Il dicembre del professor Corde
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Il dicembre del professor Corde

Saul Bellow, Pier Francesco Paolini

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Il dicembre del professor Corde

Saul Bellow, Pier Francesco Paolini

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Albert Corde, mite professore universitario a Chicago, intraprende una battaglia personale contro i teppisti della città dove vive, affrontando in prima persona il progressivo e inaccettabile disfacimento del mondo che lo circonda. Un libro toccante in grado di far luce sui problemi più scottanti del nostro tempo.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2014
ISBN
9788852056451

IV

Ciascun giorno, lunghissimo, nella stanza di Minna, era un susseguirsi di curiosi stati d’animo. Prima fase, al momento di alzarsi, infilarsi calzini e maglione di Chicago (di buon cascemir, ma liso ai gomiti) metter assieme un decano che era sempre meno decano, internamente. La stanza era buia, il freddo mortificante. Il gabinetto, in una cella separata dal bagno, era gotico. La carta igienica era ruvida. Un tubo rugginoso emetteva soltanto un rantolo quando tiravi la catena. Niente acqua nel serbatoio. La versavi nel cesso da un secchio. Corde stesso s’incaricava adesso di riempirli, quando l’acqua veniva. Quei secchi erano troppo pesanti per Gigi malata di cuore. Si sarebbe potuto usare la vasca come serbatoio, se il tappo avesse funzionato. Era come negli Stati Uniti ai vecchi tempi, prima dell’era delle comodità. Ti riportava indietro.
Sulla tavola in sala da pranzo, il caffè turco era pronto in un bricco di ottone dal lungo manico, un bel po’ di cicoria; assieme a latte bollito, pane abbrustolito anziché tostato, marmellata bruna con dentro pezzetti d’arancia: un surrogato, ma quanto di meglio la coscienziosa Tanti Gigi poteva fornire. Venivano da lei donne con fagotti. Il suo letto era un posto di comando. Gentili amiche sbrigavano commissioni. Vecchie donne s’alzavano all’alba per far la fila per poche uova, una piccola razione di salsicce, tre o quattro pere ammaccate. Corde aveva visto i negozi e i prodotti, le fosche code: colori grigi, neri, bruni, e un’atmosfera da esercizi obbligatori nel cortile d’un carcere. Le gentili signore facevano certo gli acquisti al mercato nero, poiché Corde e Minna davano a Gigi tutti i lei acquistati con i dollari all’assurdo tasso di cambio. Corde mangiava uva e mandarini e altre cose di lusso del mercato nero. Di tanto in tanto gli veniva servita della carne. Era opinione di quelle signore che dovevano esserci cose buone, nella casa della morte. Specie per chi proveniva dal beato mondo esterno, forestieri per i quali mandarini e carne erano cose scontate, di cui avrebbero sentito la mancanza, schizzinosi com’erano. Era un oltraggio il modo come divoravano, ignari. Nutrire un americano doveva divertire quelle donne anziane. Ma avevano scordato, a quanto pare, come si cuoce una bistecca. La carne veniva servita secca, bruciacchiata persino. Forse l’olio non era buono. Comunque, la carne sapeva di fuoco e suggeriva sacrifici. Aveva un sapore animalesco: c’era ancora l’odore della stalla, della pelle, e lui doveva sopprimere la sgradita sensazione di intimità animale che gli dava. Tuttavia mangiava la bistecca, quando gliela mettevano sul piatto, e diceva a Tanti Gigi ch’era squisita. Sapeva bene quanta fatica costava ottenerla. Gigi non si risparmiava, si faceva in quattro. Veniva un cugino medico, l’auscultava con lo stetoscopio, le ordinava di starsene a letto, ma lei si alzava per preparare una torta per Corde poiché lui una volta aveva detto che gli piacevano, quelle sue torte all’uva passa, e, quando non cucinava, faceva altre faccende. Tirava giù scatole dagli scaffali, cercando cimeli di famiglia. Rispondeva al telefono. Si avvolgeva nello scialle e scendeva da basso per parlare con Ioanna, la portinaia. I portieri erano confidenti della polizia. Bisognava tenerseli buoni. Se l’ascensore non funzionava, perché le porte erano rimaste aperte, vedevi Gigi scendere lentamente, gradino per gradino. Magia difensiva: così Corde definiva quelle visite propiziatorie che Gigi faceva alla portinaia. Le scale avevano odore di intonaco vecchio, caduto dalle crepe che il recente terremoto aveva aperte, e, quando aprivi la porta, eri colpito dal freddo: era come una piattonata con la sciabola.
Cinquanta anni fa, Gigi era stata mandata a Londra a studiare inglese commerciale. Parlava questa lingua discretamente, alla maniera hoity-toity (frivolo-pomposa) degli stranieri che si rivolgono agli americani in inglese inglese. Ma non era altezzosa, solo cantava canzoni d’un tempo migliore. Non si sarebbe sognata di umiliare il decano. «Quando sarà passato questo guaio» gli prometteva «we will have to have a taita tait – parleremo tetatet
Corde vedeva come stavano le cose. In quell’oppressivo paradiso socialista, Tanti Gigi dipendeva dalla sorella, si sentiva protetta da lei. Ora quella sorella era morente (sebbene, dicendo «Quando sarà passato questo guaio», lei lo negasse) e Gigi aveva assunto il ruolo di protagonista. Dopo anni da comprimaria, cercava di recitarlo. Fece suoi persino i dubbi di Valeria sul conto di Corde. Questi se n’avvide quando notò che Gigi lo scrutava a volte in viso, in silenzio, con quei caldi occhi bruni dilatati dall’elucubrazione femminile: ci si poteva veramente, ma veramente, fidare di lui? Era ovvio che si era molto discusso, in quella casa, della sua stabilità. Dati i suoi precedenti di debosciato (qualcosa come le milletré avventure di Don Giovanni in Spagna) si sarebbe serbato fedele alla loro Minna? Corde non si seccava più, per questo. Era giusto che Gigi si ponesse, lei pure, dei dubbi. Il comportamento americano era davvero irregolare, alla stregua di quegli europei dell’Est, all’antica. Corde l’avrebbe titillata, se le avesse fatto delle confidenze. “Sì, ho conosciuto alcune donne sfrenate – wild women – ma è acqua passata. Non mi preoccuperei, se fossi in te.”
Vallo a dire alla commissione per la libertà vigilata!
Tanti Gigi, a settant’anni, era ancora la sorella piccola: ostinata, aveva slanci di bontà, non tollerava che si rifiutassero i suoi sacrifici.
Corde disse a Minna: «Tua zia ha ogni sorta di idee, per la testa».
«Sì, lo so.»
«Lo trovo commovente. Queste sorelle.»
«Ai vecchi tempi, quand’era bella, le piaceva vestirsi. Era molto elegante. La gente si voltava, per la strada. Poi, negli anni Quaranta, cominciò a pigliarsi in casa degli orfani di guerra. Una ventina, ne prese. Mia madre l’aiutava. Poi morì suo marito.»
L’appartamento era intestato a Valeria. I parenti discutevano del futuro di Gigi con Minna. Che farebbe, rimasta sola?
Poco prima che Valeria avesse l’apoplessia, Gigi era andata dal parrucchiere (si era fatta la permanente) ma adesso l’acconciatura si stava disfacendo, i capelli le spuntavano irti sulla nuca, come le sotto-fronde di un palmizio. Si affannava per Corde soprattutto a colazione. «Magari avessimo un vero tostapane, ma non c’è, non c’è. Si lascia bere, quel caffè? Sei stato furbo a portarti una scatola di tè da Chicago. Forse si trova, all’Intercontinental, un giornale straniero per te.» Diceva anche: «Che peccato, che tu non possa vedere quant’è bello il nostro Paese, anziché vederne solo il lato buio, spaventoso, spaventosamente squallido – frightfully dreary». Doveva aver imparato l’inglese dai libri di fiabe di Beatrix Potter. Un inglese da nanny, da balia, in versione balcanica.
Corde disse: «All’Intercontinental ho visto solo la “Pravda” e “Tribuna Ludu”. L’“Herald Tribune” non ce l’hanno». In realtà, per un verso la mancanza di notizie non gli dispiaceva. A casa leggeva troppi giornali. Stava meglio, senza la dose quotidiana di finti avvenimenti, seccature mondiali, senza le solite frasi dei giornali. Niente di vero – veramente vero – poteva venir detto sui giornali. In sala da pranzo c’era una grossa radio a onde corte, che sembrava in grado di captare Giava ma emetteva, invece, solo stridori. Il grosso televisore rivestito di legno era ugualmente inutile. Non si vedeva altri che il dittatore, su quello schermo. Costui tagliava nastri, ispezionava, salutava, presiedeva. E c’erano fanfare, fiori, limousines. Si vedeva la gente applaudire. Ma, se avessero aperto le frontiere all’emigrazione, il Paese si sarebbe spopolato in meno d’un mese.
Il decano cominciò a interessarsi alle piante di casa. La stagione era propizia ai ciclamini. I negozi dei fiorai ne erano pieni. Lui guardò “ciclamino” sul Larousse. Vedendo Corde che annaffiava le piante, Tanti Gigi ordinò alle sue emissarie altri fiori. Lui era contento della loro compagnia. Gli rinfrescavano le idee. Quelle violette africane che aveva lasciate, a Chicago, a quest’ora saranno bell’e morte.
Dopo colazione, tornò in camera di Minna, sedette alla scrivania di Minna studentessa, col cappotto sulle spalle, cercò di scrivere una lettera, o di prendere appunti per il nuovo lavoro in collaborazione con Beech, lesse alcuni documenti che Beech gli aveva fatto avere, poi scoprì di trovarsi in uno strano stato d’animo. Si accorse di star fissando i ciclamini. Si rinfilò nel letto. Il processo a carico di Riggie Hines e Lucas Ebry era ormai alla seconda settimana. Dal decanato, avrebbero dovuto tenerlo al corrente. Magari, ci sarà stata un’interruzione per le vacanze di Natale, e se ne riparlerà dopo Capodanno. Finora, Miss Porson non gli aveva mai scritto. Era via da otto giorni. Quindi Corde dormiva parecchio, ma non bene. La sua era un’estasi irrequieta.
Certe mattine splendeva il sole, il cielo invernale era terso. Lui guardava i tralci dell’edera fuori della finestra. Ne cadevano piccole bacche, blu, gelate. I piccioni planavano. Le vecchie gettavan loro del becchime, certamente. Però a lui quegli uccelli non interessavano molto. Ad assorbirlo ipnoticamente erano i ciclamini: il nucleo scuro di quelli rosa e i cerchi purpurei dei bianchi, i petali rivolti indietro, le foglie screziate in vari toni di verde. Secondo il Larousse, i ciclamini appartengono alla famiglia delle primule. Crescono dal bulbo. Qualcuno gli aveva detto, una volta, che questi esseri verdi producono foglie e fiori nel sonno, perfezione scevra di coscienza, disegno senza nervi. Metti una manciata di terra in un vaso, e loro spuntano, bellissimi. Chi gli aveva parlato della vita dormiente delle piante? Fantasticando sui ciclamini, spesso s’appisolava. Si sentiva troppo svampito per ricordare alcunché. Se ce n’hai abbastanza, di queste piante, in camera – pensava – e le annaffi con Nembutal diluito, può darsi che ti curino l’insonnia, che creino un’atmosfera propizia ai sogni.
Il suo orologio biologico non si era messo in pari. Una anormale sonnolenza gravava su di lui alla mattina. Non la contrastava. Si svegliava, in poltrona, e si trovava recline, con le braccia conserte e la faccia volta in su, come un disco radar. Quella posizione gli indolenziva il collo. Cedendo, si spogliava e si infilava nudo sotto le coperte. Allora gli veniva da pensare quanto a lungo era vissuto e quante volte la creatura nuda si era coricata nel suo letto. Minna diceva “sciocchezze!” al riguardo, poiché entrambi erano più giovani della loro età. Ma le carni non erano più tanto sode come in gioventù, certamente. Non cascanti come quelle di sua suocera (Valeria, al reparto rianimazione, gli era sempre presente) ma come negare la decadenza?
A volte Minna lo svegliava da quel sonno mattinale. Veniva a pregarlo, facendogli urgenza (come se lui si sognasse di rifiutare) di alzarsi e andar a salutare certi visitatori. Si trattava del cugino Cornel, di Badia Tich, del dottor Serbanescu, del dottor Voynich – il fratello di Vlada – di parenti e colleghi dei suoi genitori. (La parola “collega” aveva maggior peso in Romania che non in America. Gli americani parlano piuttosto di “associati” come in “Alì Babà e i quaranta associati”.) Perlopiù eran persone anziane e malferme. Si rendevano conto di quant’erano malandati, e sembravano accompagnare la stretta di mano con una spallucciata, quasi a dire: “Lo vede com’è”. A Corde sembrava che si fossero abbigliati per una festa della depressione. Parlavano un francese arrugginito, con lui, risparmiandogli il loro inglese ancor peggiore. E badavano, naturalmente, a squadrarlo da capo a piedi, quel marito americano, che sedeva là, cascante. Si era vestito mezz’intorpidito e si sentiva sconnesso con calzini, scarpe, camicia e giacca. Non si comprava un vestito nuovo da quando si era sposato, cinque anni fa. Non aveva più bisogno di rendersi attraente, di distogliere l’attenzione dalla calvizie, dal lungo collo, dalla faccia tonda (“come un girasole d’inverno”: parole sue). Ancora non ben sveglio, rispondeva a cortesi domande con pari cortesia, facendo affidamento su quella sua pacata voce da basso. Perlomeno la figlia dei Raresh aveva sposato un americano che parlava francese. Il francese era molto apprezzato, lì, conoscerlo era un merito. Lui spiegava che era vissuto a Parigi, per un certo tempo, ma la sua conversazione in francese non era spedita. Beveva un bicchiere di grappa (nonostante sapesse di stracci muffi rincuorava) tirava su e mangiava una fetta di torta, assieme a una tazza di tè. Ognuno dei presenti cercava di dirgli qualcosa, di fargli capire come stessero le cose. Inoltre si rendeva conto che cugini e colleghi erano molto fieri del prestigio scientifico di Minna. Lui si trovava d’accordo, qui. Lo rallegrava pensare quanto fosse in gamba, Minna, anche sul piano umano. Avesse potuto lasciarsi andare, avrebbe parlato loro delle grandi doti umane di sua moglie. I visitatori avrebbero apprezzato, da lui, discorsi intelligenti sulla politica degli Stati Uniti. Dopotutto, lui veniva dal beato mondo occidentale. Era libero di parlare. Ciò per loro era impossibile. Tutti i colloqui con gli stranieri andavano denunciati. Pochi erano arditi abbastanza da recarsi alla biblioteca americana. Coloro che sedevano nella sala di lettura, erano magari agenti segreti. Ecco uno dei maggiori risultati del comunismo: isolare milioni di persone. Oggigiorno la tecnica della censura equivale alle tecniche dell’informazione: chi l’avrebbe mai detto? Naturalmente, come già in Francia sotto l’occupazione nazista, quei milioni di prigionieri si davan da fare, s’arrangiavano per tenersi in vita. Nella malinconia del pomeriggio, alla luce del giorno languente, quella stanza sembrava anche più fredda e c’era un senso di scoraggiamento: quindi, quelle persone sarebbero state liete di ascoltare un personaggio così esotico, come questo americano intelligente; udire da lui parole di comprensione, di conforto: la dittatura non durerà in eterno. Ma lui non se la sentiva di dir niente. Eppoi, non era in sé del tutto. Neanche la grappa lo tirava su, gli schiariva le idee. Il professor Voynich stava già per prendere congedo, quando Corde lo identificò. Oh, sì, il fratello di Vlada. Si alzò per stringergli la mano una seconda volta. «Verrà Vlada per Natale?»
«Senz’altro.»
«Chiedo scusa… Sono un po’ distratto, oggi» disse Corde. «Mi porterà notizie da Chicago, credo.»
Il professor Voynich era anziano, dall’aria sciupata. Sua sorella era robusta, pallida, rotonda; molto diversa da lui. Ma lei non era stata in prigione per… per quanti anni? Gran parte del tempo, da recluso, Voynich l’aveva trascorso in isolamento. Prendendo commiato, disse a Corde: «Sua moglie m’ha detto che non ha visto quasi niente, di Bucarest. Lei è così presa! Sarò lieto di accompagnarla io, uno di questi giorni, prima che arrivi mia sorella.»
«Gliene sarò grato.»
Dopo aver richiuso il portoncino, Corde non tornò in salotto. Andò invece in camera e si rimise a letto. La temperatura di 13 gradi era l’ideale, per i ciclamini. Prese l’esempio da loro e si eclissò, rinunciò alla coscienza. Non gli dispiacque di sentirsi dileguare, arrendersi, deporre i sensi – chiudendo gli occhi – “qualcosa come uno svenimento” pensò.
Ma l’indomani – la mattina arrivò in un baleno – era di nuovo vispo. Gli telefonarono dall’ambasciata americana. Qualche amico, a Washington, doveva aver tirato un filo importante. Un’auto sarebbe passata a prenderlo alle dieci e mezza. Corde si sbarbò con cura, si vestì decentemente e scese. Ioanna, la portinaia, sbirciò dalla guardiola. Aveva qualcosa da riferire alla polizia, quel giorno. Una limousine con la bandierina americana era venuta a prelevare il marito di Minna Raresh.
Corde aveva mandato a suo tempo un biglietto all’addetto culturale, certo Milancey: un uomo dalla faccia liscia, che portava un buffo cappello, che aveva un sorrisetto storto, che aveva sbrigato per loro le formalità doganali ed era venuto a...

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