Sonderkommando Auschwitz
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Sonderkommando Auschwitz

La verità sulle camere a gas

Shlomo Venezia

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Sonderkommando Auschwitz

La verità sulle camere a gas

Shlomo Venezia

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Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio.' Sono parole di Shlomo Venezia, ebreo di Salonicco, di nazionalità italiana; è uno dei pochi sopravvissuti del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, una squadra speciale selezionata tra i deportati con l'incarico di far funzionare la spieiata macchina di sterminio nazista. Gli uomini del Sonderkommando accompagnavano i gruppi di prigionieri alle camere a gas, li aiutavano a svestirsi, tagliavano i capelli ai cadaveri, estraevano i denti d'oro, recuperavano oggetti e indumenti negli spogliatoi, ma soprattutto si occupavano di trasportare nei forni i corpi delle vittime. Un lavoro organizzato metodicamente all'interno di un orrore che non conosce eccezioni: il pianto disperato di un bimbo di tre mesi, la cui madre è morta asfissiata dal gas letale, richiama l'attenzione del Sonderkommando, lo scavare frenetico tra i corpi inanimati, il ritrovamento e subito dopo lo sparo isolato della SS di guardia che ammutolisce per sempre quel vagito consegnandolo alla storia. Per decenni l'autore ha preferito mantenere il silenzio, ma il riaffiorare di quei simboli, di quelle parole d'ordine, di quelle idee che avevano generato il mostro dello sterminio nazista ha fatto sì che dal 1992 abbia incominciato a parlare, e quei racconti sono la base della lunga intervista che è all'origine di questo libro.

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Information

Publisher
BUR
Year
2013
ISBN
9788858637548

Prefazione

Ho un’immagine precisa di Shlomo Venezia: l’immagine di un uomo che racconta con fermezza, con precisione, l’inferno che ha visto e toccato, e così facendo restituisce a noi che possiamo soltanto immaginare quell’orrore, cosa ha voluto dire la vita in un campo di sterminio, l’essere considerato meno di un animale, l’essere sopravvissuto grazie al tremendo lavoro in un Sonderkommando di Auschwitz.
L’immagine che ho nella mia mente porta con sé, insieme, affetto e commozione, timore e ammirazione.
L’affetto che provo per lui, per la sua vicenda, per quello che egli ha vissuto e per la forza con la quale ha affrontato una simile prova.
La commozione per la forza umana e civile che Shlomo sa trasmettere ad ogni suo racconto.
Il timore per quanto bassa e orribile può essere la crudeltà dell’uomo sull’uomo.
E, infine, l’ammirazione profonda per la sua decisione di raccontare, per quell’atto stupendo e impagabile con il quale, come egli stesso confessa nelle pagine di questo bellissimo libro, dopo esser risalito alla luce, dopo un silenzio durato anni, ha trovato il coraggio di parlare della propria esperienza, così come ormai da tempo fa in occasioni pubbliche, nelle scuole, con gli studenti che partecipano ai «Viaggi della memoria» organizzati dal Comune di Roma assieme alla Comunità Ebraica nei campi di sterminio.

Oggi, quando sto bene – scrive – , sento il bisogno di testimoniare, ma è difficile (…) Testimoniare nelle scuole mi procura molte soddisfazioni. Ricevo lettere commoventi da persone che sono state toccate da ciò che racconto. Mi dà conforto sapere che non parlo nel vuoto...

Ecco. Credo che con i suoi racconti, Shlomo vinca il buio e il pericolo che, per tutti gli uomini, questo vuoto rappresenta, trovando nella forza salvifica del ricordo, quel legame con la vita che gli ha permesso di superare tanto orrore e che può permettere a noi, oggi, di non ripetere una simile infamia.

È avvenuto – ha scritto Primo Levi – , quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto... occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare degli incantatori, da quelli che dicono belle parole non sostenute da buone ragioni.

La forza del ricordo è una forza benefica e allo stesso tempo disperata.
Una forza che, nell’oceano di dolore che sono stati i Lager (e i Sonderkommandos in particolare), appare l’unica oasi di salvezza per la propria identità umiliata, torturata, negata.
Ma, oggi, per chi sceglie di raccontare, ricordare è anche una prova dura e dolorosa:

(...) testimoniare rappresenta un enorme sacrificio – scrive Shlomo Venezia – riporta in vita una sofferenza lancinante che non mi lascia mai. Tutto va bene e, d’un tratto, mi sento disperato. Appena provo un po’ di gioia, qualche cosa si blocca dentro; la chiamo la «malattia dei sopravvissuti».

Proprio Primo Levi, con profondità e sensibilità, ha parlato ne I sommersi e i salvati di questa «malattia», ha parlato del diabolico meccanismo che la mostruosità del Lager mette in atto costringendo le vittime ad azioni che procurano loro un senso di colpa, quasi obbligandole ad assumere alcuni connotati dei carnefici.
È il meccanismo perverso che ha ideato i Sonderkommandos, le squadre speciali dove Shlomo era obbligato a lavorare come addetto al forno crematorio: l’esempio più crudele di come si possa distruggere l’umanità del prigioniero attraverso quei compiti orribili che egli descrive nel suo racconto.
Un modo per distruggere gli uomini, per renderli inaccettabili a se stessi, per tentare di trasferire su di loro l’abiezione dell’assassinio degli amici, degli indifesi, dei neonati. Di perdere definitivamente quel senso di innocenza che li distingueva dai carnefici.
Il racconto di Shlomo ci dimostra come, prima ancora di essere il campo della morte, il campo di sterminio sia stato il luogo di un esperimento atroce e orribile, in cui, al di là della vita e della morte, l’uomo si trasforma in non-uomo.
Ma, fortunatamente, ci dimostra anche che questo esperimento può fallire. Shlomo ha pagato un prezzo altissimo, fatto di orrore, di sangue, di dubbi e di interrogativi atroci. Qualcosa che nessuno di noi può minimamente avvicinare nella sua interezza, qualcosa che lacera indelebilmente quella «normalità» che è la condizione essenziale della nostra vita quotidiana: il senso del tempo che scorre, la pacatezza dell’aria o di un paesaggio, il sorriso di una persona, il fresco del vento.
Tutto, dopo un’esperienza come quella di Shlomo Venezia, è rigato, appannato. E ogni panorama, ogni campo, si trasforma sempre nel buio in cui è stato costretto a calarsi:

Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia. Qualunque cosa veda (...) Non ho più avuto una vita normale...

Eppure, Shlomo ha saputo uscire da questo incubo trasformando il suo dolore in una forza che ci trasmette affinché noi possiamo difendere quell’innocenza e quella normalità che gli sono state strappate. La trasmette a noi ogni volta che, come con questo libro, ripercorre il suo cammino tra i campi di sangue.
Leggendo il suo racconto, allora, sarà possibile sentire il coraggio civile di chi testimonia con una fermezza fatta, insieme, di tenerezza e di grande senso morale, di qualità riassunte nel secco, stupendo incipit di questa sua lunga narrazione:

Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923. La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell’espulsione degli ebrei nel XV secolo...

C’è un prima e un dopo in questo libro. Due confini precisi che si allargano alla storia di quello che siamo e siamo stati, e che un uomo, grazie a queste pagine, ci pone di fronte, affermando con precisione, con meravigliosa tenacia, il proprio essere, il proprio nome, la propria cultura, il proprio credo, tutto quanto egli ancora e più di prima oggi «è». Tutto quanto ha resistito e deve resistere affinché la sua speranza e quella di tutti noi possano continuare ad essere vive.

Walter Veltroni

Dedica

Dedico questo libro alle mie due famiglie: quella di prima della guerra e quella del dopo. Il mio pensiero va, innanzitutto, alla mia cara mamma di quarantaquattro anni e alle mie sorelline, Marica, quattordici anni, e Marta, undici. Penso spesso con tristezza alla difficile vita di mia madre, rimasta vedova molto giovane con cinque figli. Con tanti sacrifici, ai limiti del tollerabile, ci ha educato con princìpi sani, a essere onesti e a rispettare gli altri. I sacrifici e le sofferenze sono stati cancellati, eliminati insieme alle mie sorelle appena scese dai vagoni bestiame sulla Judenrampe di Auschwitz-Birkenau, l’11 aprile 1944.
L’altra famiglia si è formata dopo la grande tragedia. Mia moglie Marika e i miei tre figli Mario, Alessandro e Alberto capiscono molte cose meglio di me e credono nell’onestà e nel rispetto degli altri. La tenacia di mia moglie li ha fatti crescere e diventare uomini di cui sono fiero. Marika si è sempre presa cura di me, alleviando le infermità provocate dalla prigionia nei campi. Merita molto più del mio affetto silenzioso. Grazie per tutto quello che hai fatto finora, e per quello che continui a fare per i nostri nipotini Alessandra, Daniel, Michela, Gabriel, Nicole e per le nostre nuore Miriam, Angela e Sabrina.

Vostro marito, padre e nonno
Shlomo Venezia

Avvertenza all’edizione italiana

Questo volume nasce da una lunga intervista di Béatrice Prasquier a Shlomo Venezia, raccolta a Roma tra il 13 aprile e il 21 maggio 2006 e pubblicata per la prima volta in Francia nel gennaio 2007 (edizioni Albin Michel). Nell’edizione italiana, la testimonianza di Shlomo Venezia ha assunto la forma di un discorso continuo, non intramezzato dalle domande che ne costituiscono la trama. La traduzione dal francese (di Maddalena Carli), rivista dall’autore, si è basata su un confronto costante con le registrazioni dell’intervista originale; le note esplicative che corredano il testo sono state redatte dai curatori e da Sara Berger.
Un ringraziamento particolare ad Alexandre Olère, figlio di David Olère, per la collaborazione e l’autorizzazione alla riproduzione dei disegni di suo padre, raccolti in DAVID OLÈRE, A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz (The Beate Klarsfeld Foundation, New York 1989).
Ringraziamo inoltre Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo di Auschwitz-Birkenau e la Fondation pour la Mémoire de la Shoah di Parigi.

1

La vita in Grecia prima della deportazione

Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923. La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell’espulsione degli ebrei nel XV secolo ma, prima di stabilirsi in Grecia, i miei antenati si fermarono in Italia, per questo mi chiamo «Venezia». Gli ebrei provenienti dalla Spagna non usavano cognomi: si chiamavano, ad esempio, Isacco figlio di Salomone. Arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano. Per questa ragione molte famiglie ebraiche portano nomi di città. Nel nostro caso è quello che ci ha permesso di conservare la cittadinanza italiana.
In famiglia eravamo cinque figli, due maschi e tre femmine. Mio fratello maggiore, Maurice, aveva due anni e mezzo più di me; poi veniva Rachel, un anno e due mesi più grande di me; infine le ultime due, Marica, nata nel 1930, e Marta, nel 1933. All’inizio abitavamo in una casa piccola ma certo sempre meglio delle baracche in lamiera dove viveva la maggior parte degli ebrei poveri di Salonicco. Una casa che diventava sempre più piccola man mano che la famiglia si ingrandiva. Avevo più o meno cinque anni quando la vendemmo per costruire lì accanto, su un terreno di mio nonno, una casa più grande, a due piani. Mio padre, un po’ fanatico, fece scrivere il suo nome, «Venezia Isacco», in mattonelle rosse sulla stradina che conduceva alla porta di casa. Il secondo piano era affittato ad alcune famiglie greche: i soldi dell’affitto aiutavano mio padre a pagare le tasse. Disgraziatamente le cose cambiarono dopo la sua morte. Eravamo nel 1934 o nel 1935, e mio padre lasciava cinque orfani.
Al momento della sua scomparsa io avevo undici anni; ero a scuola quando una cugina di mio padre venne a prendermi e mi portò da lui all’ospedale. Era stato operato per una malattia al fegato, ma non c’era più niente da fare. Non ho avuto nemmeno il tempo di vederlo, è morto prima del mio arrivo. All’improvviso ci ritrovammo praticamente soli, senza risorse. Mio padre gestiva un salone di barbiere costruito dal nonno e io ero troppo giovane per prendere il suo posto. Il suo lavorante, allora, rilevò l’attività in cambio di una percentuale che versava a mia madre ogni settimana, una somma comunque insufficiente a sostenere una famiglia di cinque figli. Solo grazie all’aiuto dei quattro fratelli di mia madre siamo riusciti ad avere qualcosa da mangiare tutti i giorni. Andavo da loro ogni giovedì per prendere un sacco pieno di verdura: melanzane, cipolle e altre cose coltivate da loro. Ma nemmeno questo bastava, al punto che, un anno dopo la morte di mio padre, dovetti abbandonare la scuola e cercare un lavoro per aiutare la famiglia. Avevo appena dodici anni.
Intanto, mio fratello maggiore era stato mandato attraverso il Consolato italiano a studiare a Milano all’Istituto tecnico Marchioni. Ex combattente della Prima guerra mondiale e cittadino italiano, mio padre aveva diritto ad alcune agevolazioni. Ciò permetteva di avere una bocca in meno da sfamare. Dopo l’emanazione in Italia delle Leggi razziali del 1938, mio fratello venne espulso dall’Istituto e rispedito in Grecia. Come me, non avrebbe mai più ripreso gli studi.
Mio padre non visse gli anni in cui il regime fascista aveva cominciato a mostrare il suo vero volto. E non intese mai la vera natura del fascismo: per lui Mussolini era socialista. Si sentiva così fiero di essere italiano in Grecia che non esitò mai a indossare la camicia nera e a sfilare con l’orgoglio dell’ex combattente in tutte le manifestazioni e le parate organizzate dagli italiani. Era il suo unico divertimento, lo faceva sentire importante di fronte agli altri ebrei di Salonicco. Gli ebrei provenienti dall’Italia che avevano conservato la cittadinanza italiana non erano molti e la maggior parte di loro si comportava come mio padre, vedevano la realtà da troppo lontano, non capivano la situazione in patria.
Sui circa sessantamila ebrei della città, noi di origine italiana saremo stati, al massimo, trecento. Ed eravamo gli unici a mandare i figli alla scuola italiana. Rispetto agli altri, che andavano alla scuola ebraica, godevamo di alcuni vantaggi: ricevevamo tutto gratuitamente, ci regalavano i libri, mangiavamo alla mensa, ci distribuivano dell’olio di fegato di merluzzo... Indossavamo delle uniformi molto belle, con disegni di aerei per i ragazzi e di rondini per le ragazze.
A quei tempi i fascisti volevano dare risalto alla prosperità italiana. Era solo propaganda all’estero, ma noi ne approfittavamo. A scuola era stato istituito il «sabato fascista», a cui dovevano prendere parte tutti gli allievi. Ero fiero di partecipare alle sfilate, mi faceva sentire diverso dagli altri... e mi piaceva. Sono anche stato due volte in campeggio in Italia con i Balilla, in un’epoca in cui praticamente nessuno poteva permettersi di viaggiare. Avevamo anche altri vantaggi e aiuti da parte dell’Ambasciata italiana. In occasione di un giorno di festa, ad esempio, poteva accadere che il consolato distribuisse scarpe e libri agli italiani poveri.
La comunità ebraica di Salonicco si divideva in tre gruppi: uno – ristretto – era ricchissimo, un drappello poco numeroso riusciva a cavarsela, mentre la stragrande maggioranza della popolazione usciva al mattino per andare a lavorare senza la certezza di tornare a casa, la sera, con il denaro necessario a sfamare la famiglia. È difficile ammetterlo, ma a casa mia non potevamo dire «ho fame, vado a mangiare», ci mancava tutto. Niente a che vedere con i bambini di oggi, che bisogna costringere a finire il cibo che hanno nel piatto. In Grecia ogni alimento era razionato, dovevamo arrangiarci per trovare da mangiare. Mi ricordo che mia madre cercava sempre di aiutare i nostri vicini che erano ancora più poveri di noi.
Eravamo circondati da una grande miseria, il che ha formato il mio carattere e mi ha portato alla convinzione che una vita di privazioni rende le persone più forti.

I cinque o sei quartieri ebraici in città indicati col numero del tram che vi circolava erano tutti molto poveri. Il più importante si chiamava Baron-Hirsch, dal nome di un ricco benefattore che aveva aiutato la comunità ebraica di Salonicco. Più del novanta per cento degli abitanti del quartiere erano ebrei. Noi vivevamo proprio al confine del quartiere, ma io passavo gran parte delle mie giornate in compagnia di ebrei e a casa...

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