Il suicidio
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Il suicidio

Studio di sociologia

Émile Durkheim, Rosantonietta Scramaglia

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Il suicidio

Studio di sociologia

Émile Durkheim, Rosantonietta Scramaglia

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Il suicidio è un problema di tutti. Una scelta privata che richiede discrezione e rispetto, ma le cui cause interpellano la responsabilità collettiva. Perché ci si toglie la vita? Perché si suicidano più gli uomini delle donne? Perché in certi Paesi più che in altri? Émile Durkheim alla fine dell'Ottocento sottolineò come la mancanza d'integrazione degli individui nella società fosse una delle cause fondamentali del suicidio. Un'analisi acuta e insuperata, che studia il problema dal punto di vista sociale, e segna una svolta non solo per la filosofia, ma anche per la psicoanalisi e la biologia. Arricchisce il volume un'ampia e aggiornata analisi delle ricerche, sociologiche e statistiche, condotte fino a oggi, che aiutano a capire il fenomeno forse più misterioso e inesplicabile dell'aggressività umana.

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Information

Publisher
BUR
Year
2012
ISBN
9788858637340

L’INTERPRETAZIONE DEL SUICIDIO DA DURKHEIM A OGGI

LA SOCIOLOGIA GENERALE DI ÉMILE DURKHEIM

Per poter comprendere il significato profondo degli studi di Durkheim sul suicidio è indispensabile conoscere, sia pure molto sinteticamente, le linee essenziali delle sue concezioni nel contesto storico in cui ha operato. Émile Durkheim (1859-1917) è uno di quei pensatori che si trova all’incrocio di molte tensioni ideali e sociali. Dopo la tragica rivoluzione della Comune di Parigi, e dopo la sconfitta nello scontro con la Prussia, le classi dirigenti della Francia cercano un nuovo ordine nella Terza Repubblica. Come dice Remo Cantoni nella sua presentazione all’opera di Durkheim Le forme elementari della vita religiosa,1 Durkheim ha il «programma ambizioso di fare assurgere il proprio pensiero al rango di ideologia ufficiale, a sfondo restauratore, in difesa dell’ordine morale e civile della Terza Repubblica francese radicale e laica». O, come ha scritto George Gurvitch in occasione del centenario della nascita di Durkheim, «la religione, come tale, è, secondo Durkheim, una divinizzazione della società compiuta dalla società stessa». «Le sue concezioni raggiungono direttamente la religione del Grand Étre de l’Humanité di Auguste Comte e la teoria dello Spirito Assoluto di Hegel che si realizza nello Spirito Oggettivo.» Dio, per Durkheim, diventa minuscolo, ma non più il dio minuscolo incarnato nell’individuo come nel pensiero laico degli illuministi. L’incarnazione avviene nella Società, la quale arriva così ad assumere una posizione maiuscola.
Durkheim, pur criticando, spesso duramente, Comte e Spencer, prenderà dal primo il moralismo e dal secondo i concetti di evoluzione storica e di solidarietà organica. Inoltre trarrà spunto da tutta una serie di ricerche sulla criminalità studiate da Quételet e Tarde per sviluppare gli studi sulle anomalie che definirà nel concetto di «anomia». Ma, soprattutto, non deve sfuggire il fatto che Durkheim sarà influenzato da altri sociologi e pensatori del tempo, da Bergson a Sorel, cercando di legittimare il primato della società sull’individuo. È in questo senso che si può dire che il pensiero di Durkheim sia riassuntivo di un’epoca e si ponga al punto di incrocio e di sintesi di tutto un movimento. Durkheim aveva detto un giorno ad un suo allievo: «se voi volete maturare il vostro pensiero, riferitevi allo studio scrupoloso di un grande maestro, smontate un sistema nei suoi ingranaggi più segreti». Il maestro a cui si riferiva Durkheim era Renouvier, in realtà assai mediocre post-kantiano che, non tenendo conto dell’unità dialettica che Hegel aveva stabilita fra soggetto ed oggetto, ricreava il dualismo fra i due termini. Renouvier, da un lato, poneva il soggetto come persona e, dall’altro, le determinazioni sociali viste come esterne. Due mondi venivano a contrapporsi. Questo dualismo passa in Durkheim che lo riconoscerà esplicitamente in una delle sue ultime opere, Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali,2 Durkheim privilegia il sociale. Il sociale ha certamente origine dalle vicende dell’individuale. Ma, dopo essere stato originato da esso, acquista leggi proprie a livello superiore. I processi di socializzazione non avvengono spontaneamente. L’individuo entra in società, come chiarisce Durkheim nella Determinazione del fatto morale,3 facendo violenza alla sua natura e superando il proprio livello di singolo. La società è, quindi, una coercizione che l’individuo subisce dall’esterno. Ciò provoca il «generale disagio che colpisce le società contemporanee», come dice Durkheim ne Il suicidio (1897), anticipando un termine ed un concetto che passeranno nel saggio di Freud Il disagio della civiltà. Ma per Durkheim il problema è di dimostrare la necessità di questa coercizione, di legittimarla e di comporla in un sistema civile. E il compito della sua sociologia è quello di osservare questi problemi ed offrire una soluzione stabilizzatrice. Lo scopo che Durkheim si propone è, infatti, quello di fondare una teoria generale della società che riesca ad assorbire in sé le distorsioni e le anomalie che si creano a livello di individuo. Durkheim non dà come facilmente acquisibile l’assunzione dell’individuale nel sociale. L’uomo che egli descrive è un uomo contraddittorio, un «homo duplex». L’uomo si muove fra due poli opposti: la sua natura individuale o profana, e la sua natura sociale o sacra. Come individuo, l’uomo cerca di perseguire un proprio fine particolare; come membro della società è portato a perseguire fini generali collettivi. Ma ciò è necessario, secondo Durkheim, perché l’individuo lasciato a se stesso tenderebbe all’annullamento ed alla disgregazione.
Come aveva osservato Gustave Le Bon,4 la coscienza dell’uomo come individuo è diversa dalla coscienza dello stesso uomo in quanto membro di un organismo collettivo. Ugualmente, è diverso il comportamento di una persona isolata dal suo comportamento come membro di una collettività. Le Bon aveva osservato che il comportamento collettivo può essere migliore, ma anche molto spesso peggiore del comportamento individuale. Durkheim ritiene, invece, che la società possa rendere i comportamenti collettivi migliori di quelli individuali nella massima parte dei casi, purché la Società stessa intervenga attivamente. Anche essendo «l’organo di un organismo», l’individuo è inferiore rispetto al livello superiore di una società organizzata. Tuttavia non può, come credeva Rousseau, costringere se stesso per portarsi a questo livello superiore. Secondo Durkheim, occorre che una costrizione esterna, quella sociale, lo conduca al piano più elevato. Ma l’individuo non deve sentire questa costrizione come una forza estranea. Egli deve valutarla come un fatto costruttivo in quanto lo libera dall’incertezza e dalla casualità e lo conduce ad una vita morale e spirituale superiore.
A questo punto la domanda cruciale di Durkheim è la seguente: «Il nostro dovere è di cercare di divenire un essere compiuto e completo, un tutto che è sufficiente a se stesso o, invece, al contrario, non essere che la parte di un tutto, l’organo di un organismo? In una parola, la divisione del lavoro, nello stesso tempo che essa è una legge della natura, è essa anche una regola morale della condotta umana?».

LA DIVISIONE SOCIALE DEL LAVORO

La divisione del lavoro per Durkheim non è quella divisione tecnica del lavoro come l’aveva vista Smith, anche se sottintendeva quella sociale. La divisione del lavoro per Durkheim è la divisione sociale, cioè la divisione in classi con funzioni specifiche in collaborazione fra loro. È questa la chiave di Durkheim per giustificare la supremazia sociale e la costrizione che essa comporta. Il singolo non è autonomo, né può esserlo, in una società con molte specializzazioni come quella attuale. Nessuno può essere autosufficiente con la sua particolare specializzazione, ed ha bisogno di offrire la sua ed avere in cambio quelle degli altri. Solo la divisione sociale del lavoro può consentire l’unione dei singoli. La macchina della società è, dunque, indispensabile alla collaborazione fra gli uomini, alla loro unità. Ma Durkheim non è, come i primi positivisti o i primi liberali, trionfalistico. Si rende conto che questo «contratto» è difficile. Esso comporta la costrizione dell’individuo. La corrispondenza non è, dunque, perfetta.
La divisione sociale del lavoro non porta automaticamente all’armonia. Egli dice nella conclusione de La divisione del lavoro sociale (1893): «Il contratto non comporta un consenso pieno se i servizi scambiati non hanno un valore sociale equivalente (...) Se... i valori scambiati non si bilanciano, vuol dire che per equilibrarsi hanno avuto bisogno dell’intervento di una forza estranea: le due parti sono state lese e le volontà hanno, quindi, potuto mettersi d’accordo soltanto se l’una o l’altra ha subito una pressione diretta o indiretta — e questa pressione costituisce una violenza. In una parola, affinché la forza obbligatoria del contratto sia intera, non basta che essa sia stata oggetto di un assenso esplicito; occorre anche che questo sia giusto, e non è giusto per il solo fatto di essere stato consentito verbalmente. Un semplice stato del soggetto non può da solo generare il potere vincolante che inerisce alle convenzioni o, per lo meno, affinché il consenso abbia questa virtù, occorre che riposi anch’esso su un fondamento oggettivo». Dunque, c’è qualcosa di esterno, una forza esterna, nel contratto, «qualcosa di non contrattuale nel contratto» stesso. Questa pressione esterna è esercitata dalla società. In termini espliciti, quel che non c’è di contrattuale nel contratto è il fatto che esso si esercita in un regime di disuguaglianza. E Durkheim ammette, infatti, che solo «l’assoluta uguaglianza nelle condizioni esterne della lotta» potrebbe non dare costrizioni. E conclude, quindi: «La condizione necessaria e sufficiente, in virtù della quale questa equivalenza può costituire la base dei contratti, è che i contraenti si trovino in condizioni esteriori uguali». In altri termini, Durkheim ammette un concetto di uguaglianza solo come uguaglianza delle opportunità nel senso di Tocqueville. Tutti gli uomini devono poter correre nella gara sociale muovendosi dallo stesso nastro di partenza in modo che, poi, «nessun ostacolo, di qualsiasi natura, impedisca loro di occupare nei quadri sociali il posto rispondente alle loro facoltà». Per Durkheim la società deve essere «costituita in modo da permettere alle ineguaglianze sociali di esprimere esattamente le ineguaglianze naturali». È evidente che, anche ottenendo l’uguaglianza delle condizioni di partenza, la società si troverebbe, ben rapidamente, in situazione di ineguaglianza. E proprio quel compito regolatore della società, che Durkheim auspica, verrebbe a mancare nel punto cruciale. Altri pensatori, da Rousseau a Babeuf e a Marx, si erano, infatti, posti il problema delle disuguaglianze naturali come generatrici immediate di disuguaglianze sociali, anche se si fosse ammesso il principio dell’eguaglianza delle opportunità di partenza.
Il compito della società, nella misura in cui si voglia attribuirle una funzione regolatrice, dovrebbe proprio essere, infatti, quello di superare le ineguaglianze naturali in un’eguaglianza artificiale (appunto sociale) in cui a tutti sia dato di partecipare alla costruzione e conduzione della società stessa in modo attivo e paritetico. Quando ciò non sia dato, è impossibile realizzare quella «perfetta spontaneità» di cui parla Durkheim o quella piena esplicazione delle vocazioni. Nessuno può vivere a livelli meramente esecutivi sentendoli come manifestazione ed esplicazione piena della propria personalità. L’esecuzione non può essere una vocazione. Nessun uomo, anche se alienato, ha un livello così basso come richiesto dai lavori esecutivi a cui non può dare la sua partecipazione attiva e da cui non può ricavare un senso. Alla divisione sociale del lavoro, presupposta da Durkheim come «un dato», non può darsi quel carattere di adesione che egli stesso postula. Durkheim dice, infatti, che «per spontaneità si deve intendere l’assenza non soltanto di ogni violenza esplicita e formale, ma anche di tutto ciò che può avversare, anche indirettamente, il libero spiegamento della forza sociale che ognuno reca in sé».
Il fondare il primato della società sulla divisione del lavoro sociale ha, in Durkheim, una lunga spiegazione. Le antiche società erano omogenee, basate sul lavoro segmentario in cui ognuno operava in modo relativamente indipendente. La società era possibile nella misura in cui si fondava su una religiosità di gruppo. Ma le società moderne sono differenziate, sono basate sulla divisione del lavoro e la specializzazione, e in esse prevale una religione dell’individuo. La divisione del lavoro cova, dentro di sé, una possibile disgregazione sociale.
Durkheim pensa ad una codificazione della divisione sociale del lavoro, ma sottraendola al pericolo dell’individualismo. La divisione del lavoro non deve essere solo di natura tecnica, ma basarsi su una morale collettiva. La divisione e la specializzazione aumentano nella società contemporanea, ma questo aumento porta anche alla necessità di una collaborazione più fitta. Nessun individuo può più vivere separatamente come nelle società semplici. È proprio l’estrema divisione che può portare alla massima unione. Il paradosso è evidente: la massima divisione del lavoro, a cui corrisponde la massima divisione in classi, dovrebbe portare non al conflitto o alla coercizione più forti, ma alla massima solidarietà fra disuguali. Durkheim accenna solo all’uguaglianza delle opportunità, ma non affronta per nulla il problema della proprietà privata e sfiora soltanto gli aspetti negativi della divisione del lavoro come fatto di alienazione e di ingiustizia. Eppure sono esattamente queste due le cause che determinavano e determinano la non coincidenza fra individuale e sociale (il residuo irriducibile del non contrattuale nel contratto) ed obbligano, infatti, Durkheim a stabilire artificialmente il primato del sociale sull’individuale come coercizione. Ma proprio lo sforzo di fondare una società moderna sulla divisione del lavoro porta per la prima volta in luce, in tutta la sua ampiezza, un problema che era stato sottovalutato anche da Marx. Marx riteneva, infatti, che la causa fondamentale della divisione ...

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