Mors tua
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Danila Comastri Montanari

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Mors tua

Danila Comastri Montanari

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Roma, 42 d.C, estate. Il senatore Publio Aurelio Stazio va a fare visita alla cortigiana Corinna e la trova morta, con un pugnale piantato nel petto. Spinto dal suo intuito, Aurelio comincia a informarsi sulla vittima e cerca di conoscere meglio le persone che le ruotavano attorno, ovvero i sospettati: Clelia, la sorella cristiana di Corinna; il senatore Marco Furio Rufo e la sua famiglia; la spregiudicata Lollia Antonina… Ma non fa in tempo a iniziare le indagini che un'accusa di omicidio viene rivolta contro di lui. Per affermare la propria innocenza dichiara che si reciderà pubblicamente le vene durante un banchetto. E così, la sera della festa, mentre tutti i sospettati sono riuniti nella sala, Aurelio si trova a giocare con la propria vita.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2015
ISBN
9788852068812
Appendice

UNA FILOSOFA PER PUBLIO AURELIO STAZIO RACCONTO

Racconto

Herculaneum, anno 795 ab Urbe condita (anno 42 dopo Cristo, estate)

«Questa va bene, padrone?» chiese Castore, porgendo a Publio Aurelio Stazio una veste nera ricamata d’argento.
«No, preferisco qualcosa senza fronzoli» rispose il senatore.
«Spero di trovarlo, domine: viaggiamo col bagaglio ridotto» replicò il segretario rimestando nell’arca. Poco dopo ne emerse reggendo una tunica color terra bruciata, che porse subito al padrone.
«Non ho più bisogno di te, per oggi» disse il patrizio. «Se vuoi dedicarti alla lettura, in biblioteca c’è la collezione dei papiri del celebre filosofo Filodemo di Gadara.»
«Non puoi certo lamentarti dell’ospitalità; questa villa è veramente lussuosa!» commentò il liberto.
«Il proprietario mi doveva un favore, così ne ho approfittato per venire a conoscere gli ultimi epicurei di Herculaneum. Purtroppo ne sopravvivono soltanto pochi cenacoli, tra cui quello di Crisoforo, presso il quale mi accingo a recarmi.»
«Io intanto mi occuperò di numeri...» annunciò il segretario, restando sul vago.
«Sei capitato nel posto giusto, Castore: nella sezione greca della biblioteca troverai il trattato sulla geometria di Demetrio Lacone» suggerì Aurelio, avviandosi al colonnato d’ingresso.
Castore attese che il padrone scomparisse alla vista, poi uscì a sua volta, scuotendo la testa al panorama delle vigne che si arrampicavano dal belvedere della sontuosa residenza lungo le pendici del monte, su, fino in cima. Il Vesuvio, per quanto inattivo, era pur sempre un vulcano, pensava il segretario, e soltanto i romani erano tanto pazzi da viverci proprio sotto. Per fortuna il soggiorno non sarebbe durato a lungo: presto il padrone, stanco di sole, mare e aria pura, avrebbe rimpianto il caos dell’Urbe dal quale non riusciva a star lontano, senza contare che quei filosofi avevano fama di essere gente molto sobria, troppo sobria per il senatore Publio Aurelio Stazio, se ben lo conosceva... Rassicurato, Castore prese la via della spiaggia, diretto alla taverna del Tempio di Venere, dove si puntava forte sul triplo sei.
Giunto al centro di Herculaneum, Aurelio infilò un vicolo tanto stretto che i balconi sospesi sui due lati della strada arrivavano quasi a toccarsi. Procedeva senza fretta, godendosi la passeggiata all’ombra dei portici, senza la noia dei lettighieri, degli schiavi annunciatori, dei clientes perennemente appostati per strappargli qualche favore. Una casa modesta, qualche amico affezionato e un paio di servi fedeli erano più che sufficienti a garantire un’esistenza felice, rifletteva il senatore pensando alle parole del poeta Orazio. Lì a Herculaneum, per esempio, tutto appariva più semplice e sereno che a Roma: un paio di graziosi stabilimenti termali, un mercatino sul decumano, il mare a due passi, cibo genuino, gente cordiale...
«Togliti dai piedi, babbeo!» lo assalì in quel momento un carrettiere, spingendolo da parte. Publio Aurelio, memore delle raccomandazioni di Epicuro sull’imperturbabilità dell’uomo saggio, fece finta di non sentire. Poco dopo bussava alla porta di Crisoforo.
«Via, via, non compriamo niente!» sbraitò una voce scorbutica.
«Cerco il maestro...»
«Non c’è, torna più tardi!»
Alle spalle del patrizio risuonò una risata: «Ariadne è un po’ nervosa, eh?».
Publio Aurelio si girò di scatto e la prima cosa che vide fu una capigliatura superba color del bronzo scuro. Lo sguardo ammirato risalì lentamente dai capelli al seno, che nemmeno la rozza veste di canapa riusciva a dissimulare, poi al collo, alla bocca di corallo e agli occhi nocciola illuminati dal sorriso.
«La conosci?» chiese Aurelio, incapace di credere che un simile capolavoro di grazia avesse qualcosa da spartire con l’acida virago di poco prima.
«Oh, sì. È la nipote di Crisoforo. Io invece sono la discepola Temista.»
«Temista, come la filosofa?» si stupì il senatore, affrettandosi a sgravarla dell’acqua che era andata ad attingere alla fonte.
«Non lo nego, ho scelto questo nome in suo onore. Ma ecco il maestro che arriva...»
In fondo al vicolo apparve un vecchio corpulento, con una lunga barba bianca. Lo seguiva un uomo mingherlino, anche lui barbuto, ma col pizzetto nero come la pece.
«Benvenuto, straniero» lo accolse Crisoforo. «Vedo che hai già conosciuto Temista. Questo è l’altro mio allievo, Nicio.»
Poco dopo i quattro sedevano sotto il basso porticato del cortile, dove cinguettavano un gran numero di passeri e cince, attirati dalla mangiatoia piena di semi.
«Mi chiamo Publio...» cominciò il senatore.
«È sufficiente» lo interruppe il filosofo. «Non è mia abitudine giudicare gli uomini misurandoli dalla famiglia da cui provengono.»
«Ti ho portato alcuni manoscritti...» disse Aurelio, traendo dei rotoli dalla capsa.
«Ti ringrazio!» esclamò il maestro, impadronendosi dei papiri. «Li sfoglierò subito con grande gioia. Anni or sono, quando godevo del permesso di accedere alla biblioteca della villa oltre il fiume, ho letto Colote, Metrodoro, Polistrato e tanti altri. Ma adesso il proprietario è sempre assente e il capo della servitù non concede nulla per nulla... peccato, mi sarebbe piaciuto mostrarteli! Comunque abbiamo molte cose da dirci; ti prepareremo un giaciglio per la notte.»
«Non disturbarti, ho già provveduto» ribatté il senatore, riluttante a confessare di essere ospite nella grande villa.
«Allora cenerai con noi» lo invitò Crisoforo, offrendogli una ciotola di vino acidulo e insapore, tanto leggero da sembrare una bevanda per gladiatori. Il pasto, ahimè, si accompagnava perfettamente al vino: zuppa di ceci mista a un po’ di farro malcotto e, per finire, un paio di lampascioni sott’aceto con una crosta durissima di formaggio.
Ciononostante, Publio Aurelio mangiò ogni pietanza con robusto appetito. A rendergli gradita la cena frugale bastavano la presenza di Temista e la saggia conversazione del maestro, purtroppo interrotta di sovente dalle pedanti considerazioni di Nicio. Ariadne, seduta in fondo al tavolo, ascoltava annoiata, rivolgendo lunghi sguardi sospettosi al senatore ogniqualvolta i suoi occhi indugiavano sulla bella discepola, il che invero accadeva spesso.
«Sono in parecchi a scandalizzarsi ancora perché i cenacoli epicurei sono aperti alle donne!» lamentava Crisoforo.
«Mi pare ovvio» interloquì Nicio. «La nostra dottrina prescrive di guardarsi dalle passioni... e le donne, si sa, sono inclini a soggiacervi.»
«Non più degli uomini» obiettò Aurelio.
«È ben diverso!» insistette Nicio con fare sentenzioso. «L’animo femminile tende a un’eccessiva emotività; per tal via finisce col sommergere di significati assurdi una mera funzione corporale come quella riproduttiva.»
«Mera funzione corporale?» ironizzò Aurelio. «Vuoi forse dire che la guerra di Troia è stata combattuta per un banale esercizio ginnico?»
«Quasi» confermò il discepolo. «Se infatti spogliassimo l’amore dei falsi veli che lo ammantano, ne eviteremmo le luttuose conseguenze: niente più tormenti, dolori, battaglie, città in fiamme...»
«E niente più Iliade, Odissea, Orestiade...» aggiunse il senatore con un sorriso.
«Sostiene Epicuro: “L’amplesso carnale non ha mai giovato; è già molto se non reca danno”» citò Nicio, scrutando in tralice Temista.
«Ma afferma anche: “Non intorbidire il bene presente con l’assillo di ciò che ti manca”» ribatté sarcastico Publio Aurelio.
Punto sul vivo, Nicio impallidì e si levò in piedi, coi pugni serrati in un atteggiamento che aveva ben poco della serena atarassia degli epicurei.
«Calma, calma, dobbiamo intenderci!» intervenne Crisoforo. «Epicuro non predica il sacrificio: reprimere desideri e istinti sarebbe ancor peggio che inseguirne a tutti i costi la soddisfazione.»
«Felicità è godere ciò che si ha, anziché bramare ciò che non si possiede» chiosò Temista con voce ispirata.
Le dita contratte di Nicio si rilassarono, ma l’espressione torva del volto non mutò. Poco dopo chiedeva il permesso di ritirarsi, col pretesto del lavoro che lo aspettava l’indomani. Libero dal discepolo saccente, Publio Aurelio si trattenne piacevolmente fino a tarda ora, ed era già scesa la notte quando il maestro lo accomiatò, raccomandandogli di tornare l’indomani.
«Fai luce in strada, Temista, i funalia non sono accesi» pregò, mentre il senatore prendeva la porta.
La ragazza precedette l’ospite in silenzio, tenendo la lucerna bassa. Solo, in piena notte, con una donna affascinante, il senatore si trovò subito in preda a un inquietante dilemma morale: resistere alla tentazione a rischio di immani turbamenti, o cedervi per evitare mali peggiori? “Nemmeno Epicuro avrebbe avuto dubbi” si disse, facendo appello a tutta la sua faccia tosta per abbordare la bella discepola.
«Quando posso vederti da sola?» le chiese subito.
«Che cosa offri?» ribatté lei tra il serio e il faceto.
«Qualunque cosa tu voglia» esagerò Aurelio, attirandola a sé.
«Vediamo, allora...» finse di pensarci sopra la ragazza. «Che ne pensi di un monile d’oro tanto pesante da non poter sollevare il braccio?»
«Lo avrai.»
«E una festa nella grande villa oltre il fiume?»
«Puoi cominciare a organizzarla, se ti garba.»
«Ti piace scherzare, eh? Aspetta, non ho finito: devi portarmi anche un ramo di pruno in fiore.»
«Un ramo di...» fece il patrizio, interdetto. «Ma non è stagione...»
«Peccato!» rise la donna, sottraendosi all’abbraccio.
Un istante dopo, Aurelio vide spegnersi il lucignolo tremolante e sentì lo scalpiccio dei passi che si allontanavano nel buio.
Deluso, attraversò rapidamente i quartieri centrali di Herculaneum e svoltò in direzione della villa. La strada era completamente buia, salvo un’asfittica torcia appesa al muro delle Terme. “In provincia si va a letto presto” considerò il senatore, e all’improvviso Herculaneum gli sembrò una città triste e noiosa.
Giunto a destinazione, il patrizio si rifocillò subito con l’ottimo Ulbano che gli mesceva il segretario.
«Un pruno in fiore!» ripeté irritato, ingollando un lungo sorso di vino. «Sono stato troppo precipitoso, quella ragazza non è abituata alle proposte galanti. Traspare da lei una specie di pudico ritegno, che si sforza di occultare con l’ironia...»
Castore scoppiò a ridere di gusto. «Non starai parlando di Temista, la discepola di Crisoforo, vero?»
«Sì, perché?» si stupì il senatore.
«Oggi ero in una taverna del porto. Nella zona non mi conoscono, così ho pensato di spennare qualche pollo con i miei dadi speciali. Ora, sai meglio di me quanto è facile sciogliere la lingua ai giocatori...»
«Ebbene?»
«Nel bel mezzo della partita ho portato il discorso sulla tua banda di filosofi, imparando un bel po’ di cosette. La bisbetica Ariadne, anzitutto, è molto più giovane di quello che sembra: promessa a un notabile della città, venne piantata poco prima delle nozze e da allora ce l’ha col mondo intero. Nicio, invece, era l’intendente dei mercanti Veconii, prima di sottrarre un...

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