Fuori di casa
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Fuori di casa

Eugenio Montale

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Fuori di casa

Eugenio Montale

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Secondo libro di prose dopo Farfalla di Dinard, Fuori di casa raccoglie scritti di viaggio che risalgono agli anni dal 1946 al 1964: un vero e proprio diario di esperienze di vita composto di servizi giornalistici, appunti, ritratti o racconti minimi. I luoghi visitati vanno dalle natie Cinque Terre ai Paesi europei fino al Medio Oriente; che sia inviato dal suo giornale o in vacanza, Montale osserva il mondo con sguardo curioso e attento: un occhio alle "cose", l'altro sempre teso a seguire, nelle "cose" stesse, la nascita della propria poesia. Vera miniera di commenti e suggestioni utili per comprendere la poesia montaliana dalla Bufera a Satura, pur nella varietà delle occasioni che lo hanno generato Fuori di casa è un libro di esemplare compiutezza formale.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2017
ISBN
9788852080401

VI

Storie naturali

Nel giardino zoologico di Strasburgo ogni cicogna porta un cartellino che spiega le ragioni della sua detenzione: trop faible pour partir, tombée du nid, blessée par un insensé, tombée malade ecc. La cicogna è sacra in Alsazia, e credo in tutti i paesi renani. Quelle di Strasburgo vivono in gabbie senza tetto dalle quali potrebbero benissimo evadere, ammesso che siano guarite dalle loro infermità; ma non ci pensano neppure. Evidentemente si sono abituate alla vita sedentaria ed hanno perduto l’istinto migratorio della loro società. Le altre, quelle in attività di servizio, abitano la Renania soltanto nei mesi caldi; poi, al sopraggiungere dell’autunno, si riuniscono in grandi meetings locali, in vasti prati, dove leggono l’ordine del giorno, procedono all’esecuzione sommaria dei deboli o inetti al volo, e, dopo, in grandi sciami triangolari, iniziano il loro grande raid aereo per il Sud-Africa. Al ritorno, in primavera, ritrovano i loro nidi, esattamente gli stessi. Ogni diritto di proprietà, o almeno di prelazione, è rispettato. Raramente la cicogna trova il suo nido occupato; quando ciò avviene uccide l’usurpatore a colpi di becco oppure viene uccisa dal più forte occupante.
Ignoro se si debba a tali lotte la progressiva rarefazione della sacra cicogna dagli infiniti corsi d’acqua, torrenti, botri, paludi che si ammatassano e si sgomitolano dal tronco ribelle del Reno. Le cicogne diventano sempre più rare, dicono i contadini. Per averne qualcuna, essi, i villici, offrono ai pennuti dagli alti trespoli condizioni d’alloggio più che gratuite, collocando in cima alle cuspidi dei loro tetti e granai delle ruote di carro sulle quali le cicogne sono invitate a deporre i primi fastelli di stecchi che formeranno poi il loro nido. Quando il nido è fatto i passerotti vi nidificano a loro volta, e la coabitazione non dà luogo a incidenti. La cicogna è carnivora, ma si nutre di ranocchi e di serpenti d’acqua, non d’altri volatili. Ha superato insomma, come l’uomo civile, lo stadio del puro cannibalismo e cerca, come l’uomo civile, di contemperare i diritti della vita individuale con i doveri della vita sociale, collettiva. Pare che la natura non favorisca affatto questo nobile tentativo e che esso si risolva in un danno per la totalità della stirpe. Certo, se un giorno le cicogne non esisteranno più e se del loro transito terrestre non rimarranno che poche gabbie di rami profilate contro il cielo grigio di Obernai e di Sélestat, l’Alsazia non potrà compensare la perdita coi cervi e con le lepri della selva di Haguenau.
Ciac ciac ciac: un ciabattare di becchi sui tetti aguzzi, un’ombra grottesca sul muro, un volo rapido e forte dal tetto allo stagno, dallo stagno al tetto; e poi, un bel giorno, altro rumore di ciabatte, adunata generale, squilli di tromba e partenza…
Forse il Reno è diventato troppo navigabile per offrire un soggiorno tranquillo alle scontrose cicogne; è troppo canalizzato, ha messo la museruola ai mille rivi che gli corrono accanto come cani trafelati. Probabilmente ai tempi di Goethe la Renania era meglio adatta ad accogliere le periodiche migrazioni di questi grandi braccianti dell’aria. In ogni modo un pool delle cicogne fra i paesi che le ospitano non potrebbe, oggi come oggi, interessare le nazioni che hanno scelto Strasburgo quale loro supercapitale (provvisoria). Purtroppo! Se fosse così l’Europa non avrebbe bisogno di cercarsi una supercapitale.
Non tutte le ostriche che vedono la luce del giorno (se così può chiamarsi la diafana luce delle profondità subacquee) hanno il privilegio di finire la loro esistenza sulla tavola dei loro «consumatori». Queste di Saint-Malo, per esempio, le prelibate huîtres de Cancale, nel periodo in cui sono immesse e mantenute nei vivai subiscono una falcidia ch’è calcolata intorno al novanta per cento. I loro nemici principali sono quei grandi granchi di Bretagna, pinzuti, che somigliano alle granseole dell’Istria ma hanno un colore più scuro; granchi che, peraltro, finiscono essi stessi sulle tavole dei buongustai. Saint-Malo è semidistrutta dalle bombe, ma la cerchia delle mura e il banco dei crostacei della Duchesse Anne parlano ancora delle tradizioni della città: tradizioni guerriere e gastronomiche. Intatto è il monumento a Surcouf, il grande corsaro, barone dell’Impero, che su questa spiaggia uccise undici uomini in duello.
Non so se i granchi sorprendano le ostriche aperte o se riescano ad aprirle con le loro tenaglie; certo ne sono ghiotti e, prima di comparire come accusati sul banco della Duchesse, riescono a mangiarsene intere legioni. L’ostrica che viene posta in commercio ha da tre a cinque anni di vita e può dirsi fortunata se è riuscita a sfuggire dalle pinze del nemico. Ecco ventiquattro di queste ostriche superstiti, ventiquattro per tre persone di debole appetito: io, Marthe e Glauco. Sono e non sono le stesse che si mangiano nei ristoranti di Parigi: o meglio, sono forse le stesse, ma colte e succhiate così, a due passi dal fondo nativo, mantengono una vitalità animale che altrove non hanno più, e l’iride della loro perla sembra più viva.
Ventiquattro ostriche, tre zuppe di moules (muscoli), una terrina colma di langoustines (crostacei molto affini alle nostre cicale di mare), una bottiglia di muscadet è il minimo che la Duchessa Anna possa offrire a tre ospiti disappetenti. Riusciremo a sparecchiare questa vasta natura morta di crostacei?
«Proviamo» dice Marthe accarezzandosi le trecce che ha bellissime e accercinate intorno alle tempie.
«Proviamo» dice Glauco spremendo uno spicchio di limone in un guscio lampeggiante.
L’aria tempestosa che grava sui quais di Saint-Malo sembra rendere aggressivi anche i clienti della Duchessa Anna. Tutti i tavoli luccicano di crostacei. Siamo tutti granchi grossi che si accaniscono sui vivai delle ostriche. Sul mare di Bretagna, sferzante come l’aria alpina, vale anche per l’uomo la legge che il pesce grande divora il pesce piccolo.
«Andiamo a visitare la tomba di Chateaubriand?» dice Glauco, guardando sorpreso la montagna di valve che ha sul piatto. È riuscito a finire in un batter d’occhio la sua sterminata porzione.
Crostacei e Chateaubriand (non lo Chateaubriand che predica ma quello che descrive e rappresenta) vanno benissimo insieme. La tomba non porta iscrizioni: una croce di pietra indica il loculo dove sono rinchiusi i resti del grande bretone. E il cormorano, quando giunge la sera, è l’unica sentinella che rimanga a guardia di quella tomba.
Non conosco ancora la bassa Bretagna, ma direi che anche qui, in questa Bretagna più confortevole dove sono giunto (Dinard e dintorni) lo scricciolo e il cormorano siano i geni del luogo. Il modesto reattino parla di ruggine e di moisi, porta con sé quel colore e odore di muffa che sono inseparabili da tutta la provincia francese; il cormorano parla di solitudine, di lotte e di burrasche. In Bretagna Maurice de Guérin udì certo cantare (tintinnare) lo scricciolo; mentre Chateaubriand e Tristan Corbière seguirono con l’occhio anche i viaggi dei grandi uccelli di mare.
E Lamennais? E Renan? Al ritorno dovrò rileggerne qualche pagina, ma temo che in essi non troverò troppe indicazioni naturalistiche. Per altre vie, con altri mezzi, essi hanno assorbito ed espresso le lunghe bufere della terra armoricana.
A mezz’ora di volo da qui, sulle spiagge di Eastbourne e di Brighton, certo passeggiano, condotti al guinzaglio, cani di lusso, cani da esposizione. In Bretagna solo il cane bastardo – quello che ulula sulla tolda dei battelli langoustiers – sembra a suo posto.
1950

Il giorno del gran salvataggio

Nella baia dominata dall’abbazia di Saint-Michel, in Bretagna, alta e bassa marea significano una ritirata o un’avanzata del mare per uno spazio di ben tredici chilometri. Giungete a Saint-Michel e lo sguardo si allarga su un’arida pianura sulla quale pascolano i prés-salés, i montoni dal sapore salmastro di cui i Francesi sono ghiottissimi. Non sembra possibile che quella distesa sia stata, e sia per essere ancora, il fondo del mare. Neppure vi mettono in sospetto i pescatori a secco che frugano nella sabbia per fare scattare dai loro buchi i gustosi couteaux (bivalvi somiglianti ai nostri datteri di mare) o la rastrellano metodicamente per portare alla luce quei guizzanti pesciolini a forma d’ago che qui si chiamano lançons.
Visti da lontano i pescatori a secco sembrano innocui villeggianti che percorrano un vasto, sterminato prato. Perplessi e un po’ delusi lasciate la cinta delle mura per rifugiarvi nell’interno di un ristorante dove vi attendono una dozzina di ostriche di Cancale e una mezza bottiglia di muscadet; ed ecco che un rombo vi raggiunge, tornate ad affacciarvi e vedete il mare irrompere da tutte le parti con la velocità di un cavallo in corsa. Precedono le onde grandi stormi (o piuttosto branchi) di gabbiani che mandano strida acutissime. In pochi minuti Saint-Michel è circondata dalle acque e diventa una nuova Capri, con tante strade e tante botteghe acchiocciolate intorno alla mole massiccia dell’abbazia. Il paesaggio è grandioso, e anche sinistro, se ricordate che qui la caccia o meglio la pesca del gabbiano si pratica con l’amo, sul quale si innesca un pezzetto di carne cruda. (Non è una mia invenzione, persino la guida Hachette dà particolari in proposito.) Il vecchio marinaio di Coleridge perdette l’anima per aver colpito un goëland, una grossa procellaria: e in Francia tale delitto può restare impunito?
In ogni modo, non c’è tempo per attardarsi in pensieri umanitari: all’irrompere della marea il problema unico dei visitatori è quello di raggiungere la terraferma, la lunga fila dei torpedoni in attesa su un istmo sopraelevato sul quale le onde si frangono senza scavalcarlo. Il traghetto è garantito da un paio di barche verso le quali convergono migliaia di turisti. Tutti vogliono avere la precedenza, sorgono discussioni, persino litigi violenti. Da lontano i torpedoni strombettano, l’ora della partenza si avvicina. Come faranno due barche a portare a salvamento tanta gente? I turisti più audaci si tolgono le scarpe, rimboccano i pantaloni e si avventano sulle barche. Fra questi ci sono anche donne altrettanto scalze e spaventate; donne che i pescatori del luogo acchiappano (in senso etimologico), sollevandole tra le braccia e pestandole nelle barche come sardine. L’operazione avviene al buio e dopo un quarto d’ora ci si accorge che solo il dieci per cento dei viaggiatori hanno potuto avviarsi verso la salvezza. Allora lo strombettamento, il grido «signori si parte!» raggiunge il diapason, anche i più restii si buttano sulle barche che si colmano sempre più e non partono mai. Ci si avvia con le scarpe in mano e il cuore palpitante, chi ha una moglie l’affida alle braccia di un pescatore, si affrontano baruffe, si scambiano invettive con sconosciuti (invettive in tutte le lingue); e poi quando si giunge a metter piede in una barca si scopre il trucco. La prima barca può contenere infinite persone perché non è una barca ma un semplice ponte che immette in un’altra barca, la quale confina con un’altra barca, e così via; finché, traballanti, bagnati e infuriati si riesce a raggiungere l’istmo, non prima però di aver deposto un lauto pourboire nelle mani dei Caronti di servizio. Ci si accorge allora che lo spazio percorso è di pochi metri e che il livello del mare è bassissimo. Basterebbe una passerella, un modesto ponticello di legno a far sì che Saint-Michel, anche nel giorno della più alta marea dell’anno, restasse legata all’istmo e alla terraferma. Ma in tal caso, dove finirebbe la messa in scena, dove il color locale e dove (soprattutto) i pourboires? L’organizzazione del salvataggio, almeno due volte all’anno, è una vera risorsa per i pescatori del luogo e la passerella non verrà costruita mai. Saint-Michel resterà isolata, resterà un’isola inattingibile, e a cose fatte ben pochi viaggiatori rimpiangeranno il brivido di quell’avventura.
Bisogna però avvertire che i visitatori di Saint-Michel sono in gran maggioranza inglesi. Da Southampton alle spiagge bretoni il viaggio è breve, poche ore di vaporetto sono sufficienti e il viaggiatore britannico può, con la modesta spesa di una sterlina al giorno, trovar vitto e alloggio in qualche buon albergo di second’ordine. (Quelli di prim’ordine smobilitano e si vendono ad appartamenti perché una stagione di un mese non è sufficiente a tenerli in vita.) Gli alloggi sono buoni e i Britannici sono lieti di potersi assidere, con poca spesa, dinanzi a una suprême di barbue bonnefemme, in faccia a uno dei più sconvolgenti scenari del mondo. È vero che la «suprema» è una semplice polpetta di baccalà, ma gli Inglesi sono abituati a ben altro.
Anche questo mare gelido e tempestoso non li spaventa: sono forse i soli che possano bagnarvisi senza rabbrividire, i soli che abbiano mantenuto un vero contatto con la natura. Turisti poveri, con cinquanta sterline in tasca, vengono volentieri in una terra sulla quale i loro padri lasciarono più di una traccia del loro celtico linguaggio. Tre, anzi quattro dialetti celtici sopravvivono nella bassa Bretagna, nel Finistère, nel paese di Léon, nella terra di Vannes, nella zona di Goële e in mezzo Morbihan; ma credo che sia ormai quasi impossibile trovare un contadino che non parli anche il francese. Circoli di intellettuali «celtizzanti» o brétonnants esistono a Parigi e a Nuova York, e probabilmente a Rennes dove da almeno dieci secoli nessuno parla più il bretone. Durante l’ultima guerra i Tedeschi cercarono di varare la candidatura di un superstite duca di Rohan al trono, nientedimeno, della Bretagna. Ma quando il pretendente giunse sul luogo non raccolse che fischi. Non vorrei sbagliare se esprimo l’impressione che ormai il sogno di una Bretagna ricostituita, etnicamente e politicamente, e autonoma, appartenga più che altro alla storia del folclorismo romantico e sentimentale. Si dice che qualche venditore di cipolle arrischiatosi dal Léon fin sulle prode del Galles abbia potuto intendersi coi pescatori di là; ma credo che sia una leggenda, se è vero, com’è vero, che oggi è difficile ai «Goëlardi» o ai Leonesi di intendere i Vannesi. Più il mondo si accentra e si rende uniforme, tanto più sorgono i conati di resistenza dei vari separatismi culturali. Con quale successo? Uno dei più grandi separatisti del mondo, il presidente De Valera, porta all’occhiello una ruota rossa il cui significato è «Io parlo la lingua irlandese e sarei lieto se qualcuno volesse parlarla con me». Con un certo sconforto il presidente mi dichiarò, il mese scorso, che ben raramente quell’amabile offerta era stata coronata dal successo. Purtroppo (o forse è meglio così) le lingue sorgono dal basso, non dall’alto; e il bretone, lingua importante in Francia, da parecchi secoli non fa che restringere la propria area. Quel tanto che ne resta – nella toponomastica – è una grazia, una civetteria, niente di più, che piace molto agl’Inglesi. Solo gli scriccioli delle Cornouailles e del Cornwall parlano veramente la stessa lingua, fanno stridere nello stesso modo la loro piccola pepaiola. È la corona, aerea e sonora, che meglio lega queste due terre; ed è un vero peccato che Riccardo Wagner, nel Tristano, non abbia fatto posto a quell’umile voce: l’unica delle molte voci silvane che manchi veramente nell’opera sua.
1950

Cucina e pittura

Di tutte le arti praticate in Francia quella della cucina è la meno mescolata alla vita, la sola, si direbbe, che ha bisogno di professionisti. Nulla è più triste di un invito a pranzo in una famiglia che non disponga né di mezzi né di persone di servizio. Se in casi simili gli invitanti si limitassero a dividere con voi un pezzo di pane e una fetta di prosciutto non ci sarebbe gran male. Ma il fatto è che più spesso le improvvisate ménagères ci tengono a farvi onore e vi offrono limacciose terrine di crema, fondute sparse di funghi di grotta, vuote reliquie di frutti di mare, pezzi di montone incrostati di dubbi legumi; il tutto annaffiato da quei vini d’appellation contrôlée, bianchi o rossi o rosati, che di «controllato» non hanno più che il nome.
Queste volonterose donne, che spesso hanno lasciato l’ufficio da un’ora, trovano che la cucina italiana è estremamente modesta e insipida, e si dànno un gran daffare per tener alta una tradizione superiore alle loro forze. Ma Monsieur Colombin, il padrone della mia trattoria, mi spiega che tutto questo è la parodia della cucina francese classica e che il classicismo non s’improvvisa. Occorrono carte in regola, studi, diplomi. Monsieur Colombin dispone di tre camionette con le quali invia pranzi bell’e pronti, dagli antipasti fino allo champagne, servitori compresi, a chi gli telefona; grazie alle sue fatiche, e a quelle degli innumerevoli Colombin che gli fanno concorrenza, la donna spettinata che vi ha ricevuto su una scala buia (ma con la coda dell’occhio non v’è sfuggito un bambino che brandiva una lunga salsiccia affumicata) può farvi aprire, il giorno dopo, da un cameriere in giacca bianca e offrirvi un pranzo perfettamente classico.
Di solito, però, quando marito e moglie lavorano fuori casa, l’entrecôte aux frites rappresenta il menu di tutti i giorni, il pasto più spiccio. Se dovessi giudicare dalla carenza dei mestieri servili direi che l’industria conserviera, in Francia, non sia in crisi come da noi. Scatole di trippa, di gamberi, di pernice farcita, di lepre in salmì sono affastellate nelle vetrine dei pizzicagnoli e le loro etichette sembrano esser rimas...

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