth, lungo il fiume, ai confini occidentali di Londra. La casa della sua famiglia era grande, buia, muffosa, piuttosto imponente, e terrificante. I suoi parenti, idem. Non ho ricordi di mio nonno, un esperto dipendente della London Assurance come sarebbe presto diventato il figlio. Ma ho ricordi molto vividi della nonna. Era affettuosa con me, mi abbracciava e aveva molta pazienza, ma sembrava rimasta all’epoca vittoriana, e come per dimostrarlo indossava sempre abiti lunghi e neri. Forse anche lei portava ancora il lutto per il principe Alberto.
Io e la mamma ci volevamo molto bene. Passavo tanto tempo nel suo umido seminterrato, a guardarla dipingere acquerelli di barche sul fiume, una passione che mi ha trasmesso.
La zia Joey, la sorella di papà, era una donna che incuteva soggezione, armata di sigaretta con bocchino e voce roca, un po’ come la cattiva delle Avventure di Bianca e Bernie. «Tesoooro, entra pure...» Anche suo marito, lo zio Johnny, era una sagoma. Portava il monocolo e indossava sempre completi di tweed pesante, un altro Collins del paese dimenticato dal ventesimo secolo.
Secondo la storia di famiglia, un paio di cugini di mio padre erano stati reclusi dai giapponesi nella famigerata prigione di Changi a Singapore. Erano molto stimati: erano eroi di guerra, sopravvissuti alle spietate campagne nell’Estremo Oriente. A quanto pareva, un altro cugino era il tizio che aveva introdotto per primo le lavanderie a gettoni in Inghilterra. Agli occhi della famiglia di papà erano tutti «qualcuno», in un modo o nell’altro. O, in altre parole, dei veri signori. Si diceva che H.G. Wells facesse regolarmente visita ai Collins.
Chiaramente la famiglia di papà diede forma al suo atteggiamento, per non parlare della sua vita lavorativa, anche se, dopo la sua morte, scoprii che aveva provato a evitare l’arruolamento nella London Assurance: impiegandosi su un mercantile. Ma la sua ribellione oceanica ebbe breve durata e così gli ordinarono di tirarsi su e mettersi in riga sotto il giogo da venditore di polizze assicurative imposto dal padre. Il conformismo era all’ordine del giorno. Sapendo questo, si potrebbe ipotizzare che papà fosse un po’ geloso della libertà offerta dagli anni Sessanta a Clive, Carole e me nei campi di cui scegliemmo di occuparci: fumettista, pattinatrice su ghiaccio, musicista. Dei lavori seri? Non secondo mio padre.
Non esistono prove che Grev Collins si sia mai abituato al ventesimo secolo. Quando entrò in esercizio il gas del mare del Nord e tutte le caldaie inglesi furono convertite, mio padre cercò di corrompere l’azienda del gas perché ci escludesse dalle conversioni, convinto che da qualche parte esistesse un gasometro che poteva fornire carburante in esclusiva alla famiglia Collins.
Per qualche motivo a papà piaceva lavare i piatti, e dopo il pranzo domenicale insisteva per farlo. Andava tutto bene finché in cucina non si sentiva uno schianto. Tutti si zittivano, e la mamma andava verso la portafinestra e tirava le tende. Pochi attimi dopo lo schianto si sentiva papà che imprecava, e poi il rumore di stoviglie spazzate in un recipiente. Poi la porta sul retro si spalancava e papà buttava rumorosamente le stoviglie in giardino, e le prendeva a calci, imprecando ancora ad alta voce.
«Vostro padre sta uccidendo i piatti» spiegava stancamente mia madre a noi figli c...

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