Gente del Nord
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Gente del Nord

L'avventura della Lega vissuta dall'interno

Marco Reguzzoni

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L'avventura della Lega vissuta dall'interno

Marco Reguzzoni

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Busto Arsizio 1986. Un quindicenne assiste al comizio del leader di un neonato movimento politico, la Lega autonomista lombarda. Il ragazzo è Marco Reguzzoni, l'oratore Umberto Bossi. Il suo carisma, le accuse alla partitocrazia e al centralismo sono una folgorazione per il giovane liceale, che si tessera e inaugura un percorso di impegno e militanza che dalle prime improvvisate sedi leghiste, odorose di ciclostile e di colla per manifesti, lo condurrà alla presidenza della Provincia di Varese, nel 2002 e ancora nel 2007, e quindi a essere eletto deputato e capogruppo. Rievocate in queste pagine, le tappe del suo cammino personale offrono al contempo una prospettiva privilegiata — dall'interno — degli snodi cruciali della storia della Lega Nord, dai suoi esordi come voce di protesta contro il sistema al suo consolidarsi come forza istituzionale e di governo. Le prime campagne elettorali e l'invenzione dei gazebo e di Miss Padania, i conflitti di potere intestini e le alleanze e gli scontri con Berlusconi, i congressi e le marce sul Po, i raduni a Pontida e le grandi battaglie parlamentari danno corpo a un racconto vivacizzato da aneddoti e ritratti inediti dei grandi pionieri leghisti. Su tutti si staglia la figura di Bossi, stratega politico lungimirante ma anche determinato a non lasciarsi annientare dalla malattia e a tenere salde le redini del partito guidandone le battaglie. Come quella per il federalismo e il potenziamento dei poteri locali; per una scuola più legata al territorio; per la tutela delle piccole e medie imprese e del Made in Italy in un mondo globalizzato; per un'immigrazione regolata e per il rispetto della legalità; per l'eliminazione di privilegi e sprechi. Obiettivi che una volta conseguiti si riveleranno preziosi non solo per la Padania, ma per tutto il Paese.

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1
La folgorazione
Tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, quindi il diritto di rifiutare obbedienza e opporre resistenza allo Stato quando la sua tirannia o la sua inefficienza diventino grandi e intollerabili […] Mi piace sognare uno Stato che alla fine possa permettersi di essere giusto con tutti gli uomini, uno Stato ancor più perfetto e glorioso che pure ho immaginato ma che non ho ancora visto in nessun luogo.
Henry David Thoreau
Quando salì sul palco di quella piccola sala riunioni, non potevo immaginare che quell’uomo ossuto e spigoloso mi avrebbe cambiato la vita.
Busto Arsizio, Padania vera, venticinque anni fa. Un giovane quindicenne, con gli amici della sua compagnia, assiste al comizio del fondatore di un neonato movimento politico. Il leader è Umberto Bossi, il movimento è la Lega Lombarda.
Avevo appreso dell’esistenza della Lega e di Bossi leggendo un volantino, ciclostilato in proprio, che portava la firma «Lombardia autonomista» e che rivendicava nel suo titolo di apertura «Scuola coloniale basta». Il contenuto di quelle quattro paginette era quanto di più rivoluzionario si potesse pensare. Si parlava di dare la precedenza ai lombardi nell’assegnazione dei posti di lavoro pubblici e nei bandi per gli alloggi popolari e le abitazioni di edilizia convenzionata. Un’eresia per l’epoca, e in parte ancora oggi.
Un articolo entrava nel merito di come fosse necessario riaffermare la nostra cultura e la nostra storia, che rendono conto dei nostri valori sociali e morali, anche restituendo dignità ai dialetti e alle parlate locali.
Il volantino chiudeva con un decalogo di sintesi del programma politico del movimento, che al primo punto recitava: «Per l’autogoverno della Lombardia superando lo Stato centralizzato con un moderno Stato federale che sappia rispettare tutti i popoli che lo costituiscono».
Un principio, quello del federalismo, che ancora oggi rappresenta un nostro fondamento e che era stato incluso fin da subito nell’oggetto sociale di quel neonato movimento politico. La Lega Autonomista Lombarda era stata fondata il 12 aprile 1984 a Varese, nello studio della notaia Franca Bellorini: la prima firmataria era Manuela Marrone, al cui nome seguivano, tra gli altri, quelli di Giuseppe Leoni e Pierangelo Brivio. Segretario del movimento: Umberto Bossi. La nuova formazione aveva significativamente scelto come proprio simbolo un’immagine di Alberto da Giussano, il mitico condottiero che nel dodicesimo secolo aveva guidato la compagnia del Carroccio contro l’imperatore Federico Barbarossa, intenzionato ad assoggettare i Comuni del Nord Italia unitisi nella Lega Lombarda con il giuramento di Pontida. Due anni più tardi, il 21 marzo 1986, la Lega Autonomista Lombarda era diventata semplicemente Lega Lombarda, aprendo nel dicembre di quello stesso anno la sua prima sede a Varese.
Che uno sparuto gruppo di militanti fondasse un movimento politico per promuovere l’autonomia, il federalismo, il recupero delle tradizioni locali era un’impresa quasi folle all’epoca della balena bianca democristiana e del più grande partito comunista d’Occidente. Ma il gruppetto è determinato e il leader instancabile e molto furbo: lascia che i giornali lo irridano, fa sparate a effetto per attrarre l’attenzione del pubblico, riesce a ottenere visibilità. E consensi. Ovviamente i benpensanti e i politici lo guardano con spocchiosa sufficienza, lo isolano, lo boicottano.
Chi lo ascolta sul serio, invece, resta conquistato. È ciò che accade a me e a quanti sono con me quella sera: l’impressione immediata è di una forza straordinaria, un concentrato di idee, carattere e coraggio. Con la sua voce arrochita e carica di passione, Bossi parla per un’ora, ci spiega che la Lombardia per essere libera deve essere autonoma, all’interno di uno Stato federale, davvero democratico e rispettoso delle tradizioni e della storia. Il pubblico presente reagisce dapprima con un certo scetticismo, poi via via si scalda finché iniziano a fioccare gli applausi. Bossi cita numeri e cifre, fa esempi concreti e la gente ci si ritrova. Quella sera è presente anche Tiziana Rogora, giovane insegnante di lettere, pasionaria della prima ora e futuro consigliere regionale della Lega. Per uno scherzo del destino, l’anno successivo diventerà mia insegnante di italiano e latino al liceo classico: competente, apprezzata da tutti e molto carina, verrà sostituita dopo qualche mese da una professoressa di Manfredonia.
Al termine del comizio, d’impulso, sottoscrivo la tessera di «Riaa», torrente, quella riservata ai giovani, provocando uno shock ai miei genitori. Quando una sera a cena annuncio loro la mia decisione, scoppia il putiferio. La mia famiglia ha un passato fatto di contadini e commercianti, operai e manovali, gente che lavora e che percepisce la politica come estranea, come un ambito cui accostarsi con diffidenza e prudenza. Appartiene cioè al classico tessuto sociale lombardo, da cui nasce la Lega, in cui è centrale la cultura del lavoro, in particolare di quello autonomo, degli artigiani, dei commercianti e dei piccolissimi imprenditori.
I miei genitori, papà macellaio e mamma che aiuta in negozio, vengono da lì.
E se all’inizio l’idea di un figlio schierato politicamente li disorienta, con il tempo cominciano ad ascoltare e a condividere i miei ragionamenti. Perché, in fondo, la Lega esprime la voglia di libertà e indipendenza di chi vive ogni giorno, per scelta e per disposizione naturale, una vita fatta di lavoro, sacrifici, autonomia e delle soddisfazioni di chi si è fatto da solo. Di chi alza la saracinesca ogni mattina senza sapere se arriveranno clienti, ma che alla sera è contento di aver svolto il suo lavoro, il suo compito nella società.
Il progetto di Bossi, quindi, nel giro di qualche anno li conquisterà e insieme a mia sorella Paola, diventeremo una famiglia di leghisti integrali.
All’epoca, però, vedono la mia tessera di «Riaa» come l’ennesimo colpo di testa di un figlio un po’ inquieto, magari intelligente e bravo a scuola, ma indomabile e un po’ anarchico. Sperano forse che sia per me un’infatuazione passeggera, di cui presto mi stancherò.
È invece l’inizio di un’avventura bella e complessa che dura tuttora, di certo con meno spensieratezza, ma con la stessa passione e il medesimo coinvolgimento dei primi tempi.
I primi passi
È un’epoca di grande fermento, quella della metà degli anni Ottanta: è il periodo della «Milano da bere», della crescita economica e dell’ottimismo. Poche cose sono chiare, ma a chi si affaccia per la prima volta al mondo degli adulti sembra ovvio che le ideologie hanno le ore contate. I ragazzi capiscono, o forse più che altro intuiscono, che la contrapposizione destra-sinistra è ormai superata, che è ormai priva di senso. Gli eroi per noi sono Nelson Mandela che lotta contro l’apartheid in Sudafrica, Bob Geldof del Live Aid, gli U2 che difendono la libertà dell’Irlanda. Abbiamo i nostri miti e i nostri entusiasmi, e percepiamo che la strada per costruire un mondo nuovo deve essere tracciata sulla base di princìpi e valori più autentici di quelli ormai svuotati di sostanza che tengono in piedi un sistema politico asfittico e ingessato. Questa voglia di cambiamento, questa esigenza di impegnarsi per uscire dagli schemi si traducono nel mio caso in un mix di provocazione e ironia. Il primo anno di liceo presento una lista che si chiama «Lista mia per piccina che tu sia tu mi sembri una badia», chiaramente una irrisione contro le liste di destra, di sinistra e dei ciellini che imperversano nelle scuole superiori. Contro ogni aspettativa, non solo ottengo uno dei tre seggi nel Consiglio di istituto, ma la cosa si ripete anche negli anni successivi, e sono eletto come consigliere più votato. Partecipo anche alla nascita di Comunità giovanile, esperienza che si proponeva di andare «oltre gli steccati» e che prosegue tuttora. Sono esempi che dimostrano che un’alternativa, quando ci si crede e si investe in prima persona, non soltanto è possibile ma soddisfa le aspirazioni di chi non si riconosce più nelle categorie ormai stantie di destra, centro e sinistra.
È in questa fase che incontro la Lega. Io non sono tra i suoi fondatori né ho fatto parte del nucleo originario che ha mosso i primi passi. Quando incontro Bossi, i pionieri hanno già costruito un’organizzazione, fondato il movimento, macinato migliaia di chilometri per presentarsi, reclutare nuovi aderenti e motivarli. In quegli anni, come normale per un adolescente, il centro dei miei interessi non è la politica, ma sono gli amici, le ragazze, lo studio e il divertimento. Ciononostante il progetto di Bossi mi affascina e mi coinvolge e con il tempo il mio impegno si fa sempre più consapevole e attivo. Quella della Lega mi appare come l’unica vera proposta politica nuova nel nostro Paese. Bossi vuole superare la tradizionale antitesi sinistra-Democrazia cristiana, infrangendo tabù come quello dell’«unità nazionale a tutti i costi», del centralismo statale, del conservatorismo e dell’immobilismo, funzionali alla solidità del blocco anticomunista. Propone di sostituirli con princìpi nuovi, che diano corpo a una struttura di moderno Stato federale, legato alla tradizione e alle radici storiche anziché alle ideologie. Di questo si discute animatamente nelle prime sedi della Lega, dove vengo trascinato da due amici, Lele e Dado Marcora, gemelli identici e quarterback di football americano, due energumeni con un cervello molto fine che oggi pagano l’ostracismo delle nostre università con un esilio in terra britannica, dove svolgono la loro attività di scienziati e docenti, in Galles il primo e a Oxford il secondo.
L’avventura della politica e quella dell’amicizia, per noi, sono una cosa sola. La sede di Busto Arsizio della Lega è all’epoca un vero tugurio, due locali fatiscenti sopra la sede storica dell’Msi. Un ammasso di colla e manifesti, vernici e pennelli, montagne di volantini e tonnellate di adesivi. Intonaco cadente, serramenti rotti, un bagno che non ha mai funzionato, caldo torrido d’estate e gelo d’inverno. Un pregio? Essere in pieno centro, a due passi dai luoghi di ritrovo e dai bar degli aperitivi con le ragazze. Per noi è facile passar dentro, magari solo per far incetta di adesivi inneggianti «Lombardia libera» o per mostrare alla ragazza di turno di avere anche un lato «politicamente impegnato». Non sempre funziona, ma ci si prova comunque. E tra un volantinaggio, un comizio e una festa nasce così un gruppo affiatato e unito, una vera e propria «banda»; oltre ai Marcora ricordo Diego Gallarate, Laura e Fabio Airaghi, Marco Sartori che diventerà poi deputato della Lega, Andrea Gambini, Lela Brazzelli, Giorgio Mariani, Manuela Maffioli. Si volantina, si lavora tanto, ma soprattutto ci si diverte un sacco.


Le idee propugnate dalla Lega e il suo progetto politico autenticamente anti-ideologico irrompono come una folata di aria fresca nel clima immobile della politica italiana. E cominciano a trovare consensi e riconoscimento. Alle elezioni politiche del 14 giugno 1987 la Lega Lombarda conquista più di centottantamila voti per la Camera e quasi centoquarantamila per il Senato, aggiudicandosi un deputato, Giuseppe Leoni, e un senatore, Umberto Bossi, che da quel giorno sarà per tutti il Senatùr. Il vento del Nord soffia forte anche alle elezioni amministrative dell’anno successivo, quando la Lega inizia a radicarsi nei primi Consigli comunali. È quella la prima campagna cui partecipo, seppur con tempi limitati dall’impegno scolastico del ginnasio, e con la frustrazione di non poter votare.
Nella Lega degli esordi i militanti vengono selezionati con attenzione perché si vuole evitare il rischio che gruppi organizzati e finanziati dall’esterno si impadroniscano delle sezioni locali. Di questa scrupolosità anch’io faccio le spese.
Quando sto per compiere diciotto anni voglio diventare subito «socio ordinario militante», la qualifica che all’interno della Lega dà diritto al voto. Faccio domanda nel mese di aprile, in modo da poter sottoscrivere la tessera il 30 maggio, giorno del mio compleanno, ma a sorpresa il segretario della sede di Busto Arsizio, Modesto Verderio, oggi mio grande amico, rifiuta la richiesta con la motivazione: «Infiltrato».
Verderio, come mi racconterà lui stesso ridendoci sopra, sostiene nel direttivo che, essendo la mia fidanzata dell’epoca iscritta al Movimento sociale italiano, c’è un alto rischio che io sia un infiltrato.
Tutto falso. Ma non sono costretto a dare spiegazioni perché in sezione gli altri militanti, per me, fanno la rivoluzione.
Gianni Buzzi, Ninetta Cavaiani e Diego Gallarate, guidati dall’amministratore Giovanni Pavan, si oppongono con forza alla decisione del segretario: tutti sanno che sono tesserato da tempo e mi vedono impegnarmi ovunque ce ne sia bisogno, per comizi, volantinaggi, feste.
Nella riunione seguente il direttivo ribalta la decisione del segretario e il 30 maggio 1989, giorno del mio diciottesimo compleanno, entro a pieno titolo nella grande «banda» della Lega.


Nella campagna elettorale per le Europee del 1989, con il bustocco Francesco Speroni candidato in prima linea, il nostro impegno è fortissimo. Credo di aver distribuito una tonnellata di volantini e se mi avessero dato una multa di un euro per ogni adesivo attaccato ai lampioni o ai semafori, avrei dovuto lavorare anni per pagarla. I risultati però arrivano, e a giugno, con l’1,8 per cento dei voti su base nazionale, la Lega manda a Strasburgo Francesco Speroni e Luigi Moretti.
In questa fase di grande fervore ed entusiasmo ho l’occasione di conoscere più da vicino Umberto Bossi. A fine anni Ottanta organizziamo infatti la festa di Busto Arsizio, una delle prime della Lega, allestita all’aperto in un quartiere periferico e impostata in modo non troppo diverso dalle tradizionali feste popolari, un tempo tanto care alla sinistra. È un successo che supera ogni previsione e da allora la festa viene replicata ininterrottamente tutti gli anni. Ancora oggi, anche se gli eventi mi hanno portato a rivestire altri ruoli e ad assumermi altre responsabilità nel movimento, cerco sempre di dare un contributo concreto e «fisico» alla sua organizzazione. Servire ai tavoli, spillare birre, preparare i caffè sono azioni che ricordano ai nostri dirigenti l’umiltà e la devozione, e a me ridanno il senso della semplicità e genuinità dell’impegno politico.
Anche nel 1990 sono addetto a birre e affettatrice. Per Bossi ero solo un ragazzo che si dava da fare, ma ricordo bene sia i comizi sia le ore passate a sentirlo parlare di politica fino all’alba, delineando strategie e future battaglie sul territorio. Allora come oggi, ascoltare Bossi è sempre stimolante, perché niente è scontato nelle sue argomentazioni. Bossi era e rimane acuto e imprevedibile; con lui sai sempre da dove parti ma non dove vai a finire. In quegli anni, qualunque fosse l’argomento in discussione, si finiva sempre con l’inquadrare un passaggio storico che evidenziava la necessità di conquistare l’autonomia e il federalismo.
Per esempio, se si affrontava il problema dell’incapacità da parte della scuola di andare incontro alle esigenze delle imprese e del territorio, la causa veniva individuata nel fatto che i programmi sono elaborati non localmente ma a Roma, e che gli insegnanti non sono reclutati su base regionale. L’errore storico è stato quello di sacrificare il sistema scolastico sull’altare dell’unità del Paese.
Stiamo perdendo l’industria tessile? La colpa è del centralismo che grava le nostre aziende di oneri spropositati, ma quando fu il momento di scegliere, gli industriali tessili sostennero la centralità dello Stato nazionale perché vedevano nel Sud un nuovo mercato a cui puntare.
Analisi circostanziate e storicamente documentabili, quelle del nostro leader, frutto di una vasta cultura storica costruita leggendo libri, e leggendoli non con l’approccio pedante dello storico ma con l’arguzia dell’analista politico. E le analisi arrivavano sempre alla stessa conclusione: occorre darsi una mossa e passare all’azione politica.


La prima di un certo risalto è la manifestazione che la Lega organizza per protestare in modo energico contro l’imposizione di un nuovo casello sull’autostrada di Varese, una delle direttrici viarie storiche del Paese, costruita nel 1927 e per la quale abbiamo sempre pagato il pedaggio. All’inizio degli anni Novanta il governo stabilisce di introdurre un altro casello tra Busto Arsizio e Varese, a Cavaria, con il solo obiettivo di aumentare gli introiti delle casse statali. La Lega si oppone. Pensata da Bossi e «organizzata» dalla segreteria provinciale all’epoca retta da Roberto Maroni, la manifestazione è in realtà un’iniziativa quasi completamente improvvisata: in fretta e furia viene istituito un presidio in mezzo al fango cui partecipano militanti provenienti dall’intera provincia che si danno il cambio giorno e notte sul cantiere, sotto una pioggia battente, con ai piedi stivaloni di gomma tutti inzaccherati. In quella occasione conosco molti dei protagonisti della stagione politica che si stava aprendo allora a Varese, da Luigi Peruzzotti a Pietro Reina, da Cesare Bossetti allo stesso Maroni. Roberto, la cui carica di segretario provinciale di Varese lo rendeva subordinato solo a Bossi, già allora iniziava a mostrare le doti di mediatore e le capacità politiche che lo avrebbero portato molto lontano. A Cavaria, pur con qualche pecca organizzativa, che è lui il primo a riconoscere apertamente, Maroni dimostra fiuto politico intuendo l’importanza di un gesto di ribellione come quello di occupare un cantiere delle autostrade. Eravamo un gruppo di amici che andava contro uno dei simboli del potere romano, le autostrade, allora pubbliche al cento per cento, esose percettrici di denaro estorto ai contribuenti del Nord. Al di là della gestione un po’ anarchica di Maroni e del fatto che alla fine il casello verrà ugualmente costruito, si tratta di un’esperienza utile, che serve a rinsaldare i militanti varesini, a far capire a tutti che occorre darsi da fare, conoscersi e farsi conoscere. E serve a dimostrare che siamo capaci di un atto rivoluzionario, pronti, insomma, per sfidare Roma.
Veniamo tutti schedati dalla polizia, qualcuno di noi riceve anche una denuncia. Conservo ancora nella mia camera di ragazzo, a casa dei miei genitori, una fotografia con dedica di Bossi, immortalato con indosso gli stivaloni affondati nel fango. Un’immagine che serve tuttora a ricordarmi da dove siamo partiti e con quale determinazione, da sempre, portiamo avanti le nostre battaglie.
I pionieri
Oltre a Bossi, che si staglia come guida assoluta per noi giovani militanti in virtù del suo carisma e della determinazione appassionata con cui sostiene le sue idee e il progetto di tradurle in realtà, ci sono nella Lega degli albori altre essenziali figure di riferimento a cui ispirarsi.
Una di queste è per me Rosi Mauro. Chi la conosce sa che è una vera forza della natura. Come una montagna, è solida nelle convinzioni, ma pronta a eruttare fuoco e fiamme come un vulcano. Nei primi anni della Lega viene definita la Pasionaria per la foga che mette nei comizi. Da sempre nel Sindacato padano, il Sin. Pa, e da sempre amica della moglie di Bossi, Manuela, Rosi viene dall’esperienza delle fabbriche, dai comizi sindacali, ed è capace di creare quel rapporto franco e determinato con persone di qualunque condizione sociale che soltanto i veri sindacalisti riescono a instaurare. Può condurre ore di trattativa, stare lì ad ascoltare per giorni e giorni, ma se c’è da decidere di far saltare il tavolo ci mette cinque secondi, e non ha nessun problema a prendere la parola in ambienti ostili, alla sola condizione che le cose che deve dire siano quelle in cui crede. Bossi la stima per il coraggio e il carattere deciso, ma anche per la capacità di dire sempre la verità, anche quando è scomoda.
Alberto Ferrari, marito di Rosi e nel 1990 responsabile organizzativo della Lega Lombarda, è l’uomo che forse più mi ha avvicinato alla comprensione della macchina organizzativa del movimento. Anche Alberto è uno determinato nel sostenere le proprie convinzioni, e nonostante l’indole pacata e i modi sempre misurati è capace di arrabbiarsi sul serio. Devo ad Alberto, inoltre, il consiglio di studiare e di lavorare così da avere sempre un’alternativa alla politica. Allora mi sembravano considerazioni «da vecchio»; ma ho seguito il consiglio e non lo ringrazierò mai abbastanza.
Altra figura significativa per me, in quei primi anni, è stata quella di Tiziana Rogora, che all’epoca si occupava di scuola e che nel 1990 diventa consigliere regionale lombarda della Lega. Colpiva l’estrosità del suo modo di fare e di abbigliarsi ma soprattutto la forza dirompente delle sue idee innovative. Bisogna cambiare molte cose, ci diceva. Non è possibile non studiare la storia del Novecento, non è giusto avere programmi che sono imposti da Roma: una scuola di Busto Arsizio non può insegnare le stesse identiche cose che insegna una scuola di Napoli o di Palermo, perché diverse sono le caratteristiche della società in cui quella scuola è inserita, diverso è il tessuto produttivo dove poi troveranno impiego gli studenti, e diversi sono i contesti culturali e storici da cui muovono famiglie e ra...

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