Le ateniesi
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Le ateniesi

Alessandro Barbero

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Le ateniesi

Alessandro Barbero

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Atene, 411 a.C. Siamo in campagna, appena fuori dalle porte della città, dove, in due casette adiacenti, abitano due vecchi reduci di guerra, Trasillo e Polemone. Anni prima hanno combattuto insieme nella ingloriosa battaglia di Mantinea, che ha visto gli Ateniesi sbaragliati dagli Spartani, sono sopravvissuti e ora vivono lavorando la terra e senza mai decidersi a trovare un marito per le loro due figlie, Glicera e Charis, che però iniziano a mordere un po' il freno.

Per i due vecchi l'unica cosa che conta è la politica. Atene ha inventato la democrazia ma deve difenderla, i ricchi complottano per instaurare la tirannide: anche il vicino Eubulo, grande proprietario che si ritira in una villa poco distante quando le fatiche della vita nella polis richiedono un po' di riposo, è guardato con sospetto. Ma Charis e Glicera pensano che i padri vivano fuori dal mondo: per loro il giovane Cimone, figlio di Eubulo, ricco, disinvolto e arrogante, è un oggetto di sogni segreti.

È così che, quando tutti gli uomini si radunano in città per la prima rappresentazione di una commedia di Aristofane, le ragazze violano tutte le regole di una società patriarcale e accettano di entrare in casa di Cimone, lontane dagli occhi severi dei padri. Ma mentre in teatro l'ateniese Lisistrata e la spartana Lampitò decretano il primo, incredibile sciopero delle donne contro gli uomini per invocare la fine di tutte le guerre, la notte nella villa di Eubulo prende una piega drammatica.

Con la sua straordinaria capacità di far rivivere per noi la storia tra le pagine, Alessandro Barbero compie un'operazione affascinante e spregiudicata: mette in scena nell'Atene classica un dramma sinistramente attuale e al tempo stesso porta sul palcoscenico una commedia antica facendoci divertire e appassionare come se fossimo i suoi primi spettatori.

Le Ateniesi è un romanzo sorprendente, a tratti durissimo, che narra con potenza visionaria la lotta di classe, l'eterna deriva di sopraffazione degli uomini sulle donne, l'innocenza e la testardaggine di queste ultime, la necessità per gli uni e le altre di molto coraggio per cambiare il corso della storia.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2015
ISBN
9788852067563

1

Sono passati sette anni. Siamo in campagna, appena fuori dalle mura di Atene, ed è inverno. Dovete immaginare i campi brulli, gli ulivi nodosi, i fichi senza foglie, e due casette una vicina all’altra, con le porte sprangate, e il fumo che esce dal buco nel tetto. Qui vivono i due vecchi, Trasillo e Polemone: se la sono cavata tutt’e due, alla fine, anche se Trasillo ha perso l’uso d’un braccio, e l’amico ha in faccia una cicatrice che gli attraversa la bocca. Sono invecchiati in fretta, in questi anni, dopo una vita passata a spaccarsi la schiena nei campi, con gli affanni della guerra che non finisce mai, e le tristezze in famiglia: tutt’e due sono rimasti vedovi. Gli rimane una sola gioia, le figlie: ne hanno una ciascuno, Trasillo ha Glicera e Polemone ha Charis, e ormai le ragazze sono in età da marito. Tante volte si sono detti: che peccato che uno di noi non abbia un maschio! Si sposerebbero, e saremmo a posto per sempre. Invece bisognerà cercare dei generi che se le porteranno via, e nessuno dei due ha tanta voglia di pensarci.
Ah, dimenticavo: quell’altra casa che si intravvede in fondo alla strada, quella grande, col recinto e il cancello, mezzo nascosta fra gli ulivi, appartiene a un altro ateniese, ma non un povero come i nostri. Lui è uno dei “grossi”, un ricco che vive in città, e in campagna ci viene solo a sorvegliare i lavori: Eubulo. Lui un figlio maschio ce l’ha, Cimone; quello sì che sarebbe un bel partito, ma non c’è neanche da pensarci, Glicera e Charis sono troppo povere per lui. Negli ultimi anni i vecchi hanno dovuto vendere parte della terra, non hanno più neanche uno schiavo: la guerra sta rovinando tutti, anche se i politici continuano a promettere che presto le cose andranno meglio, e il popolo continua a votarli, credendo a tutte le promesse. Ecco, mi pare di aver detto tutto, adesso la nostra storia può cominciare. Attenzione, la porta di Polemone si sta aprendo...
Charis si affacciò alla porta, annusò l’aria e rabbrividì. Il cielo era grigio e basso, e tutto quel che si vedeva era bagnato: durante la notte era piovuto. La ragazza si avvolse più strettamente nel mantello e uscì in mezzo al fango. Sulla testa reggeva in equilibrio un’anfora vuota. Come tutte le mattine affrontò, a piedi nudi, i dieci minuti di cammino che separavano casa sua dalla fontana. Era una fontana di paese, scavata direttamente nella roccia, ma l’acqua usciva da una testa di leone in bronzo. Tanto tempo prima c’era stato un leone intero, che reggeva fra le zampe una vasca per lavare; ma l’anno in cui Charis era nata gli Spartani avevano invaso l’Attica e s’erano spinti fin lì, e oltre a tagliare le viti e gli ulivi si erano portati via il leone di bronzo. Charis ricordava benissimo che quando era bambina la fontana non esisteva più, c’era solo un filo d’acqua che sgorgava dalla roccia. Poi la comunità aveva deciso di ricostruirla e gli abitanti si erano tassati, ma soldi ce n’erano pochi: del leone avevano installato soltanto la testa, con la canna dell’acqua che usciva dalla gola.
Alla fontana un gruppo di donne perdeva tempo chiacchierando, in attesa che le anfore si riempissero. La maggior parte erano schiave, e Charis le conosceva solo di vista; l’unica con cui aveva un po’ più di amicizia era la Moca, la schiava tracia che stava in casa di Eubulo. Charis andò a posare in terra l’anfora accanto alla sua. La Moca era una donna matura, e secondo i vicini aveva la lingua troppo lunga; dicevano anche che sapeva certi incantesimi della sua gente, ed era disposta a farli provare per un po’ di soldi, ma Charis, quando aveva sentito gli adulti che ne parlavano e ridevano, non aveva mai capito di che cosa si trattasse davvero.
«Che giornata!» commentò la tracia, accennando al cielo gravido di pioggia.
«Puoi dirlo» assentì Charis. «Mio padre stamattina si alza, guarda fuori: piove, è la benedizione degli dèi! Era tutto contento. Io per me ne farei proprio a meno.»
«Lavorate fuori, oggi?»
«Ha deciso di cominciare a potare la vite. Proprio oggi, ma ti pare? Dice che è già in ritardo» comunicò Charis, rassegnata. In una giornata come quella, lei se ne sarebbe stata così volentieri in casa a scaldarsi al fuoco; ma i vecchi vogliono far tutto a modo loro, e in famiglia non si discute, si obbedisce.
«Guarda, arriva la tua vicina» annunciò Moca. Charis si voltò: Glicera arrivava un po’ affannata, i capelli mal pettinati che sfuggivano a ciocche dal fazzoletto, sostenendo con una mano l’anfora in equilibrio sulla testa.
«Che giornata!» disse subito, mentre posava l’anfora. Le altre risero.
«Ti sei alzata tardi?» domandò Charis.
«Non me ne parlare! Mio padre si è rigirato tutta la notte, per la fregola di andare nella vigna. È ora di potare, non riesce a pensare ad altro.»
Moca rise.
«Be’, è proprio vero, dove va un cane va anche l’altro.» Il greco lo sapeva male, ma i proverbi li aveva imparati tutti.
«Vacci piano col tuo cane, o mio padre ti farà frustare» esclamò Glicera; ma rideva.
Intanto era arrivato il turno di Moca, poi quello di Charis. Riempite le anfore, rimasero ad attendere che toccasse anche a Glicera; le donne che erano arrivate per prime ripartivano tutte insieme, azzittite sotto il peso.
«Si torna?» disse Glicera, quando anche la sua anfora fu colma.
«Dai» acconsentirono le altre, senza entusiasmo. Dovettero inginocchiarsi per riuscire a caricare le anfore sulla testa, poi si rialzarono barcollando.
«Da noi oggi c’è lavoro doppio» disse Moca dopo un po’. «Il figlio del padrone viene a vedere uno stallone nuovo, mangerà qui con gli amici.»
«Finita la vita comoda!» scherzò Glicera.
«Cosa vuoi, ogni tanto ci tocca!» borbottò la tracia. «Siamo già fortunati che il padrone vecchio dorme quasi sempre in città.»
Continuarono a scherzare finché Moca non fu sparita sulla strada fiancheggiata di ulivi che portava alla proprietà di Eubulo. Glicera e Charis ripresero il cammino. Lì il fango, meno battuto, era più profondo, i piedi nudi affondavano fino alle caviglie.
«Ma tu non sei stufa di lavorare come una schiava?» se ne uscì all’improvviso Glicera.
Charis, affannata sotto il peso, le gettò un’occhiata stupita. Che discorsi: lavorare è il destino degli umani, suo padre glielo diceva sempre. Se non ti andava di lavorare, dovevi nascere fra gli dèi. Una volta, a dire il vero, Charis aveva obiettato che i ricchi non lavorano. Suo padre aveva fatto una faccia strana. «Se il popolo aprisse gli occhi, vedi che lavorerebbero anche loro» aveva borbottato. A Charis i discorsi di suo padre non interessavano tanto, e non aveva più ascoltato.
Glicera, però, insisteva, si vedeva che stava seguendo un suo pensiero. Era sempre stata lei, delle due, quella che faceva le domande. Quando i loro corpi di bambine avevano cominciato a cambiare, era lei che aveva chiesto a Charis, una volta, di lasciarsi toccare quei seni che le erano spuntati sul petto, e di toccarle i suoi. Lo avevano fatto due o tre volte, in cantina, al buio.
«No, dico sul serio. Io non sono nata per fare questa vita – e neanche tu» concesse Glicera.
«E cosa vuoi farci?» obiettò l’altra.
«Vuoi che te lo dica? Voglio sposare un uomo che non mi faccia più lavorare come una bestia da soma.»
«Sarebbe bello!» rise Charis. «Sposare un cavaliere. E a casa, dare ordini alle schiave.»
Continuarono a ridacchiare per un po’, mentre sguazzavano nel fango.
«Con tuo padre hai mai parlato di quando ti sposerai?» chiese Charis alla fine. Glicera scosse la testa.
«Ci ho provato, ma non è cosa. Lo sai com’è fatto. Dice che quando sarà ora ci penserà.»
Tutt’e due tacquero, assorte. Quando sarà ora: e cioè quando? Uomini dell’età adatta, in città non ce n’erano poi così tanti. Con tutti i giovani che erano morti in guerra, specialmente durante la maledetta spedizione di Sicilia: un’intera flotta era partita tre anni prima, e non era più tornata. E ancora adesso, in troppi servivano al fronte e sulla flotta: e intanto le ragazze rimaste a casa crescevano – e la giovinezza sfiorisce presto...
Alle loro spalle esplose un nitrito formidabile. Glicera e Charis si fermarono stupite. Seguì un altro nitrito, e un altro, così disperato che pareva stessero cercando di scannare un cavallo, o di trascinarlo verso il lupo.
Le amiche si guardarono.
«Sarà lo stallone nuovo che diceva Moca. Andiamo a vedere?» propose Glicera.
Charis aveva paura dei cavalli, ma non voleva ammetterlo.
«Andiamo» acconsentì, senza entusiasmo.
Ormai erano sul viottolo che portava alle loro case; appoggiarono a terra le anfore e tornarono indietro di corsa. Mentre si avvicinavano alla proprietà di Eubulo sentirono voci rotte di uomini mescolarsi ai nitriti, e poi un fracasso di legna che si spezzava. Scavalcato un muretto a secco, attraversarono l’uliveto e arrivarono alle spalle della grande casa, dove una tettoia e una serie di recinti ospitavano i cavalli del padrone. Dentro uno dei recinti uno stallone bianco, schiumante di rabbia, correva avanti e indietro lungo la staccionata già mezzo demolita; al di là, due cavalle assistevano innervosite, scuotendo le criniere. Due uomini si tenevano a prudente distanza, imprecando inutilmente contro il cavallo. Arrivando in mezzo a loro, Glicera e Charis riconobbero due schiavi della casa.
«State lontane, che è pericoloso!» grugnì uno dei due.
Lo stallone danzava intorno alla staccionata, e dal suo corpo lucido di sudore emanava una tale violenza che le ragazze non avevano bisogno di farselo dire. Piene di curiosità, rimasero a guardare mentre la bestia si apriva un varco nello steccato e irrompeva nel secondo recinto con un nitrito di trionfo. Una delle cavalle si allontanò al trotto, poi si voltò e si fermò a guardare, battendosi le cosce con la coda. L’altra fece qualche passo incerto, poi si fermò, coi fianchi che pulsavano. Lo stallone si avvicinò ed ecco, mentre i due schiavi si incitavano a vicenda a intervenire – ma nessuno dei due si muoveva –, sotto di lui qualcosa cominciò ad allungarsi. Charis e Glicera rimasero incantate a fissare quell’appendice che si gonfiava fino a raggiungere le dimensioni di un braccio umano, mentre il cavallo si avvicinava trotterellando alla giumenta immobile.
«Ma è il suo péos?» sussurrò Charis, che quasi non ci credeva.
A Glicera scappava da ridere.
«Certo! Non l’hai mai visto?»
Charis fece segno di no, sbarrando gli occhi.
«E lei sta lì a aspettarlo!»
Poi s’accorse che gli schiavi le guardavano sogghignando, e sentì che dicevano qualcosa in una lingua che nessuna delle due capiva. Seccata, Charis voltò le spalle.
«Andiamo via, non c’è niente da vedere» disse forte.
S’erano appena allontanate che entrambe scoppiarono a ridere come due pazze.
«Hai visto quelli lì che faccia che facevano?»
Un cavaliere proveniente dalla grande casa le sorpassò al galoppo, schizzando fango. Era Cimone, il figlio del vicino. Cavalcava bene, frustando il cavallo. Senza bisogno di dirselo, le ragazze tornarono un’altra volta sui loro passi, per vedere cosa sarebbe successo. L’acqua poteva aspettare.
Cimone era smontato e stava insultando gli schiavi, che ascoltavano a testa bassa. Lo stallone s’era staccato dalla giumenta, e si guardava intorno istupidito. La cavalla si allontanò di qualche passo, si scrollò, poi si diresse alla tettoia e cominciò a masticar paglia. Uno degli schiavi tolse il morso e la briglia al cavallo con cui era arrivato il padrone.
«Dà qua!»
Cimone glieli strappò di mano, attraversò il varco nello steccato e si avvicinò allo stallone. Placata, la bestia lo guardò arrivare senza capire. Il ragazzo gli accarezzò la testa e il collo, passò la briglia e sistemò il morso in bocca. Teneva il frustino sottobraccio. A casa ti farò vedere io, pensò. Si aggrappò alla criniera con tutt’e due le mani e saltò in groppa. Il cavallo, innervosito, sgroppò due o tre volte, ma Cimone ci sapeva fare, anche senza sella. Sentendo il morso che gli lacerava le gengive, lo stallone provò ancora a ribellarsi, ma poi confusamente capì che era meglio obbedire. Tirando le redini e stringendo le ginocchia, il ragazzo costrinse il cavallo a rimanere immobile. Ecco, così va bene, impara chi comanda. E adesso a casa.
Solo allora si accorse che c’er...

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