Jazz
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Jazz

La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana

Arrigo Polillo, Franco Fayenz

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La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana

Arrigo Polillo, Franco Fayenz

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Grande classico della storia della musica afro-americana, Jazz di Arrigo Polillo è frutto di una grande passione e di lunghe riflessioni su questa musica straordinaria e sui suoi protagonisti dalle storie tormentate e spesso disperate.

Un libro epocale che viene riproposto qui in un'edizione aggiornata e arricchita da Franco Fayenz. La storia del jazz, che è anche la storia dei neri d'America e delle loro lotte per l'emancipazione, rivive così nelle indimenticabili pagine di Polillo, dai mitici anni di New Orleans, fino alla stagione di eccezionale creatività esplosa alla fine del Novecento, con interpreti più colti e consapevoli della propria e delle altre civiltà musicali.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2017
ISBN
9788852080043
Topic
Art
Subtopic
Art General
Parte seconda

I PROTAGONISTI

Jelly Roll Morton

Alan Lomax, che raccolse dalla sua viva voce le sue memorie per una famosa serie di registrazioni per la Biblioteca del Congresso,1 lo definì un «Cellini creolo». Meno poeticamente, molti dei suoi colleghi lo hanno descritto come un insopportabile fanfarone, un chiacchierone pieno di sé, un bugiardo. Molto crudelmente, Ellington gli riconobbe soltanto «il talento di parlare di Jelly Roll Morton». Gli storici del jazz, storditi dalle sue millanterie, dalle sue spudorate menzogne, hanno finito per diffidare di tutto ciò che egli disse di sé e della sua carriera: uno, Samuel Charters, ne ha addirittura escluso la biografia dalla sua, per il resto completissima, enciclopedia dei musicisti di New Orleans, ritenendo che «non è stato provato che abbia mai suonato professionalmente nella città, che, a quanto sembra, ha lasciato quando era ancora troppo giovane».2
Tanta diffidenza, comprensibile nei riguardi di un uomo che dichiarò più volte, fra l’altro, di avere «inventato il jazz nel 1902», ha finito per danneggiare gravemente la reputazione di Jelly Roll Morton, che non fu, certamente, né l’«originator of jazz – stomp – swing» né «il più grande compositore di temi hot del mondo», come si leggeva sui suoi biglietti da visita, ma fu certamente uno dei musicisti più dotati del primo periodo della storia del jazz, oltre che uno dei suoi più pittoreschi personaggi.
Era un creolo di colore, molto orgoglioso delle sue lontane origini francesi, snob e anche un poco razzista, come erano quasi tutti i creoli della Louisiana: i negri dalla pelle scura per lui erano niggers, gente rozza, spregevole. Era nato a New Orleans intorno al 1885: neppure lui né le sue due sorelle sapevano esattamente quando. A sua moglie disse di essere nato nel 1886, in una polizza di assicurazione scrisse che l’anno di nascita era il 1888, che divenne 1885 nei documenti della Biblioteca del Congresso di Washington, e 1890 sulla lapide posta sulla sua tomba, a Los Angeles. Il giorno in cui festeggiava il suo compleanno non è invece controverso: era il 20 ottobre.
Anche sulle sue origini gravano molti dubbi. Suo padre era davvero Ed La Menthe, come lui assicurava? Costui viveva con sua madre al momento della nascita del futuro Jelly Roll: se fosse legalmente suo marito, neppure le sorellastre del musicista seppero dire con sicurezza. Sapevano soltanto che era un imbroglione e che era stato cacciato di casa dalla loro madre. Questa si unì poi a un certo William Morton, che trasportava valigie su e giù per le scale degli alberghi di New Orleans e che fu forse il vero padre di Jelly Roll, il quale preferì comunque ignorarlo quando raccontò la sua biografia per la Biblioteca del Congresso. A Lomax disse di aver adottato il cognome Morton come pseudonimo perché non voleva essere conosciuto con un nome francese. Il suo nome legale ad ogni modo era quasi certamente Ferdinand La Menthe.3
Fu messo subito fuori di casa. Trascorse la prima infanzia con una “madrina”, Eulalie Echo, una specie di bonaria fattucchiera, in gran confidenza con le stregonerie voodoo: in casa nessuno si meravigliava se dai bicchieri colmi d’acqua uscivano delle voci. Gli studi musicali occupavano allora gran parte del tempo del ragazzo, che studiò e suonò con impegno chitarra, trombone e soprattutto pianoforte.
A sentire lui, aveva diciassette anni quando “invase” il quartiere delle luci rosse, Storyville. Nonostante lo scetticismo di Charters, è praticamente certo che suonò il piano, per qualche anno, in alcuni dei più eleganti bordelli di New Orleans. Fra coloro che hanno testimoniato su questa circostanza è Bunk Johnson, cornettista veterano, che ricordò di aver suonato anche al suo fianco, una notte, nel 1903, nella maison di Hattie Rogers. Johnson ha confermato che le ospiti delle sporting houses andavano matte per il giovane pianista, che chiamavano Winding (o Wining) Boy: un termine di gergo che gli dava credito delle sue virtù di amatore, allo stesso modo di Jelly Roll, un nomignolo dal significato osceno che lui stesso si affibbiò qualche anno dopo. Come gli altri più noti pianisti di Storyville – Tony Jackson, Albert Cahill, Alfred Wilson, Kid Ross – Morton suonava per rallegrare i clienti nel salotto di attesa. Le ragazze lo aiutavano a riempirsi le tasche di dollari, spillando qualche generosa mancia per lui ai clienti, tutti bianchi.
Forse il migliore dei “professori” che suonavano il piano nei bordelli era Tony Jackson, un negro femmineo, piuttosto altezzoso, che lavorava nella casa di Gypsy Schaeffer.
La pubblicità della casa, inserita nelle pagine del consultatissimo Blue Book, diceva:
«Gestire uno stabilimento dove ciascuno è trattato nel modo giusto non è un compito facile, e Gypsy merita grande credito. Gypsy si è sempre fatta un punto di onore di trattare tutti nello stesso modo e di far sì che tutti si divertano nella sua casa.
«Ci sono poche donne in grado di trattare gli uomini d’affari meglio di Gypsy, che ha sempre tenuto una delle case migliori e più raffinate in cui un uomo possa essere intrattenuto da una grande quantità di signore belle e bene educate. Una sola visita sarà ricordata a lungo e sarà l’inizio di un’eterna amicizia.
«Che cosa può sperare di meglio una persona sana?»
La specialità di Jackson era The naked dance, un rag velocissimo, angoloso, un poco comico, che lui stesso aveva composto e che serviva ad accompagnare la “danza nuda” di qualche bella octoroon cui fosse stata richiesta quella particolare esibizione, per la quale era allestito, nella sala in cui si trovava il pianoforte, un minuscolo palcoscenico. Jelly invidiava a Jackson la sua abilità di pianista: molti anni dopo, in una lettera a Roy J. Carew,4 che fu il suo migliore amico durante il periodo di residenza a Washington, ammetterà, con una modestia in lui sbalorditiva, di essersi sempre considerato inferiore a Jackson e anche ad altri pianisti di Storyville, e di avere, proprio per questo, cercato di differenziarsi da loro creandosi uno stile personale. Quello stile – a sentir lui – altro non era che il jazz, che fu così da lui “inventato”.
La “Contessa” Willie Piazza, una delle regine di Storyville, non avallò però la versione di Morton. Intervistata molti anni dopo la chiusura del quartiere, dichiarò: «Io sono stata la prima a New Orleans a impiegare un pianista di jazz nel quartiere delle luci rosse… in quel periodo il jazz era soprattutto associato con le sale da ballo e i cabarets… il jazz non è cominciato nella case di piacere… ma era ciò che i nostri clienti volevano ascoltare».5
Il soggiorno di Wining Boy a Storyville durò poco: nel 1904 egli cominciò a vagabondare qua e là negli stati del Sud, tornando solo di rado a New Orleans, che abbandonò definitivamente nel 1907.
In quegli anni, più che pianista, si considerava un campione, anzi uno “squalo” del biliardo, uno scommettitore di professione sempre alla ricerca di polli da spennare. Altri ne spennava al tavolo da gioco (anni dopo disse che una delle ragioni per cui gli era diminuita la vista era che aveva dovuto per troppo tempo aguzzare lo sguardo per individuare le macchioline con cui aveva contrassegnato le carte), e altri ancora ne faceva spennare da qualche donnina che lavorava per lui. I tipacci degli honky tonks del Sud impararono a conoscerlo e a odiarlo, i pianisti – che lui sfidava senza nascondere il suo disprezzo per loro – impararono a temerlo. I poliziotti lo tenevano d’occhio e ogni tanto lo mettevano dentro. Conoscevano bene i tipi come lui e non li amavano. «Un musicista non è nessuno da queste parti» gli disse un giorno uno di loro a Helena, nell’Arkansas. «Mettiamo dentro più musicisti che ogni altra categoria di persone.»
Jelly Roll, ormai lo chiamavano tutti così, fu tra i primi diffusori del jazz. Nel decennio che seguì la sua definitiva partenza da New Orleans fu ascoltato in molte località del Sud e del Sud-Ovest, e anche a Chicago, dove arrivò subito dopo Tony Jackson e dove suonò al Deluxe e all’Elite n. 2, nel South Side. Qui qualcuno dovette apprezzarlo per davvero se non sono confusi i ricordi di coloro che assicurarono che occorreva la polizia per tenere a bada la folla all’ingresso dei locali in cui era annunciato il debutto di personaggi come Morton e Tony Jackson.
Pressappoco nello stesso periodo, nel 1911, Jelly Roll fece un’apparizione anche a New York. James P. Johnson ricordò di averlo visto in un locale di Harlem: era elegantissimo e aveva con sé due ragazze di vita, che lavoravano per lui. Aveva un fare regale e uno stile tutto suo di avvicinarsi al pianoforte. «Si toglieva il soprabito che aveva una fodera speciale, che attirava gli sguardi di tutti» ha ricordato Johnson. «Quindi lo rivoltava e, invece di piegarlo, lo appoggiava per il lungo, sul pianoforte verticale, con molta solennità, come se quel soprabito valesse una fortuna e dovesse essere trattato con grande delicatezza. Poi tirava fuori un grande fazzoletto di seta, lo scuoteva ben bene, e con quello spolverava lo sgabello. Poi si sedeva, suonava un suo accordo particolare (ogni tickler ne aveva uno, che era una specie di marchio di fabbrica, come un segnale) e partiva. Il primo pezzo che suonava era sempre un rag molto vivace, che serviva a sbalordire il pubblico.»6
Nel 1917 Morton era a Los Angeles, dove lavorò in vari locali, gestì una bisca, fece affari, e trascorse uno dei periodi più felici della sua vita. Aveva sposato Anita Gonzales, la “Mamanita”, la “Sweet Anita” a cui furono dedicati dei temi famosi, che lo aiutava, mandando avanti una pensioncina, a condurre quella vita dispendiosa per cui provava una irresistibile vocazione. Vestiti eleganti (spesso ne cambiava tre al giorno), bigliettoni da 1000 dollari tenuti in tasca con noncuranza ed esibiti a ogni piè sospinto, e brillanti, brillanti dappertutto, anche sulle giarrettiere, sulla biancheria. Uno, di mezzo carato, montato in oro, sfolgorava incastonato su un dente incisivo. Era una raffinatezza, allora, per la gente di teatro: ne sfoggiava uno anche Baby Cox, la cantante che si esibì con successo nelle riviste negre, a New York, e che interpretò una famosa versione di The mooche, con l’orchestra di Ellington.
Per cinque anni, Los Angeles fu la base di operazioni di Jelly Roll: operazioni di vario genere, non tutte pulite. Di lì il pianista si spostò al Sud, fino al Messico; al Nord fino a Vancouver e forse all’Alaska; e poi all’Est, nell’Arizona, nel Wyoming, nel Colorado e chissà dove altro ancora. Qualcuno ha ricordato di averlo incontrato, in quel periodo fastoso, a Los Angeles. Entrava in un locale, ascoltava per un momento il pianista, e poi gli diceva, ad alta voce: «Tutte le volte che mi vedi entrare, vattene via da quel piano».
Per i suoi colleghi di pelle scura, qualunque cosa suonassero, non provava molta simpatia. Erano troppo rozzi, per lui. Se ne convinse una volta di più quando, per una scrittura al Wayside Park di Watts, un sobborgo di Los Angeles, ebbe l’idea di far venire da New Orleans tre reputati musicisti: Buddy Petit, cornettista – inferiore, allora, soltanto a Freddie Keppard e a King Oliver –, Frankie Dusen, trombonista, e Wade Whaley, clarinettista. Che Whaley si portasse il clarinetto infilato nella tasca posteriore dei calzoni era già difficilmente sopportabile, ma quello che fece perdere del tutto la pazienza a Morton fu la pretesa dei tre di cucinarsi il riso coi fagioli rossi, come si usava a casa loro, sul posto di lavoro. Ci fu un litigio, e i tre se ne andarono sbattendo la porta. Petit assicurò a Jelly che se mai fosse tornato a New Orleans qualcuno gli avrebbe fatto la pelle.
Ma il pianista non pensava minimamente di tornare nella sua città natale, dove non c’era più Storyville con le octoroons vestite da sera che gridavano allegramente: «Venite ad ascoltare Wining Boy!» e spesso lo chiamavano professore. Ormai era venuto il momento di Chicago. Jelly vi si trasferì, o meglio “invase” la Città Ventosa nel 1923, tutto solo perché si era ormai separato da Anita.
Appena arrivato a Chicago capì che quella città era fatta per lui. Nel South Side tutti «suonavano Jelly Roll», per usare una sua espressione: molti suonavano un pezzo che lui aveva composto anni prima e aveva intitolato Wolverines. I fratelli Melrose, due giovani editori di Chicago che avevano puntato sul jazz, lo avevano completato con parole e l’avevano ribattezzato Wolverine blues: non perché fosse un blues ma perché blues era, allora, una parola magica, che faceva vendere qualsiasi musica.
Sul negozio dei fratelli Melrose sventolava una bandiera con la scritta «Qui si vende Wolverine blues» quando vi fece irruzione Jelly Roll. Dopo venticinque anni, Lester Melrose si ricordava ancora con chiarezza la scena:
«Un uomo entrò nel nostro magazzino» ricordò «con un fazzolettone rosso attorno al collo e un enorme cappello da cowboy sulla testa, e si mise a gridare: “Ascoltate tutti, io sono Jelly Roll Morton di New Orleans, il creatore del jazz!”. Parlò senza interruzione per un’ora per dirci quanto fosse bravo, poi si sedette al piano e dimostrò di essere ancor meglio di quanto aveva detto. Fu in questo modo che Jelly prese il via.»7
Poco dopo, a Richmond, Morton incise i suoi primi assoli di piano: King Porter stomp, così intitolato in onore di Porter King, un pianista da lui ascoltato, e quindi il suo ormai vecchio New Orleans blues, Kansas City stomps, The pearls, una ideale collana di perle offerta a una cameriera di un bar che gli era piaciuta, Grandpa’s spells, e naturalmente Wolverine blues. Nell’anno successivo, altre importanti incisioni: fra i molti assoli di piano, Shreveport stomps, Mamanita, Jelly Roll blues, Frog-i-More, Big Foot (o Fat) ham, Stratford hunch, Milenberg Joys.
In questi brani, tutti composti da lui, emergono già con chiarezza alcune delle migliori caratteristiche di Morton, autore e pianista. Il rigore di scrittura e l’originalità delle sue composizioni, spesso multi-tematiche, il suo senso della forma, la libertà e la ricchezza del suo linguaggio sono sufficienti ad attribuirgli una posizione di preminenza fra i primi compositori di jazz. È già evidente, in questi suoi primi dischi, il divario fra la musica di Morton e il ragtime, a cui egli aveva attinto l’ispirazione, soprattutto all’inizio.
«Il ragtime» ha detto Morton «è un caratteristico modo di sincopare e solo certi temi possono essere suonati in quel certo modo. Ma il jazz è uno stile che può essere applicato a ogni tipo di composizione.»8 Non solo: il ragtime è essenzialmente musica scritta, mentre nel jazz l’improvvisazione ha un ruolo preminente, e Jelly Roll fu sempre un grande, fantasioso improvvisatore, un inesauribile inventore di melodie, di variazioni.
Morton non soltanto concepì le sue linee melodiche con una scioltezza, una libertà del tutto sconosciuta ai compositori di ragtime, ma eliminò dalla sua musica la leziosità, la meccanicità, il freddo geometrismo che erano caratteristici di tanto ragtime, introducendo nel suo gioco una grande varietà ritmica. A questo proposito, in un suo magistrale saggio sulla musica di Morton, Martin Williams ha osservato che «si potrebbe descrivere l’addolcimento dei ritmi del ragtime operato da Morton come il risultato dell’addizione, allo spezzettato 2/4 e alle semplici sincopi del ragtime, di più complesse sincopi derivate dal tango e di polifoniche melodie sui registri bassi, prese in prestito da certe marce e danze folkloristiche europee e quindi trasformate».9
Il richiamo al ritmo del tango, alle marce e alle danze popolari europee si comprende facilmente se non si dimentica che Jelly Roll Morton rimase sempre legato al folklore della sua città, in cui, assieme al blues, avevano tanta parte le marce e le musiche da ballo di origine latina: spagnola, francese, ita...

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