La mattina dell’11 gennaio 2000, gli avvocati, i solicitors, i loro assistenti, i periti e i ricercatori si radunarono nello studio di Rampton. Nella stanza l’energia era palpabile. Rampton indossava lo speciale abbigliamento da tribunale dei consulenti legali della Corona: toga di seta e una giacca ornata di trecce orizzontali. Era intento a ispezionare alcuni file. Heather Rogers, nella sua camicetta bianca piena di gale e il tailleur nero da barrister, si consultava con i ricercatori. I solicitors parlottavano tra loro mentre gli assistenti rispondevano ai cellulari che suonavano incessantemente. Quando l’orologio batté le dieci, Rampton alzò gli occhi dalle carte e dichiarò: «È ora». Avendo atteso con ansia quel giorno per più di quattro anni, mi sentivo un corridore olimpico che scende in pista, pronta a fare meglio dei miei avversari.
Gli avvocati della Penguin avevano suggerito che il team legale e io percorressimo spalla a spalla i trecento metri da One Brick Court all’aula di tribunale in Fleet Street per dimostrare il nostro impegno e la cooperazione autore-editore in quella prova. Anthony Forbes-Watson, l’amministratore delegato della Penguin, e io ci avviammo l’uno accanto all’altra, con gli avvocati, i periti e i ricercatori dietro di noi. Uscendo nel trambusto della via, scorsi un’orda di fotografi davanti all’edificio. Stavano scrutando i passeggeri che scendevano dai taxi. Nessuno si accorse di noi fino a che un paparazzo piegato su un ginocchio non lanciò un’occhiata al di sopra della sua spalla nella nostra direzione. «Eccola!» gridò, facendo girare tutti i suoi colleghi. Mentre enormi obiettivi zumavano su di me, feci del mio meglio per ostentare sicurezza. Prossimi all’ingresso, i fotografi ci bloccarono, chiamando «Signora, da questa parte» o «No, da questa». Continuavano a chiedermi una dichiarazione e, più mi rifiutavo, più insistevano che dicessi loro com’era ritrovarsi al centro di quella controversia.
Le Royal Courts of Justice – note ai londinesi come «The Law Courts» – sono un enorme edificio con guglie, torre dell’orologio, contrafforti turriti, cornici ornamentali e statue di Gesù, Salomone, Alfredo il Grande e uno stuolo di vescovi. Domina il trafficato incrocio tra Fleet Street e lo Strand. In QB VII, Leon Uris lo descrive in maniera calzante come «neogotico, neomonastico e neovittoriano». Nonostante questa accozzaglia di stili architettonici, l’edificio è maestoso. L’ingresso gotico, lungo 76 metri, è una via di mezzo tra una grande chiesa medievale e un’imponente stazione ferroviaria ottocentesca. Il suo ampio soffitto a volta si innalza per 24 metri. L’atrio è fiancheggiato da panche in pietra incassate nel muro, sopra le quali le grandi vetrate riproducono gli stemmi dei Lord cancellieri. Da una balconata al livello superiore pende un grande orologio visibile da ogni punto dell’atrio.
Nel corso degli anni l’edificio principale è stato ampliato. Adesso molte delle aule si raggiungono attraverso passaggi a volta, corridoi tortuosi e piccole corti interne. Seguendo gli avvocati, avevo l’impressione di percorrere un labirinto: una metafora appropriata, visto ciò che stavo per affrontare. Sentivo vociare nei pressi dell’aula. Molte persone stavano cercando di convincere gli uscieri a farle entrare, nonostante la stanza fosse piena. Mentre ci facevamo strada a fatica, la folla iniziò a rumoreggiare, come se temesse che volessimo saltare la fila, finché qualcuno non fece notare che ero l’imputata. Rispetto all’edificio, l’aula era relativamente moderna. C’erano tre file di tavoli. Mi era stato riservato un posto in prima fila tra James e i solicitors della Penguin. Quelli autorizzati a parlare in tribunale – Rampton, Heather e Anthony – sedevano al tavolo alle nostre spalle. Irving, che fungeva da avvocato di se stesso, si sarebbe seduto all’estremità di quel tavolo. Davanti, la stenografa del tribunale stava sistemando la propria attrezzatura. Le sue trascrizioni sarebbero comparse in tempo reale sui computer collocati sui tavoli.
Un’intera parete dell’aula era tappezzata di raccoglitori a fogli mobili rossi e blu, contenenti una copia di ogni singolo documento o prova citati nelle relazioni dei periti. Quando udii il termine «faldone» per la prima volta, m’immaginai fasci di documenti portati in tribunale legati con lo spago. Lungo la parete opposta, alcune sedie erano riservate alla stampa. In fondo all’aula c’erano un paio di file di posti per il pubblico, alcuni dei quali erano occupati dai miei sostenitori. Un anno prima la mia amica Ursula Blumenthal, il cui marito, David, è un mio collega alla Emory, mi aveva annunciato: «Quando comincerà il processo, io ci sarò». A quel tempo insistevo di non volere nessuno, anche se non so bene perché. Forse temevo che gli attacchi di Irving contro di me sarebbero stati uno spettacolo troppo spiacevole per i miei amici. Per fortuna avevano ignorato le mie proteste perché, adesso che la saga iniziava, essere sola mi sarebbe stato insopportabile. C’era anche Ken Stern, che aveva rinunciato al secondo lavoro all’American Jewish Committee per essere presente. Grace, la curatrice d’arte che mi aveva suggerito di andare a vedere gli assiri, era venuta da Los Angeles. Bruce Soll, consulente legale di Leslie Wexner, era arrivato quella mattina da Columbus.
Irving entrò portando sotto braccio una grossa pila di libri. Indossava lo stesso abito blu scuro gessato che aveva all’udienza preliminare. Era solo, circondato da sedie vuote che, in circostanze normali, sarebbero state occupate dal suo team legale. Aveva detto ai giornalisti di aver deciso di rappresentarsi da solo perché quella battaglia riguardava il suo campo di specializzazione, il che, sosteneva, gli dava un vantaggio sugli avvocati. Loro potevano conoscere la legge, ma lui conosceva l’argomento.
L’annuncio dell’usciere – «Silenzio. In piedi» – ci fece alzare tutti mentre un imparruccato giudice Charles Gray entrava in aula. Tutti abbozzammo un inchino. Lui restituì il saluto e ci sedemmo. La toga di seta scura, bordata ai polsi e al collo di ermellino bianco, e la sciarpa di satin rosso richiamavano alla mente epoche passate. Gray sedette sul livello più alto di uno scranno a due gradinate che dominava la parete frontale dell’aula, così alto che dovevo allungare il collo per vederlo. Scrutando l’aula gremita, si scusò che non fosse stato possibile trovare posto a tutti quelli che volevano assistere e promise di cercare un locale più grande.
Marchiato con una stella gialla
Irving iniziò affrontando alcune questioni procedurali. Prima del processo, lui e Rampton si erano accordati che le domande relative ad Auschwitz fossero trattate a parte. Irving presumeva che ciò sarebbe avvenuto proprio alla fine del processo, il che gli avrebbe dato più tempo per prepararsi. Rampton, viceversa, pensava che la fase dedicata ad Auschwitz dovesse essere alla fine di gennaio, quand’era previsto l’arrivo di Robert Jan. Dopo un breve dibattito, Irving convenne di essere «perfettamente preparato all’arrivo del professor van Pelt nel bel mezzo di qualunque altra cosa sia in corso, e possiamo affrontare quella fase come un tutt’uno separato».1
Chiarita quella faccenda, era il momento delle arringhe iniziali. Irving, in quanto querelante, avrebbe parlato per primo. Tutti gli occhi erano puntati su di lui mentre con mosse lente e studiate sistemava le sue carte sul piccolo podio. Non era, esordì, un negazionista dell’Olocausto. Anzi, affermò, gli si sarebbe dovuto riconoscere di aver attirato l’attenzione sull’Olocausto pubblicizzando «altruisticamente» documenti storici che aveva scoperto in vari archivi e collezioni. Poi, ignorando il fatto che era stato lui a querelarci, dichiarò: «Se dovessimo cercare un titolo per questa causa per diffamazione, azzarderei Quadri di un’esecuzione, la mia». C’era un tempo, raccontò alla corte, in cui i suoi libri gli fruttavano più di centomila sterline l’anno. Quando il suo commercialista gli aveva domandato quali misure avesse adottato in previsione della pensione, disse, «la mia immodesta risposta era stata che non intendevo andare in pensione … i miei libri erano il mio fondo pensione». Prevedeva che i diritti d’autore gli avrebbero permesso di vivere «ben oltre gli anni della pensione». Sapendo che abitava a Mayfair, uno dei quartieri più eleganti di Londra, e avendo visto, molti anni prima, una sua foto nell’atto di salire sulla sua Rolls-Royce, pensai che avesse ragione. Ma, spiegò, le cose non stavano più così. La sua carriera era stata silurata. Gesticolando nella mia direzione, mi accusò di esserne responsabile. «Grazie alle attività dei convenuti, e in particolare della seconda convenuta, e di quanti l’hanno finanziata e guidata, dal 1996 ho visto sparire un editore pavido dopo l’altro, che hanno rinunciato a ristampare i miei libri, si sono rifiutati di accettare nuove commissioni e mi hanno voltato le spalle.» L’avevano fatto, proseguì, come «parte di uno sforzo internazionale organizzato».2
Promise che avrebbe smascherato la nostra turpe macchinazione. «Ho visto le carte. Ho le copie dei documenti. Le mostrerò a questa corte, so che l’hanno fatto e so come.» Fermandosi a malapena per prendere fiato, si tolse gli occhiali e mi accusò di averlo marchiato con una «stella gialla verbale» avendolo definito un negazionista. Di conseguenza, adesso era trattato come «uno che picchia la moglie o un pedofilo».3 Sebbene mi aspettassi che si sarebbe atteggiato a vittima, ero sorpresa che avesse scelto la stella gialla come simbolo della spiacevole situazione che descriveva. Avevo previsto che, almeno in tribunale, Irving moderasse il suo linguaggio provocatorio. Il cinismo di quell’immagine e la convinzione con cui l’aveva usata mi lasciarono senza fiato. Consapevole delle tre file di giornalisti lungo le pareti dell’aula, feci di tutto perché la mia faccia non tradisse alcuna emozione. Battendo sul podio proclamò che era il colmo che proprio a lui, fra tutti, si desse dell’antisemita quando aveva avuto editori, redattori e avvocati ebrei.4
Preannunciò che avrebbe dimostrato che «le camere a gas mostrate ai turisti ad Auschwitz sono un falso costruito dai polacchi dopo la guerra», e per farlo si sarebbe servito dei nostri stessi periti. In un linguaggio che ricordava più un film hollywoodiano di serie B che un tribunale britannico, proclamò: «Forse l’ammissione dovremo tirargliela fuori a randellate». Prevedeva che saremmo stati completamente incapaci di provare che avesse deliberatamente manipolato, distorto o mal tradotto le prove.5
Illustrò come, a suo avviso, non avesse negato l’Olocausto, ma anzi l’avesse portato all’attenzione di altri avendo reso pubblico un documento in cui il generale tedesco Walter Bruns descriveva le uccisioni di massa di ebrei a Riga nell’estate del 1941. Dopo la guerra, Bruns era stato fatto prigioniero dai britannici, i quali lo avevano intercettato mentre raccontava ai suoi compagni di prigionia con quanto entusiasmo le SS svolgessero il loro lavoro. Riferì come, alla vista di una donna mandata a morire con indosso soltanto la biancheria intima, una SS avesse commentato: «Ecco che arriva una bellezza ebrea!».6
Dandosi dei colpetti sul cuore, Irving domandò come fosse possibile che lui, che aveva reso noto quel documento, con la sua dettagliata descrizione delle esecuzioni, venisse marchiato come «negazionista dell’Olocausto». Che avesse reso pubblico il documento era vero. Divulgandolo, tuttavia, aveva sostenuto che esso dimostrava il tentativo di Hitler di fermare le uccisioni e che le esecuzioni stesse erano azioni isolate non autorizzate e non ascrivibili a un piano coordinato da Berlino.
Irving si lanciò poi in una dissertazione dettagliata su un aspetto relativamente minore del processo, la mia affermazione che avesse sottratto lastre fotografiche dei diari di Goebbels dagli archivi di Mosca. La natura soporifera di quel discorso, che sembrava non finire mai, mi rendeva difficile tenere gli occhi aperti. Finalmente, dopo più di due ore, Irving concluse tornando alla cospirazione contro di lui. «Non è stata una sola azione a distruggere la mia carriera, ma una serie di continui assalti che si alimentano da sé, provenienti da ogni parte e orditi dalle stesse persone che hanno diffuso il libro che è al centro della controversia … che è l’oggetto di questa causa.» E con ciò tornò a sedersi. Sorrideva e pareva compiaciuto della sua performance.
Prima che Rampton iniziasse la sua arringa, il giudice chiarì alcune delle questioni storiografiche al centro del processo. Irving sosteneva che noi dovessimo essere obbligati a dimostrare che sapesse effettivamente che uno specifico evento era accaduto e che avesse poi manipolato i fatti. Noi, invece, ritenevamo che la questione non fosse semplicemente se Irving era o meno a conoscenza di un fatto particolare, ma che il fatto fosse evidente nei documenti storici e lui «non lo avesse voluto vedere».7
«È un bugiardo»
Con un cenno del capo, il giudice indicò a Rampton che era il suo turno. Quando si trattava delle arringhe iniziali e finali, Rampton credeva nell’economia di scala. Si alzò in piedi, sistemò le sue carte, si dette una tiratina alla parrucca – come ad ancorarsela alla testa – e fece un profondo respiro. Poi alzò gli occhi sul giudice e partì dal punto che ritenevamo essenziale: «Signor giudice, Mr Irving si definisce uno storico. La verità però è che non è affatto uno storico, bensì un falsificatore della storia. Per dirla in modo chiaro, è un bugiardo». La causa, continuò, non riguardava versioni contrastanti della storia, ma verità e menzogne.
Anche prima di diventare un negazionista, proseguì Rampton, Irving aveva distorto i documenti storici nell’intento di discolpare Hitler. La guerra di Hitler, pubblicato un decennio prima che iniziasse a sposare il negazionismo, era pieno di esempi di «metodi disdicevoli» usati per scagionare Hitler dalla responsabilità delle atrocità perpetrate contro gli ebrei o altre vittime.8 Nell’introduzione, Irving preannunciava ai suoi lettori che il libro conteneva «prove incontrovertibili» che già il 30 novembre 1941 Hitler avesse esplicitamente ordinato che non ci doveva essere «“nessuna liquidazione” degli ebrei».
Himmler fu convocato alla Tana del Lupo per un incontro segreto con Hitler, durante il quale si parlò chiaramente del destino degli ebrei di Berlino. Alle 13.30 Himmler fu obbligato a telefonare dal bunker di Hitler a Heydrich l’ordine esplicito che gli ebrei non dovevano essere liquidati [il corsivo è mio].
Irving basava questa sua affermazione, che cioè Hitler avesse chiesto a Himmler di recarsi a un incontro segreto durante il quale aveva ordinato di non assassinare gli ebrei, dal registro telefonico di Himmler di quel giorno, che indicava una chiamata alle 13.30 al suo assistente Reinhard Heydrich il quale si trovava a Praga. A proposito della telefonata Himmler aveva annotato sul registro:
Judentransport aus Berlin. [Trasporto di ebrei da Berlino.] Keine Liqu...