I principi d'Irlanda
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I principi d'Irlanda

Edward Rutherfurd, Francesco Saba Sardi

  1. 784 pages
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I principi d'Irlanda

Edward Rutherfurd, Francesco Saba Sardi

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Sangue, acciaio, magia. È questo il mondo di Ibernia, come veniva chiamata l'Irlanda dagli antichi romani. La sua storia, lontana più di mille anni, ci appare come uno spettro e si fa lentamente strada, con fascino, con un'autorevolezza fuori dal comune nelle pagine di questo libro. Davanti a noi sfilano le favolose divinità pagane, i bardi, i druidi, le terre remote e selvagge dell'estremo Nord. Fatti e leggende si intrecciano: la missione evangelizzatrice di san Patrizio, la cristianizzazione dell'isola, l'invasione vichinga e la battaglia di Clontarf, l'inganno di Enrico II che scatenò i principi irlandesi e i re inglesi, la disastrosa invasione inglese e la collera di Enrico VIII...
Edward Rutherfurd ha passato dieci anni della sua vita in Irlanda studiando il passato dell'isola e in questo volume, che ha incantato il pubblico di tutto il mondo, riesce a unire mirabilmente il rigore storico e la suggestione delle antiche saghe di guerra e d'amore.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2014
ISBN
9788852033308

1

DUBH LINN

(430 d.C.)

I

Lughnasa. Piena estate. Di lì a poco sarebbe giunta la stagione del raccolto. Ferma accanto allo steccato, Deirdre scrutava la scena. Avrebbe dovuto essere una giornata di allegria, ma a lei portava soltanto angoscia. Perché il padre che amava e l’uomo con un occhio solo l’avrebbero venduta. E lei non poteva farci niente.
Dapprima non vide Conall.
La costumanza voleva che alle corse gli uomini partecipassero nudi. La tradizione era antica. Secoli prima, i romani avevano notato che i celti spregiavano la protezione delle corazze e avevano la consuetudine di svestirsi prima della battaglia. Un guerriero tatuato, dai muscoli rigonfi, i capelli ritti in grandi creste, il volto deformato dalla frenesia bellica era una vista spaventevole persino per gli esperti legionari romani. A volte quei feroci combattenti celti sui carri preferivano vestire un corto mantello che svolazzava alle loro spalle; e in certe parti dell’Impero romano i cavalieri celti indossavano brache. Ma lì, sull’isola occidentale, la tradizione della nudità era passata alle gare ippiche cerimoniali, e il giovane Conall non portava altro che un piccolo perizoma protettivo.
La grande festa di Lughnasa si teneva a Carmun solo ogni tre anni. Il sito di Carmun era misterioso: un vasto spazio erboso in una terra di selvagge foreste e paludi, che si dilatava, verde e vuoto, fin quasi all’orizzonte. A una certa distanza a ovest del punto in cui, se si andava verso monte, il corso della Liffey si volgeva a est, in direzione della sua fonte tra i monti Wicklow, il luogo era assolutamente piatto, salvo alcuni tumuli in cui erano sepolti sovrani ancestrali. La festa durava una settimana. C’erano aree riservate al cibo e ai mercati di bestiame, e un’altra dove si vendevano begli abiti; ma il settore più importante era quello in cui una grande pista correva sul terreno brullo.
Era uno spettacolo magnifico. Le persone erano accampate attorno all’ippodromo, in tende e capanne provvisorie, divise per clan. Tutti indossavano i loro brillanti mantelli color rosso vivo, azzurro o verde. Gli uomini portavano al collo le splendide torque d’oro – una sorta di grossi amuleti – e le donne sfoggiavano ornamenti e bracciali d’ogni foggia. Certi uomini erano tatuati, altri avevano lunghe chiome fluenti e baffi, altri ancora sfoggiavano capigliature incrostate di calce che si levavano in terrificanti creste guerresche. Qua e là si scorgeva qualche splendido carro da guerra. I cavalli erano nei recinti. Accanto ai fuochi da campo, i bardi avrebbero narrato storie. Stava arrivando in quel momento una compagnia di giocolieri e acrobati. Per tutto il campo, le note di un’arpa, di uno zufolo d’osso o di una cornamusa si levavano nell’aria estiva, e l’odore di carne arrostita e di dolci al miele sembrava confondersi con il leggero fumo che fluttuava sulla scena. E su un tumulo cerimoniale accanto all’ippodromo, a presiedere all’intero evento, stava il re del Leinster.
L’isola era quadripartita. Nella zona settentrionale si estendevano i territori delle antiche tribù di Ulaid, la provincia dei guerrieri. A occidente, la bella provincia dei laghi magici e delle coste selvagge, al tempo nota come la terra dei druidi. A sud, la provincia di Muma, rinomata per la sua musica. Era lì, stando alla leggenda, che i Figli di Mil avevano incontrato la dea Eriu. E infine, a est, i ricchi pascoli e campi delle tribù di Lagin. Le province erano state delimitate da tempi immemorabili, e come Ulster, Connacht, Munster e Leinster sarebbero rimaste per sempre le divisioni geografiche di quel territorio.
Sull’isola la vita non era mai immobile. Durante le ultime generazioni si erano verificati parecchi cambiamenti tra le antiche tribù. Nella metà settentrionale dell’isola – Leth Cuinn, la “metà della testa”, come veniva chiamata – potenti clan rivendicavano il loro dominio sulla metà meridionale, Leth Moga. Ed era venuta in essere una nuova provincia centrale, nota come Mide o Meath, ragion per cui adesso la gente parlava delle cinque, anziché delle quattro parti dell’isola.
Su tutti i grandi capi dei clan di ciascuna delle cinque province di solito aveva sovranità il più potente, e a volte il massimo tra essi si autoproclamava Alto Re ed esigeva che altri lo riconoscessero e gli pagassero un tributo.
Finbarr guardò il suo amico e scosse il capo. Era pomeriggio inoltrato e Conall stava per partecipare alla gara. «Potresti almeno sorridere» osservò Finbarr. «Sei sempre così triste, Conall.»
«Mi dispiace» replicò l’altro. «Non lo faccio apposta.»
Era il guaio di avere alti natali, pensò Finbarr. Gli dèi ti facevano oggetto di troppe attenzioni. Accadeva sempre così, nel mondo celta. I corvi volavano sulla casa ad annunciare la morte di un capoclan, i cigni abbandonavano il lago. Il giudizio errato di un re poteva avere effetti sul tempo. E se eri un principe, i druidi pronunciavano profezie su di te fin da prima della tua nascita; e da esse non c’era scampo.
Conall era sottile, scuro, con il naso aquilino, bello: un principe perfetto. E quello era il suo rango. Conall, figlio di Morna. Suo padre era stato un guerriero senza macchia. Non era stato forse sepolto in piedi, nel tumulo riservato agli eroi, rivolto verso i nemici della sua tribù? Nel mondo celta non c’era più alto onore per un defunto.
Nella famiglia del padre di Conall era di cattivo augurio per gli uomini indossare vesti rosse. Ma quello era solo l’inizio dei guai di Conall. Era venuto al mondo tre mesi dopo la morte di suo padre, e già questo lo rendeva diverso. Sua madre era la sorella dell’Alto Re, che era divenuto suo padrino. Questo significava che l’intera isola gli avrebbe tenuto gli occhi addosso. E poi, i druidi avevano detto la loro. Il primo aveva mostrato al bambino una scelta di rametti di vari alberi, e questi aveva teso la manina verso il nocciolo. «Sarà un poeta, un uomo di dottrina» aveva dichiarato il druida. Il secondo aveva fatto una predizione più cupa: «Causerà la morte di un grande guerriero». Ma a patto che questo avvenisse in battaglia, la famiglia lo riteneva un buon auspicio. Era stato però il terzo druida a pronunciare i tre geissi destinati a seguire Conall per tutta la vita.
I geissi, i divieti. Un principe o un grande guerriero che avesse ricevuto geissi doveva stare molto attento. I geissi erano terribili, perché si verificavano immancabilmente. Ma dal momento che, al pari di tante asserzioni sacerdotali, suonavano come un indovinello, non si poteva mai essere certi di ciò che significavano. Erano come trappole. Finbarr era ben lieto che nessuno si fosse preoccupato di imporgli un geissi. I geissi di Conall, come tutti sapevano alla corte dell’Alto Re, erano i seguenti:
Conall non morirà finché:
primo: non abbia deposto le sue vesti nella terra;
secondo: non abbia attraversato il mare al sorgere del sole;
terzo: non sia giunto a Tara attraverso una nera nebbia.
Il primo non aveva senso; quanto al secondo, doveva stare attento a non farlo mai. Il terzo sembrava impossibile. Spesso la residenza dell’Alto Re a Tara era avvolta da una coltre di nebbia, ma mai se n’era vista una nera.
Conall era prudente. Rispettava la tradizione familiare. Finbarr non l’aveva mai visto indossare qualcosa di rosso. Conall, anzi, evitava persino di toccare alcunché di quel colore. «Perciò sono convinto» gli aveva detto una volta Finbarr «che, se te ne starai lontano dal mare, vivrai per sempre.»
Erano amici fin dall’infanzia, dal giorno in cui un gruppo di cacciatori, di cui Conall faceva parte, si era fermato per riposarsi alla modesta fattoria di Finbarr. I due bambini si erano conosciuti, avevano giocato assieme, ben presto si erano presi a botte, e poi si erano misurati con bastone e palla disputando una partita a hurling, mentre gli uomini stavano a guardare. Poco dopo, Conall aveva chiesto se poteva rivedere il suo nuovo conoscente; nel giro di un mese erano diventati amici intimi. E quando Conall aveva chiesto se Finbarr poteva unirsi alla casata reale e addestrarsi per diventare un guerriero, gli era stato concesso. La famiglia di Finbarr si era sentita al colmo della gioia per l’opportunità concessa al figlio. L’amicizia tra i due ragazzi non aveva mai avuto cedimenti. Se Conall amava il buon carattere e l’acuto spirito di Finbarr, questi ammirava la tranquillità, la profonda pensosità del giovane aristocratico.
Non che Conall fosse sempre riservato. Pur non essendo il più forzuto dei giovani campioni, era probabilmente il miglior atleta. Sapeva correre come un cervo. Solo Finbarr riusciva a stargli alla pari quando gareggiavano sui loro leggeri carri da guerra a due ruote. Quando Conall scagliava la sua lancia, sembrava che l’arma volasse come un uccello, e con mortale precisione. Sapeva far roteare il suo scudo con tanta velocità che a stento si riusciva a vederlo. E se affondava la sua spada prediletta, si diceva che altri magari potevano sferrare colpi più duri, ma, in ogni caso, la lama di Conall era sempre la più rapida. I due ragazzi erano anche amanti della musica. A Finbarr piaceva cantare, a Conall suonare l’arpa, e lo faceva bene. A volte intrattenevano la compagnia alle feste dell’Alto Re. C’erano momenti felici in cui, di ottimo umore, l’Alto Re li ricompensava come se fossero musici salariati. Tutti i guerrieri nutrivano simpatia e rispetto per Conall. E coloro che rammentavano Morna erano concordi: il figlio aveva le qualità di quel grande capo.
Eppure – e questo era per Finbarr motivo di stupore – si sarebbe detto che a Conall tutto ciò non interessasse davvero.
Conall aveva solo sei anni quando era scomparso per la prima volta. Sua madre l’aveva cercato per l’intero pomeriggio e quando, poco prima del tramonto, era riapparso con un vecchio druida, costui con tono tranquillo le aveva detto: «Il ragazzo è stato con me».
«L’ho incontrato nei boschi» aveva spiegato Conall, come se la sua assenza fosse la cosa più naturale del mondo.
«Che cosa hai fatto tutto il giorno con il druida?» aveva chiesto la madre dopo che il vecchio se n’era andato.
«Oh, abbiamo parlato.»
«Di che cosa?» aveva indagato stupita la madre.
«Di tutto» aveva risposto lui allegro.
Fin dall’infanzia era stato così. Giocava con gli altri ragazzi, poi però scompariva. A volte portava con sé Finbarr, e si aggiravano nei boschi o lungo i corsi d’acqua. Finbarr sapeva imitare i richiami degli uccelli, e a Conall questo piaceva. Non c’era quasi pianta sull’isola di cui il giovane principe non sapesse dire il nome. Ma persino durante quelle escursioni, a volte Finbarr aveva la sensazione che, per quanto bene gli volesse, l’amico avrebbe preferito restare solo; e allora lo lasciava, e Conall continuava a vagabondare per intere giornate.
A Finbarr aveva sempre detto di essere felice. Eppure, quando sprofondava nei suoi pensieri, sul volto gli si dipingeva un’espressione di malinconia; e a volte, mentre suonava l’arpa, la melodia diventava stranamente triste. «Ecco che arriva l’uomo che ha fatto del dolore un amico» diceva in tono affettuoso Finbarr quando Conall tornava da quei solitari vagabondaggi; ma quest’ultimo si limitava a ridere, oppure gli allungava allegramente una pacca sulla spalla e partiva di corsa.
Non c’era da sorprendersi che quando, a diciassette anni, Conall era giunto all’età adulta, gli altri giovani si riferissero a lui, non senza un certo timore reverente, come al Druida.
Sull’isola c’erano tre categorie di uomini sapienti. I più umili erano i bardi, i narratori che intrattenevano la compagnia alle feste; di categoria decisamente superiore erano i filidh, custodi delle genealogie, autori di poemi e a volte persino di profezie; ma al di sopra di entrambi, e più temibili, erano i druidi.
Correva voce che molto tempo addietro, prima dell’arrivo dei romani, i druidi più sapienti ed esperti vivessero nella vicina isola di Britannia. A quei tempi i druidi avevano l’usanza di sacrificare non soltanto animali, ma anche uomini e donne. Questo, però, accadeva molto tempo prima. I druidi adesso vivevano sull’isola occidentale, e nessuno aveva più memoria dell’ultimo sacrificio umano.
Potevano occorrere vent’anni per la preparazione di un druida, il quale molto spesso conosceva gran parte di ciò che i bardi e i filidh sapevano; ma, oltre a questo, era un sacerdote, con la segreta cognizione degli incantesimi, dei numeri sacri e del modo di parlare con gli dèi. I druidi compivano i sacrifici e le cerimonie di mezzo inverno e delle altre grandi feste dell’anno. Essi prescrivevano i giorni in cui seminare e uccidere gli animali. Pochi re avrebbero osato dedicarsi a un’impresa senza consultarli. Disconoscere la loro autorità e ignorare le loro parole equivaleva a provocare duri scontri. La maledizione di un druida poteva durare per diciassette generazioni. Saggi consiglieri, giudici rispettati, dotti insegnanti, nemici temuti: i druidi erano tutto questo.
Ma c’era qualcosa di ancor più misterioso. Alcuni druidi, al pari degli sciamani, potevano cadere in trance ed entrare nel mondo dell’aldilà. Erano persino in grado di mutare aspetto e assumere quello di un uccello o di un altro animale. Finbarr si chiedeva a volte se nel suo amico Conall ci fosse un po’ di quella mistica dote.
Certo, aveva trascorso molto tempo con i druidi, fin da quell’incontro quando era bambino. A vent’anni, così si diceva, conosceva gran parte dei giovani uomini che si preparavano al sacerdozio. Interessi, i suoi, che non erano ritenuti strani. Molti dei druidi provenivano da famiglie nobili; molti dei più grandi guerrieri in passato avevano studiato con druidi e filidh. Ma le aspirazioni di Conall erano insolite, come del resto la sua esperienza. La sua memoria era fenomenale.
Qualsiasi cosa Conall dicesse, a Finbarr sembrava che a volte l’amico si sentisse sperduto.
Per cementare il loro rapporto, qualche anno prima il principe gli aveva regalato un cucciolo. Finbarr lo portava sempre con sé. Lo aveva chiamato Cuchulainn, come l’eroe della leggenda. Solo un po’ alla volta, a mano a mano che il cucciolo cresceva, Finbarr si era reso conto della vera natura di quel dono. Perché Cuchulainn era diventato un magnifico cane da caccia, di quella razza in cerca della quale i mercanti approdavano sull’isola occidentale da lontani luoghi oltremare, pronti a sborsare lingotti d’argento o monete romane. Il valore del cane era probabilmente inestimabile. E non c’era pericolo che l’animale si allontanasse da Finbarr.
«Se mai dovesse accadermi qualcosa» gli aveva detto una volta Conall «avrai sempre il tuo cane Cuchulainn per ricordarti di me e della nostra amicizia.»
«Tu sarai mio amico finché vivrò» gli aveva assicurato Finbarr. «Scommetto che sarò io il primo a morire.» E siccome non era in grado di ricambiare il principe con un dono dello stesso valore, poteva per lo meno, pensava, fare in modo che la sua amicizia fosse profonda e leale quanto l’affetto di Cuchulainn per lui.
Conall aveva anche un altro talento. Sapeva leggere.
Le genti dell’isola avevano familiarità con la parola scritta. E i mercanti che vi approdavano dalla Britannia e dalla Gallia spesso sapevano leggere. Sulle monete romane che usavano erano impresse lettere latine.
Finbarr conosceva parecchi bardi e druidi che sapevano leggere. Poche generazioni prima, gli uomini sapienti dell’isola, servendosi di suoni vocalici e consonantici derivanti dal latino, avevano persino inventato una loro semplice scrittura con cui incidere memoriali su pali o pietre infissi nel terreno. Ma sebbene di tanto in tanto qualcuno si imbattesse in una pietra con quegli strani segni in ogham incisi lungo il margine, simili alle intaccature di un bastone da conteggio, quel primo sistema di scrittura non era mai diventato di uso comune. Né, come Finbarr sapeva, veniva usato per tramandare il sacro retaggio dell’isola.
«Non è difficile capire perché» gli aveva spiegato Conall. «Innanzitutto, la sapienza dei druidi è segreta, e non è opportuno che persone indegne la leggano. Irriterebbe gli dèi.»
«E i sacerdoti perderebbero il loro sacro potere» aveva commentato Finbarr.
«Questo è forse vero. Ma c’è anche un’altra ragione. Il grande tesoro dei nostri saggi, bardi, filidh e druidi, consiste nella loro capacità mnemonica. E questo rende fortissima la mente. Se mettessimo per iscritto tutta la nostra con...

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Rutherfurd, E. (2014). I principi d’Irlanda ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3296529/i-principi-dirlanda-pdf (Original work published 2014)

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Rutherfurd, Edward. (2014) 2014. I Principi d’Irlanda. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3296529/i-principi-dirlanda-pdf.

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Rutherfurd, E. (2014) I principi d’Irlanda. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3296529/i-principi-dirlanda-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Rutherfurd, Edward. I Principi d’Irlanda. [edition unavailable]. Mondadori, 2014. Web. 15 Oct. 2022.