I piccoli maestri
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I piccoli maestri

Luigi Meneghello

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I piccoli maestri

Luigi Meneghello

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"Scommetto che avete fatto gli atti di valore."
"Macché atti di valore. Non eravamo mica buoni, a fare la guerra." Una battuta fulminante, a inizio romanzo, restituisce in una pennellata sapore e colore di una tragedia collettiva che per il narratore e il suo gruppo di compagni si trasforma in apprendistato alla vita. Subito dopo l'8 settembre 1943 uno sparuto gruppo di studenti vicentini, guidato da un giovane professore antifascista, si dà alla macchia sull'altopiano di Asiago per tentare di organizzare la Resistenza. La voce narrante - autoironica, commossa e marcatamente autobiografica - dipana un lungo filo di agguati, rastrellamenti, uccisioni, "fughe" e "atti di valore" di cui i ragazzi si rendono protagonisti e vittime. Opera di grande equilibrio, frutto anche della distanza tra il tempo della scrittura e quello dell'esperienza (il libro uscì nel 1964), I piccoli maestri dona corpo e parola a personaggi indimenticabili ed è unanimemente riconosciuto come un gioiello stilistico nel panorama della letteratura contemporanea.

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Information

Publisher
BUR
Year
2013
ISBN
9788858640586

1

Io entrai nella malga e la Simonetta mi venne dietro; dava sempre l’impressione di venir dietro, come una cucciola. Aveva i capelli un po’ arruffati, era senza rossetto, ma bella e fresca. La guerra era finita da qualche settimana. Il malgaro ci diede latte nella ciotola di legno, e lo bevemmo a turno. Poi lui disse:
«Ho sentito sparare».
«Sono venuto a ripigliarmi questo qui» dissi. Portavo il parabello in spalla, e l’avevo provato nel bosco. Funzionava perfettamente.
«Siamo sotto il Colombara con la tenda» dissi. «Sono tre giorni che siamo qui.»
Lui domandò se eravamo fratelli e la Simonetta disse di no. Quando andammo fuori lui mi chiamò da parte e mi disse a mezza voce: «Tu hai un fiore». Aveva l’aria di dire che avrebbe preferito averlo lui, ma che almeno cercassi di esserne degno.
Eravamo in una tendina celeste. La notte venivano regolarmente i temporali, e la tenda a ogni lampo s’illuminava di una luce fluorescente. Lasciava filtrare la luce come un velo, e altrettanto l’acqua; il resto dell’acqua arrivava per di sotto. Passavamo le notti seduti sui sacchi fianco a fianco, con le ginocchia rialzate e le braccia attorno alle gambe; ciascuno le sue, s’intende, io le mie e la Simonetta le sue.
Ho sempre odiato i fossetti che bisognerebbe fare attorno alle tende; e poi sulle lastre di roccia sotto il Colombara come si fa? ci vorrebbero gli scalpelli, i punteruoli. Però è calcare, mi ero detto, non occorrono i fossetti, beve l’acqua. Invece risultò che non beveva.
Pioveva forte, a sventagliate, e il tessuto della tenda rimandava all’interno un controspruzzo vaporizzato: anziché parare la pioggia, questa tendina celeste serviva a captarla e a iniettarcela addosso. La Simonetta aveva un gran sonno: ai lampi la vedevo al mio fianco con gli occhi chiusi e le labbra imbronciate, bagnata come un sorcio, e spiritualmente assente.
Eccomi qua con questo fiore, pensavo, in questa sede irrigua. Stranamente non ero arrabbiato: la notte e la pioggia non erano ostili; c’era un groppo che si scioglieva. Sì, pensavo, la Simonetta è un po’ insonnolita, il posto è umido, il pan-biscotto (che masticavo di furia) frollo e fangoso: non importa. Si potrebbe vivere anche così, postulata una grotta piena di pan-biscotto. Siamo vivi. Mi sentivo sulla soglia di un mondo chiuso, sul punto di sbucar fuori; uno di quei momenti che vengono ogni tanto, quando finisce una guerra o si baruffa con la famiglia o sono terminati gli esami, e si ha la sensazione che la cosa si gira, la si sente girare.
Mi venne un soprassalto di quella forma di energia che chiamiamo gioia; misi giù i piedi nell’acqua corrente, puntellai la Simonetta col mio sacco e uscii diguazzando, col parabello in mano. Fuori c’erano i cespugli dei mughi, groppi di roccia, alberature di pini. Si udivano sparare i tuoni, con scrosci magnifici; i lampi erano continui. Mi misi a sparare anch’io, e a gridare, ma non si sentiva niente in quel fracasso. Spargevo raffiche in aria: facevo piccoli lampi blu di forma allungata, giallastri agli orli; stentavo a riconoscere gli scoppi, e invece mi pareva di distinguere lo scricchiolio dei rami di pino sventagliati, un rumorino minuto isolato dal resto.
È una grande soddisfazione sparare di pieno, ostinata! Quando tornai nella tenda e mi ripresi la Simonetta contro la spalla, lei si svegliò e disse: «Non si può neanche dormire con questi tuoni»: poi si riaddormentò subito.
In questo modo finì la guerra per me, perché fu proprio in quel punto che la sentii finire. Così io, tutto bagnato, con la Simonetta precariamente al mio fianco, entrai nella pace. La banda non c’era più, perché c’è la guerra per bande, ma la pace per bande no.
Ero andato per cercare un buco. L’avevo cercato e cercato, con la collaborazione un po’ svogliata della Simonetta. Ore e ore: gli spazi non erano grandi, ma intricati e aggrovigliati. Ero emozionato fin da bel principio. Ogni tanto mi pareva che ci incanalassimo nel solco giusto, riconoscevo l’andamento delle pliche (che in cuor mio ho sempre conosciuto), mi orientavo un attimo tra le capziose armonie dei rialti e delle conchette. Poi riperdevo il filo.
Eravamo tutti e due sudati e sporchi di terra; ormai si capiva che era stata una gran sciocchezza mettersi a questa ricerca. Invece improvvisamente lo trovai.
«Ci siamo» dissi alla Simonetta. «È qua.»
Lei disse: «Benissimo». Penso che cominciasse a stufarsi. Era in calzoncini di fustagno, e aveva una blusetta di tela con le righe.
Una crepa orizzontale, uno spacco in un tavolato di roccia. Il paesaggio intorno era come lo ricordavo, forse un po’ più ameno. Una fessura, come tante altre; a nessuno sarebbe mai venuto in mente che sotto potesse starci una persona, anche due.
Bisognava infilarsi di sbieco per passare; e anche di sbieco si passava appena. Mi calai giù fin che fui tutto sottoterra, e mi lasciai andare un altro po’. Sapevo che avrei toccato quando le braccia fossero estese circa tre quarti, e infatti toccai. Avevo gli occhi chiusi, e stetti un momento così; poi li riapersi. Riconobbi le barbe dei mughi, l’umidore delle pareti di roccia, lo spazio modellato, ombroso, un bozzolo irregolare schiacciato ai due capi. C’era tutto: il libretto era per terra, e quando lo presi in mano si aperse alla pagina più macchiata. Il parabello era al suo posto, con la canna in su, nero, quasi senza ruggine; aspettavo una fitta, e invece non venne; i due caricatori erano su uno zoccolo a mezza altezza, ed erano asciutti. Uno era pieno, uno metà.
Aspettai un altro po’, ma non successe nulla. Si affacciava il pensiero: “Questa cosa non ha senso”.
Ma sì, durante un rastrellamento sono venuto a finire qua; ora sono qua di nuovo. Il legame tra allora e adesso è tutto lì, e non lega molto. Ma sì, è in questo punto della crosta della terra che ho passato il momento più vivido della mia vita, parte sopra la crosta, correndo, parte subito sotto, fermo. E con questo?
Gli oggetti attorno a me erano così chiusi nei propri contorni, così isolati, che non percepivo più le loro dimensioni vere. Un momento mi pareva di vederli ingigantiti attraverso una lente, ma che appartenessero in realtà al mondo dei microbi, un altro momento mi figuravo invece che fossero le immagini capovolte e impicciolite di grandi corpi astrali.
Chiamai la Simonetta e le dissi di venire giù anche lei. Prima mi arrivò una gamba, poi l’altra, le presi fra le braccia, e tirai giù il resto. Ci stavamo giusti giusti, ma non è che ne avanzasse.
Non vedevo bene la sua faccia, perché la luce che spioveva dal pertugio cadeva quasi tutta dietro di lei. Ricominciavano i pensieri senza scala, e ho l’impressione che qualcosa se ne comunicasse anche a lei. Ogni tanto si grattava, un po’ le gambe nude e un po’ la blusa, e anch’io mi davo qualche grattatina: lì sull’Altipiano è sempre così, ogni tanto viene da grattarsi, forse perché si striscia così spesso contro i mughi e le rocce.
Siamo incapsulati in questa nicchia, sotto il livello della crosta della terra, in un momento vivo ma privo di senso, che commemora un momento e un senso già morti. Siamo dentro alla terra, la quale gira nel verso opposto a quello del sole, dalla mia sinistra alla mia destra, e all’incontrario per la Simonetta. Io e lei siamo vicini quanto si può essere, ci tocchiamo in più luoghi; sento le sue gambe, mi sento un po’ in mezzo ai suoi capelli, ci scambiamo terriccio, chioccioline, umori se non proprio pensieri, e forse anche qualche pensiero scombinato. Noi qui siamo fermi, eppure giriamo; siamo in questo istante del tempo, che pare fermo, ma in verità viaggia.
La Simonetta non disse nulla finché stemmo lì, e neanche dopo, quando tornammo fuori. Le spiegai che questi buchi si chiamano scafe; la roccia in Altipiano è tutta fatta così. «È perché è calcare» le dissi. «Beve l’acqua, e l’acqua fa questi buchi.»
Provai il parabello nel bosco, e sparava; mostrai il libretto alla Simonetta, però non era molto curiosa; poi andammo dal malgaro a chiedere latte, ora nelle malghe c’era di nuovo, il latte; poi venne buio, e andammo sotto la tenda, e poco dopo venne il solito temporale e cominciò a piovere e a tuonare.
Quello che è privato è privato, e quando è stato è stato. Tu non puoi più pretendere di riviverlo, ricostruirlo: ti resta in mano una crisalide. Non sono vere forme queste, mi dicevo, questa è materia grezza. Se c’era una forma, era sparsa in tutta la nostra storia. Bisognerebbe raccontare tutta la storia, e allora il senso della faccenda, se c’è, forse verrebbe fuori; qua certo non c’è più, e neanche sull’Ortigara, scommetto, e in nessun’altra parte.
Mi restavano questo libretto, e questo parabello, spore disseccate. Il libretto non mi faceva né caldo né freddo (e infatti a suo tempo lo persi di nuovo, perché io le cose le perdo), ma il parabello, pensavo, ora che l’ho ritrovato me lo voglio tenere da conto. Ne avevo altri a casa, negli armadi c’erano più armi che vestiti, ma questo non era un parabello qualsiasi, era il mio parabello. Avevo una gran paura, prima di ritrovarlo, che vedendolo mi venisse una crisi di emozione e di vergogna: dopotutto lo avevo abbandonato nel bel mezzo della guerra. Invece non mi venne la crisi, anzi: sentivo bensì un po’ di vergogna in termini generali, perché quella si sente sempre, e in particolare alla fine di una guerra in cui non si è nemmeno morti; ma sentivo anche le prime avvisaglie di un’ombra oscura di sollievo. Ora è finita, mi dicevo. In fondo non è colpa nostra se siamo ancora vivi. Sì, è stata tutta una serie di sbagli, la nostra guerra; non siamo stati all’altezza. Siamo un po’ venuti a mancare a quel disgraziato del popolo italiano. Almeno io, gli sono certamente venuto a mancare; si vede che non siamo fatti l’uno per l’altro.
Alla mattina c’era il sole, l’Altipiano s’era già asciugato. La Simonetta si pettinava davanti a un pezzettino di specchio che aveva; io la guardavo e lei mi faceva le facce; la tendina celeste appariva aggraziata, serena. È roba della pace, pensavo. Adesso c’è la pace.
Tutto era asciutto, tranne un senso di umido nel sedere. Ci mettemmo coi sederi al sole, a pancia in giù sulle lastre di roccia. Io rimettevo le palle nel caricatore. Le avevo tirate fuori con la scusa di contarle; erano belle, dorate; ce n’era ventuna.
«Come i tuoi anni» dissi alla Simonetta.
«Che le spariamo?» disse lei, e io dissi: «Dai».
Ci voltammo lunghi distesi, e io misi il parabello in piedi tra noi due; lei si afferrò alla canna, io posai le mani sopra le sue e tenendo forte guidai il suo dito sul grilletto, e sparammo in aria questo mezzo caricatore. Si sentivano le palle andar via nel cielo che era un piacere; vincevo ridendo i rinculi.
Alla fine dissi alla Simonetta: «Sai, i pezzetti della nostra vita non servono a nulla. Quello che è stato è stato. Resta un sentimento vago, come provo io in queste parti qui».
«Che genere di sentimento?» disse lei.
«Mi sento come a casa» dissi. «Ma più esaltato.»
«Sarà perché facevate gli atti di valore, qui» disse la Simonetta.
«Macché» dissi. «Facevamo le fughe.»
«Scommetto che avete fatto gli atti di valore.»
«Macché atti di valore» dissi. «Non vedi che ho perfino abbandonato il parabello?»
«Già» disse lei. «Perché l’hai lasciato qui?»
«Cosa vuoi sapere?» dissi. «Li lasciavamo da tutte le parti.» «Perché?» disse la Simonetta.
«San Piero fa dire il vero» dissi. «Non eravamo mica buoni, a fare la guerra.»

2

Cosa volevano le trombe?
Il tempo aveva preso una martellata e i frammenti volteggiavano in aria. Alcuni si chiamavano ore, altri giorni, altri ancora settimane; erano tutti uguali. Non era quello che si dice un’esperienza, solo una deidratazione: tutto era un po’ secco, l’aria la bocca i comandi.
Le cose che facevamo erano insensate. Avevamo attorno i tubetti con nasello, le molle a spirale, i bottoni zigrinati, le Cinque parti, le Otto parti, e tutto il resto; fin da piccolissimi avevamo preso a dichiarare queste cose, e ora continuavamo. C’erano anche percorsi pieni di ostacoli bislacchi, pali in bilico, buchi, brutti muri. Facevamo gli atti atletici nell’aria secca e fredda.
C’era Lelio con me: l’ho trovato qui Lelio, prima non era dei miei compagni, ma lo diventò subito. Questa cosa ce la siamo dovuta sbrigare insieme, e in questo senso è il primo dei miei compagni, quelli che poi diventammo banditi fuorilegge. Era vicentino anche lui, e lo conoscevo già di nome: era uno di quelli piuttosto bravi di cui si sa il nome, in città, anche se sono in altre scuole, perché non era al liceo; era un biondo silenzioso, biondo paglia.
«Vedi» dicevo a Lelio. «È l’ultimo assurdo della vita italiana. Se non ha senso, è perché la vita italiana non ha senso. Altrimenti questa sarebbe soltanto la naia.»
«A un certo punto» diceva Lel...

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