Lettere a Milena
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Lettere a Milena

Franz Kafka, Ferruccio Masini

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Lettere a Milena

Franz Kafka, Ferruccio Masini

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«Un fuoco vivo come non ne ho mai visti»: così è per Franz Kafka la giovane traduttrice ceca Milena Jesenská Pollak, conosciuta a Praga. A lei Kafka comincia a scrivere nell'aprile del 1920, sul balcone della pensione Ottoburg di Merano, dove si era recato per un soggiorno di cura. Nessun'altra donna nella vita di Kafka riuscì a scandagliare così in profondità l'animo di un uomo costretto all'ascesi non per vocazione o come scelta eroica, ma per l'incapacità di scendere a compromessi.

Le Lettere a Milena sono la cronistoria di un amore complesso, profondo e già destinato a finire ancora prima di iniziare.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2017
ISBN
9788852082337

Lettere a Milena

[Aprile 1920]
Merano-Maia Bassa, Pensione Ottoburg1
Cara signora Milena,
la pioggia che durava da due giorni e una notte è appena cessata, forse soltanto provvisoriamente, ma certo è un avvenimento degno di essere festeggiato, e io lo faccio scrivendo a Lei. Del resto anche la pioggia era sopportabile, qui infatti siamo all’estero, un estero piccolo, sì, ma fa bene al cuore. Anche Lei, se la mia impressione fu esatta (non è facile dar fondo al ricordo di un breve convegno, isolato, quasi muto), sarà magari offuscato in seguito alle condizioni generali, ma Le fa piacere l’estero come tale? (La qual cosa del resto sarebbe forse un brutto segno, mentre non deve esserlo.)
Qui vivo molto bene, più cure di così il corpo mortale difficilmente potrebbe sopportare, il balcone della mia camera è affondato in un giardino, circondato, ricoperto da cespugli in fiore (strana è questa vegetazione, con un tempo che a Praga fa quasi gelare le pozzanghere, davanti al mio balcone sbocciano lentamente i fiori), e tutto esposto al sole (o almeno al cielo annuvolato, come ormai da quasi una settimana). Lucertole e uccelli, coppie disuguali, vengono a trovarmi. Le augurerei tanto di stare a Merano, recentemente Lei mi scrisse di non poter respirare, l’immagine e il significato si toccano e qui l’uno e l’altro potrebbero trovare un po’ di sollievo.
Con cordialissimi saluti
Suo F. Kafka
[Aprile 1920]
Merano-Maia Bassa, Pensione Ottoburg
Cara signora Milena,
da Praga Le scrissi un biglietto e un altro da Merano. Non ho avuto alcuna risposta. I biglietti, è vero, non richiedevano una risposta particolarmente rapida, e se il Suo silenzio non è che un indizio di condizioni di salute relativamente buone, le quali, si sa, trovano spesso la loro espressione nella ripugnanza a scrivere, sono ben contento. Ma può anche darsi – e per questo scrivo – che nei miei biglietti io L’abbia in qualche modo urtata (quale mano involontariamente grossolana avrei, se fosse così!) o, cosa ancora molto peggiore, che quel momento di respiro tranquillo e sollevato, del quale mi ha scritto, sia già passato e di nuovo sia giunto per Lei un periodo cattivo. Nella prima eventualità non saprei che dire, tanto la cosa mi è lontana e tanto vicino tutto il resto, nella seconda eventualità non do consigli – come potrei consigliare? – ma domando soltanto: Perché non si allontana un poco da Vienna? Lei non è senza patria come altre persone. Un soggiorno in Boemia non Le darebbe nuova energia? E se per qualche ragione, che io non conosco, non vuole andare in Boemia, potrebbe andare altrove, forse Merano stessa andrebbe bene. La conosce?
Aspetto dunque due cose. O ancora silenzio che vorrebbe dire: «Niente apprensioni, sto proprio bene». O invece alcune righe.
Molto cordialmente
Kafka
Mi viene in mente che non riesco a ricordare nessun preciso particolare del Suo viso. Vedo ancora soltanto come Lei si allontanò poi tra i tavolini del caffè, la Sua figura, il Suo abito.
[Merano, aprile 1920]
Cara signora Milena,
Lei si affatica intorno alla traduzione1 nel fosco mondo viennese. Ciò è in qualche modo commovente e per me umiliante. Penso che da Wolff dovrebbe aver già ricevuto una lettera,2 almeno egli me ne scrisse parecchio tempo fa. Una novella, Assassini,3 che sarebbe stata annunciata in un catalogo, non l’ho mai scritta, è un malinteso; ma siccome sarebbe la migliore, facciamo conto che sia esatto.
Secondo la Sua ultima e la penultima lettera pare che l’inquietudine e l’apprensione L’abbiano lasciata libera del tutto e definitivamente, e ciò riguarda probabilmente anche Suo marito,4 come auguro cordialmente a entrambi. Ricordo un pomeriggio domenicale di anni fa, camminavo quatto quatto per il Franzensquai lungo i muri delle case, e incontrai Suo marito, che mi veniva incontro non molto più pomposamente: due specialisti del mal di capo, ciascuno però a modo suo. Non ricordo più se poi proseguimmo insieme o passammo l’uno accanto all’altro, la differenza fra queste due possibilità non deve essere stata molto grande. Ma ciò è passato e deve restare in fondo al passato. È bello a casa Sua?
Saluti cordiali
Suo Kafka
[Merano, aprile 1920]
Dunque, i polmoni. Tutto il giorno l’ho rigirata in testa senza poter pensare ad altro. Non che mi sia molto spaventato del male, probabilmente e come è da sperare – le Sue allusioni sembra lo confortino – esso si manifesta in Lei con delicatezza, e persino la vera malattia polmonare (metà dell’Europa occidentale ha polmoni più o meno difettosi), che io so di avere da tre anni, mi ha recato più bene che male. Circa tre anni or sono incominciò per me di notte con uno sbocco di sangue.1 Mi alzai agitato, come avviene a ogni novità (invece di rimaner coricato come mi fu prescritto in seguito), e certo anche un po’ spaventato, andai alla finestra, mi sporsi, mi avvicinai al lavabo, girai per la camera, mi misi a sedere sul letto – sangue, sempre sangue. Ma non ero niente afflitto, poiché per un determinato motivo compresi a poco a poco che dopo tre, quattro anni quasi insonni, premesso che il sangue cessasse, avrei finalmente dormito. Cessò infatti (e da allora non ritornò più) e dormii il resto di quella notte. Al mattino venne bensì la domestica (abitavo allora nel palazzo Schönborn), una buona ragazza, piena di abnegazione, ma estremamente obiettiva, che visto il sangue esclamò: «Pane doktore, s Vámi to dlouho nepotrvá».a Ma mi sentivo meglio del solito, andai in ufficio e soltanto nel pomeriggio dal medico. Il resto della storia non ha qui alcuna importanza. Volevo dire soltanto: Non la Sua malattia mi ha spaventato (tanto più che continuamente mi faccio obiezioni, giro e rigiro il ricordo, riconosco sotto all’aspetto delicato la freschezza quasi campagnola e stabilisco: no, Lei non è malata, un avvertimento, ma non una malattia di polmoni), non questo dunque mi ha spaventato, bensì il pensiero di ciò che deve aver preceduto codesto disturbo. E qui prescindo anzitutto dagli altri particolari nella Sua lettera, come: non un centesimo – il tè e una mela – ogni giorno dalle 2 alle 8 – cose che non riesco a capire e che evidentemente si possono spiegare soltanto a voce. Prescindo dunque da tutto ciò (ma soltanto in questa lettera poiché son cose che non si possono dimenticare) e penso solamente alla spiegazione del male che escogitai2 allora per il caso mio, e che si conviene a molti casi. Ecco, il cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti. Diceva: «Non ne posso più; ma se c’è ancora qualcuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’ del mio peso, e si potrà campare ancora un tantino». Allora si fecero avanti i polmoni che, tanto, non avevano molto da perdere. Queste trattative fra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia insaputa, devono essere state spaventevoli.
E Lei che farà ora? Probabilmente è cosa da nulla, purché la si curi un poco. E chiunque Le voglia bene deve capire che si deve avere un po’ cura di Lei. Ogni altra cosa va trascurata. Dunque, anche qui una redenzione. Lo dicevo io – no, non voglio scherzare, non sono affatto allegro e non lo sarò finché Lei non mi abbia scritto come intende di regolare in modo più sano il Suo tenore di vita. Dopo la Sua ultima lettera non domando più perché non lascia un po’ Vienna, ora capisco, ma anche nelle immediate vicinanze di Vienna ci sono bei luoghi di soggiorno e vari modi di aver cura di Lei. Oggi non scrivo d’altro, non c’è nulla di più importante da esporre. Tutto il resto a domani, anche i ringraziamenti per il fascicolo3 che mi commuove e umilia, mi rattrista e mi fa piacere. Cioè, oggi ancora una cosa: Se Lei dedica un sol minuto del Suo sonno al lavoro di traduzione, è come se mi maledicesse. Qualora infatti si dovesse un giorno arrivare a un processo, non si perderà tempo in altre indagini ma si stabilirà soltanto: egli Le ha tolto il sonno. Così sarò condannato, e giustamente. Combatto dunque in mio favore se La prego di non farlo più4
[Merano, fine aprile 1920]
Cara signora Milena,
oggi voglio scrivere di altre cose, ma le cose non vogliono. Non che io le prenda proprio sul serio; se lo facessi, scriverei diversamente, ma ogni tanto ci dovrebbe essere pronta per Lei, nella penombra del giardino, una sedia a sdraio con una decina di bicchieri di latte a portata delle Sue mani. Potrebbe essere anche a Vienna, tanto più che siamo in estate, ma senza fame e inquietudine. Non è possibile? E non c’è nessuno che lo renda possibile? E che dice il medico?
Quando trassi il fascicolo1 dalla grande busta, restai quasi deluso. Desideravo udire notizie Sue e non la troppo nota voce dal vecchio sepolcro. Perché si è inserita fra di noi? Ma poi mi ricordai che fra di noi aveva fatto anche da mediatrice. Del resto non riesco a capire come mai Lei si sia sobbarcata codesta grande fatica, e molto mi commuove il pensiero della fedeltà con la quale l’ha fatto, una frasetta dopo l’altra, una fedeltà che non avrei sospettato possibile nella lingua ceca, né giustificata dalla bella naturalezza con la quale Lei la usa. Sono così vicini il tedesco e il ceco? Comunque sia, in ogni caso il racconto è pessimo; con la massima facilità glielo potrei dimostrare, cara Signora Milena, quasi riga per riga, e soltanto il disgusto vi sarebbe un po’ più forte della dimostrazione. Il fatto che il racconto le piaccia gli conferisce beninteso un valore, ma per me turba un po’ la visione del mondo. Non parliamone più. Riceverà Un medico di campagna2 da Wolff, al quale ho scritto.
Certo che capisco il ceco. Già un paio di volte volevo chiederLe perché non scrive in ceco. Non che Lei non sia padrona del tedesco. Per lo più ne è padrona in modo stupefacente e, se qualche volta non lo è, esso si piega davanti a Lei spontaneamente e diventa più che mai bello; cosa che un tedesco non osa nemmeno sperare dalla sua lingua, perché non osa scrivere in modo così personale. Ma vorrei leggere uno scritto Suo in ceco, perché a questo Lei appartiene, perché qui soltanto è tutta Milena (la traduzione lo conferma), mentre là è sempre e soltanto quella di Vienna o che per Vienna si prepara. Dunque in ceco, per favore. E anche le appendici delle quali mi scrive. Poniamo pure che siano meschine, ma Lei ha avuto il coraggio d’ingolfarsi anche nella meschinità del racconto, fin dove? non so. Forse ne sono capace anch’io, ma se non lo fossi vuol dire che m’incaglierò nel migliore dei pregiudizi.
Lei mi chiede notizie del mio fidanzamento. Fui fidanzato due volte (o diciamo tre, cioè due volte con la stessa ragazza), dunque tre volte a pochi giorni di distanza dal matrimonio.3 La prima è cosa passata (esiste già un nuovo matrimonio e, a quanto mi dicono, c’è anche un bambino), la seconda vive ancora, ma senza alcuna speranza di nozze, dunque a rigore non vive o, meglio, vive una vita autonoma a carico altrui. In complesso ho visto qui e altrove che l’uomo soffre forse di più o, se vogliamo, ha minore resistenza, mentre invece la donna soffre sempre senza colpa, e non già per «non averci colpa», bensì nel senso vero e proprio, che però va forse di nuovo a sfociare nel «non averci colpa». D’altro canto è inutile riflettere su queste cose. È come si volesse sforzarsi a rompere una sola caldaia nell’inferno: in primo luogo non ci si riesce e in secondo luogo, se la cosa riesce, si brucia nella massa incandescente che si riversa, ma l’inferno continua in tutto il suo splendore. Bisogna procedere diversamente.
Anzitutto, in ogni caso, sdraiarsi in un giardino e trarre dalla malattia, specialmente quando non è veramente tale, la maggior dolcezza possibile. Essa ne contiene molta.
Suo FranzK.
[Merano, aprile/maggio 1920]
Cara signora Milena,
prima di tutto, affinché Lei non lo ricavi da questa lettera senza ch’io voglia: da circa quindici giorni soffro di un’insonnia che va sempre peggiorando; per principio non me la prendo, questi periodi vengono e vanno e hanno sempre più cause del necessario (secondo il Baede...

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