Inseguendo quel suono
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Inseguendo quel suono

La mia musica, la mia vita

Ennio Morricone, Alessandro De Rosa

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Inseguendo quel suono

La mia musica, la mia vita

Ennio Morricone, Alessandro De Rosa

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La biografia ufficiale del grande maestro. «Questa lunga esplorazione, questa lunga riflessione, a questo punto della mia vita è stata importante e persino necessaria. Entrare in contatto con i ricordi non significa solamente malinconia di qualcosa che sfugge via come il tempo, ma anche guardare avanti, capire che ci sono ancora, e chissà quanto ancora può succedere.» Questo libro è il risultato di anni di incontri fra Ennio Morricone e il giovane compositore Alessandro De Rosa. È un dialogo denso e profondo, e allo stesso tempo chiaro ed esatto, che parla di vita, di musica e dei modi meravigliosi e imprevedibili in cui vita e musica entrano in contatto e si influenzano a vicenda.

Morricone racconta con ricchezza di particolari il suo percorso: gli anni di studio al Conservatorio, gli esordi professionali per la Rai e la Rca dove scrive e arrangia numerose canzoni di successo - sua, tra le tante, Se telefonando, interpretata da Mina -, le collaborazioni con i più importanti registi italiani e stranieri, da Leone a Pasolini, a Bertolucci e Tornatore, da De Palma a Almodóvar, fino a Tarantino e all'ultimo premio Oscar.

In pagine che danno vertigine a chiunque ami la musica e l'arte, il maestro apre per la prima volta le porte del suo laboratorio creativo, introducendo il lettore alle idee che stanno al cuore del suo pensiero musicale e fanno di lui uno dei più geniali compositori del nostro tempo. Con lucida onestà Morricone ci racconta cosa significa per lui comporre, svelandoci il rapporto misterioso e ambivalente che lega musica e immagini nel cinema, ma anche l'urgenza creativa che sta alla base delle sperimentazioni nell'ambito della musica assoluta.

Le pagine procedono in un dialogo che unisce il dato biografico alla riflessione musicologica, l'aneddoto alla spiegazione tecnica: «È curioso osservare e riesaminare la propria vita attraverso un percorso del genere. Non avrei mai pensato che lo avrei fatto. Poi recentemente ho conosciuto Alessandro, e questo progetto si è sviluppato così gradualmente e spontaneamente che io stesso ho ripreso contatto con i fatti che emergevano, quasi senza rendermene conto. Oggi posso dire d'aver assunto nuove posizioni rispetto ad alcuni accadimenti, quelli che solitamente durante l'arco di una vita succedono senza avere il tempo di essere messi in prospettiva».

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Un compositore prestato al cinema

Dell’arrangiarsi

Quando iniziasti a lavorare come musicista? Esordisti come compositore?
No. Iniziai come trombista, prima accompagnando, e, a volte, sostituendo mio padre durante la Seconda guerra mondiale e, poi, nei night romani e nelle sale di sincronizzazione. Quando cominciai a studiare composizione, infatti, già suonavo percependo un compenso in diverse situazioni. Gradualmente, mi feci conoscere anche come arrangiatore: del compositore Ennio Morricone nessuno ancora sapeva nulla, al di fuori del conservatorio.
Il primo che mi chiamò a lavorare con lui, nei primissimi anni Cinquanta, fu Carlo Savina, un eccellente compositore e direttore d’orchestra. Era alla ricerca di un collaboratore che lo aiutasse nella stesura dei numerosi arrangiamenti per la produzione radiofonica a cui lavorava. Savina era sotto contratto con la Rai per un programma di canzoni che andava in onda due giorni alla settimana dagli studi di via Asiago. La televisione ancora non esisteva in quegli anni.
Il mio lavoro consisteva nello scrivere alcuni arrangiamenti per l’orchestra che accompagnava i quattro cantanti che si esibivano in diretta in ogni puntata.
L’organico con cui avevo a che fare era composto da una sezione piuttosto nutrita di archi, più alcuni strumenti aggiunti, come l’arpa, e una sezione ritmica, che comprendeva un pianoforte, l’organo Hammond, chitarra, batteria e, mi pare, anche un sassofono. Si trattava della cosiddetta orchestra B, quella per la musica leggera. Per me fu un’occasione di studio applicato dell’orchestrazione. All’epoca infatti frequentavo il conservatorio…
La cosa curiosa è che io e Savina non ci conoscevamo di persona, lui seppe di me attraverso il suo contrabbassista di allora: il maestro Giovanni Tommasini. Quest’ultimo era infatti amico di mio padre e da lui aveva saputo che io studiavo composizione. Pensò così, attraverso una semplice associazione, che sarei stato un buon nome da proporre: se studiavo composizione dovevo essere adatto all’incarico.
Mi sembra incredibile! Che ricordo hai di quell’esperienza e di Savina?
Certo, fu incredibile essere contattati così!
Ero parecchio giovane, ma da subito provai una grossa gratitudine nei confronti di quel professionista che mi stava dando la prima opportunità.
Savina era molto musicale, aveva una scrittura pulita e in linea con gli arrangiamenti che si facevano in quegli anni. Aveva sempre lavorato con l’orchestra d’archi della Rai di Torino, ma poco prima che ci conoscessimo era stato trasferito a Roma. Abitava ancora in un albergo in via del Corso, dove rimase a lungo (mi pare si chiamasse Hotel Eliseo). Ricordo che la prima volta ci incontrammo proprio lì. Quando andai a trovarlo mi aprì la porta sua moglie, una bellissima donna. Poco dopo arrivò lui e ci presentammo: fu a questo punto che potemmo parlare e conoscerci meglio. La nostra collaborazione iniziò così.
Con lui mi capitarono anche una serie di «incidenti»… ma lo dico solo come aneddoto, perché ho voluto bene a questa persona che mi ha chiamato quando non ero nessuno.
Ne vuoi raccontare qualcuno?
Scrivevo gli arrangiamenti prendendomi molti rischi: in altre parole sperimentavo molto utilizzando l’orchestra appieno, come secondo me si doveva fare, non scrivendo semplici semibrevi. Cercavo quindi di essere sempre presente alle prove perché imparavo molto confrontando ciò che avevo scritto con il risultato sonoro. Ma alcune volte, preso dallo studio, non potevo andare.
Proprio in quelle circostanze, spesso Savina mi faceva chiamare a casa: «Vieni, vieni. Vieni di corsa!». Io correvo più forte che potevo, prendevo il tram 28 fino a piazza Bainsizza (non avevo ancora l’automobile), poi arrivavo a piedi in via Asiago e, giunto finalmente di fronte all’orchestra intera, lui mi rimproverava davanti a tutti: «Non si capisce nulla! Cosa hai scritto qui? Che cosa hai fatto?».
Magari si trattava di un cambio improvviso di alterazioni in chiave: una volta ricordo un Fa diesis per lui di troppo, contenuto in una sequenza particolarmente ardita a livello armonico, che lo metteva in qualche modo in difficoltà. Mi mandava a chiamare perché era incerto, ma intanto urlava.
Più tardi, al termine delle prove, mi chiedeva se avessi bisogno di un passaggio, io accettavo perché casa mia era nella stessa direzione. In macchina, quando eravamo soli io e lui, mi elogiava per le stesse soluzioni contenute nell’arrangiamento per cui alcune ore prima mi aveva rimproverato.
[Sorrido.]
[Improvvisamente serio.] Ti posso dare la mia parola.
Ma certo, ci credo! Si trattava di una questione di prestigio…
Sia tecnicamente che concettualmente i miei arrangiamenti richiedevano di più. L’orchestra si trovava spesso a eseguire cose che non aveva mai suonato prima. Speculavo parecchio, azzardando soluzioni piuttosto lontane dallo standard a cui gli altri si attenevano con più serenità. Sta di fatto che, dopo poco tempo, gli arrangiamenti ce li dividevamo io e Savina: avevo fatto fuori gli altri suoi assistenti arrangiatori.
Sembra incredibile pensandoci oggi, ma fu così che iniziai a fare l’arrangiatore. Serviva un aiutante, un contrabbassista fece il mio nome perché studiavo composizione, e Savina, pur non conoscendomi personalmente, mi mandò a chiamare. Immagina te. Queste sono le piccole fortune…
Altri tempi.
Guardando indietro, credo che fu proprio grazie a questa ricerca, personale e silenziosa, che ingranai sempre di più nel mondo lavorativo. Anche altri direttori d’orchestra e arrangiatori della Rai, ma non solo, iniziarono a chiamarmi sempre più spesso. Io reagivo bene alle commissioni che mi venivano assegnate.
Alla collaborazione con Savina si sommò quella con Guido Cergoli, Angelo Brigada, Cinico Angelini e con tutti quelli che lavoravano in quegli anni a Roma, tra cui anche Barzizza e la sua grande Orchestra Moderna, la più grande, composta da cinquanta elementi. Fu con lui che collaborai, fra il ’52 e il ’54, a «Rosso e nero», un ciclo radiofonico condotto da Corrado.
Sembra che proprio Pippo Barzizza ti definisse già allora «il più bravo, destinato a una grande carriera».
Ma qual era l’iter di una canzone? Come erano divise tutte queste orchestre? E per conto di chi lavoravi nello specifico?
In realtà c’erano delle differenze piuttosto grandi fra i vari direttori e le orchestre che gravitavano intorno alla radio.
Quelle di Brigada e di Angelini – quest’ultima lievemente più piccola – erano le cosiddette brass band, composte da sassofoni, trombe, tromboni e sezione ritmica, formazioni più vicine ai generi swing e jazz. Quella di Barzizza includeva anche archi e legni, offrendo maggiori possibilità sinfoniche all’arrangiamento. L’orchestra di Savina, infine, era più piccola, ma per via del suo organico variegato dato da alcuni strumenti aggiunti, si trovava un po’ a cavallo fra tutte le altre. Poi si aggiunse anche quella di Bruno Canfora.
Di solito la canzone, scritta dal compositore e dal paroliere, veniva presentata alla direzione artistica della radio o alla produzione in questione. Proprio quest’ultima, in base al genere della composizione, assegnava l’arrangiamento a una delle orchestre a disposizione. Era poi il singolo direttore a chiamarmi per uno o più arrangiamenti. Io risultavo di fatto «assistente esterno» ed era l’azienda a pagarmi in base al numero di commissioni che mi venivano assegnate.
Essere padrone di linguaggi musicali variegati, suonare – e nel mio caso saper scrivere – in stili diversi significava accrescere le possibilità di essere chiamato e poter lavorare. Quella musicale infatti era ed è sempre stata una professione libera: questo voleva dire guadagnare, sì, ma senza nessuna certezza di continuità.
Anche per questa ragione, qualche anno più tardi, decisi di firmare un contratto con la RCA, l’incarnazione italiana della nascente industria discografica.
Devo dire comunque che è passato tanto tempo da quando lavoravo con questi maestri alla radio, e l’ultima volta che ripensai a questo periodo, a queste persone e a come lavoravamo, fu per un film di Tornatore: L’uomo delle stelle (’95). Pur conoscendo la riluttanza con cui oggi mi preparo a scrivere un arrangiamento di un brano già esistente, Tornatore mi chiese di lavorare su Stardust, il famoso standard di Carmichael e Parish, così come avrei fatto per una di queste orchestre degli anni Cinquanta…
Come lavoravi solitamente ai tuoi arrangiamenti?
Con il tempo sviluppai una bella mano: potevo realizzare fino a quattro arrangiamenti al giorno. Cercavo di variare quanto più potevo per rompere il mestiere e la noia.
Cosa intendi con l’espressione «rompere il mestiere»?
Il mestiere è l’esperienza che si accumula e non ci fa compiere gli sbagli del passato, che ci fa essere più efficienti nel nostro lavoro, con noi stessi e nella comunicazione con chi poi ci deve ascoltare. Ci guida verso ciò che è ritenuto consueto, che dipende e può definire quello che diventa per chi scrive e per chi ascolta prassi o norma in un determinato momento storico e culturale.
Direi che è un po’ «la via sicura» e, di conseguenza, utile da accumulare. Già allora, però, il pericolo che vedevo nel mestiere era quello di farlo sfociare nell’abitudine e nella conservazione.
Se si scrive solo come è consueto non ci si protende più alla ricerca e forse alla scoperta della novità. Al contrario, ci si ripete, si va troppo sul sicuro. Se ci si lascia prendere la mano dal solo mestiere, dalla consuetudine, dalla meccanicità della routine, da questa abilità appresa e ormai usata in maniera passiva, ci si ripeterà e basta.
In definitiva direi che costruirsi un buon mestiere è sacrosanto, ma lasciando altrettanto spazio alla sperimentazione.
Ho capito. E quindi in cosa pensi che si distaccassero i tuoi arrangiamenti dagli altri di quel periodo, dal consueto di allora?
Ponevo la melodia originale, quella della canzone, sempre al centro, con l’idea che l’arrangiamento mantenesse una sua autonomia.
In questo senso non pensavo solo al giusto «vestito» per la linea del cantante o della sezione interessata, ma a un’altra identità indipendente che fosse al tempo stesso complementare e sovrapponibile a quest’ultima e coerente al testo (laddove presente).
Un esempio di questo procedimento è particolarmente rintracciabile nei tre 33 giri con Miranda Martino, tra cui due raccolte di canzoni napoletane e una di vecchi successi italiani.
Che ri...

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