L'alfiere
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L'alfiere

Carlo Alianello

  1. 252 pages
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Carlo Alianello

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Pino Lancia è alfiere nell'esercito delle Due Sicilie, "un giovanottone alto e quadro a cui l'uniforme turchina dei Cacciatori a piedi stava come un guanto", un novellino che si ritrova nella battaglia di Calatafimi contro le camicie rosse. È il 1860 e la spedizione dei Mille squassa l'Italia. Liberale nell'animo, Pino servirà il suo re, Francesco II di Borbone, sino alla fine, a dispetto di ogni convenienza. Attraversando l'Italia in guerra in compagnia di un giovane francescano, mentre intorno a lui si dipana un'animatissima "commedia umana" di eroismo, amore e viltà, l'alfiere assiste alla caduta del regno e all'unificazione del paese sotto le insegne sabaude. Classico letterario da riscoprire, il romanzo racconta il Risorgimento dalla prospettiva inedita dei vinti. Perché chi l'ha detto che i buoni - e i cattivi - fossero tutti da una parte? Chi era il vero nemico dell'Italia, in quei tempi tumultuosi? "Garibaldi e i piemontesi che vengono di fuori e a tutti i costi ci vogliono regalare questa benedetta libertà, che chi sa che gli pare e il mondo resterà sempre quello che è, o quelli che ci hanno governati sino a ora e han tollerato il sopruso, il raggiro, la corruzione?"

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Information

Publisher
BUR
Year
2011
ISBN
9788858621639
Carlo Alianello

L’alfiere

prefazione di Piero Gelli
S C R I T T O R I C O N T E M P O R A N E I

Prefazione

di Piero Gelli
Carlo Alianello? Chi era costui? Parafrasando il dubbio del povero Don Abbondio potrebbero chiederselo molti di coloro che sfoglieranno il romanzo sui banconi delle librerie, soprattutto se non fossero ancora nati, o troppo piccoli, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, quando grazie a uno sceneggiato televisivo del 1956 questo suo alfiere divenne un grande successo, tardo rispetto al romanzo che era uscito da Einaudi, quasi in sordina, nel 1942, ovvero nell’anno XXI della periclitante era, e atteso a lungo anche dal suo autore, che allora compiva cinquantacinque anni.
L’alfiere, comunque, fu subito ristampato dalla Vallecchi. Vale la pena di sottolineare che la casa editrice fiorentina, in quegli anni, nonostante le avvisaglie di una crisi che la porterà ben presto a cedere tutti i suoi autori, aveva un prestigioso catalogo di scrittori italiani contemporanei: Papini, Palazzeschi, Malaparte, Pratolini, Landolfi, Tobino e tanti altri, tra cui, en passant, Gadda (Novelle dal Ducato in fiamme, 1953).
Poi, nel 1964, fu la volta dell’editore più dinamico e «progressista» di quel periodo, Giangiacomo Feltrinelli, di ristampare L’alfiere, dopo che l’anno precedente aveva pubblicato L’eredità della priora, che molti considerano il suo libro più importante, a tal punto da meritare, oltre il premio selezione Campiello, la relativa scheda sul Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi.1
Dal dopoguerra fino ai primi anni Settanta Alianello è un autore di sicura fama, al di là dell’evento televisivo che lo fece conoscere anche da quel pubblico meno incline a frequentare le librerie.
I riconoscimenti non gli mancano: nel 1947 Mondadori pubblica Il mago deluso, che vince il premio Bagutta; nel 1952, ancora per Mondadori esce Soldati del re, che riceve il premio Marzotto Valdagno. Sono sicuro che, se con L’eredità della priora si aggiudicò soltanto la selezione del Campiello e non il premio finale, è perché l’aveva editato Feltrinelli, in un’epoca in cui il Campiello era un incontrastato feudo veneto-mondadoriano su cui era difficile fare breccia.
In ogni caso a metà degli anni Sessanta, dopo la pubblicazione feltrinelliana dei suoi due romanzi indubbiamente più rilevanti, qualcosa accade che progressivamente offusca l’immagine dello scrittore e che, dovuta a tanti moventi, non solo fisiologici, dell’attività creativa, va al di là del probabile declino. Capita. È successo anche ad altri: si pensi, ad esempio, a un Rossini, che sopravvive quasi di mezzo secolo ai suoi capolavori, o, per restare in campo letterario, allo stesso Manzoni, tanto amato e ammirato da Alianello. Di fatto lo scrittore romano è «dismesso» dagli editori di punta, e pubblica dove può, fino al tentativo di rilancio in seno alla neonata casa editrice Rusconi.2 Spia del disagio di questi ultimi anni è una sorta di autobiografia, a metà strada in realtà tra il diario e il pamphlet, Lo scrittore o della solitudine, in cui, tra l’altro, si parla sintomaticamente di una «consorteria di sprovveduti» che includerebbe «critici, autori ed editori, i quali altra ricchezza non hanno che l’appoggio dei politici, anzi di una sola politica, quella dei sinistrorsi di ogni sfumatura, carminio, rosso scarlatto, rosa, rosaceo, malva, cinabro, solferino, nonché dei grossi capitalisti che gli sono alleati, i quali altro interesse non hanno che ridurre l’arte a un fatto industriale, qualunque arte è diventata cosa, bigia, tetra, miserabile».3 Parole amare, dietro le quali si capisce come la Rusconi fosse pronta a ospitare lo scrittore, prima col suo saggio più provocatorio e polemico, La conquista del Sud (1972), poi con un romanzo nuovo e anche la riproposta de L’alfiere (1974), l’ultima della sua lunga e saltuaria presenza, e, infine, dei Soldati del re (1976).
È chiaro quindi che quel poco o quel tanto di favore editoriale che Alianello ha avuto negli anni maturi della sua vita nasceva soprattutto da un equivoco, perché i vinti che popolano i suoi testi non rappresentano tanto una felice ipotiposi realistica, creature di un demiurgo narrativo capace di penetrare dentro le psicologie più aliene, secondo la grande tradizione del romanzo ottocentesco cui comunque l’autore s’attiene, quanto proiezioni fantasmatiche del desiderio, icone di nostalgia ed exempla ficta di una storia tutta da riscrivere: la sua opera è permeata dalla questione meridionale in chiave antirisorgimentale – in modalità discreta però, come tenuta a freno, controllata –, da un profondo sentimento cristiano che assolve tutti i personaggi e da una forza descrittiva giocata su vari livelli, come si vedrà. Ne L’alfiere e ne L’eredità della priora in quegli anni si colse soprattutto la visione di un Risorgimento dalla parte dei vinti, e piacquero per questo, soprattutto contro il fiume di retorica dell’Italia unita perseguito ed enfatizzato al cubo dal fascismo. I rapporti tra letteratura e politica, in Italia, talvolta sono inestricabili, spesso fondati su labili equilibri, identità discusse, piaghe che paiono sanate e che, invece, di volta in volta, si riacutizzano. I centocinquant’anni della storia d’Italia lo dimostrano ancora oggi, con le due supposte verità che corrono parallele.
Se per qualche lustro le idee partigiane di Alianello sembrarono trovare vaghe corrispondenze e affinità, nonostante il sostrato cattolico, anche in alcune profonde asserzioni di Gramsci,4 l’ultima sua produzione, accesa di toni polemici e moralistici, rivela una radicalizzazione dei problemi, oltre che un uomo offuscato, chiuso in se stesso, rancoroso, incapace ormai di convogliare la rabbia, la nostalgia, o anche, sia detto, l’oggettivo riconoscimento di tante ingiustizie nell’illusoria pacificazione della letteratura.
Carlo Alianello nasce a Roma nel 1901 da una famiglia originaria della Lucania: il padre Antonio era di Missanello, un piccolo borgo in provincia di Potenza e la madre Luisa Salvia era di Tito.5 Sono i ricordi paterni e soprattutto quelli del nonno, ufficiale dell’esercito borbonico fedele fino all’ultimo al giuramento prestato al suo re, Francesco II, (proprio come il protagonista del romanzo in questione) a nutrire la vocazione di scrittore del giovane Alianello, soprattutto rispetto alla trilogia risorgimentale (L’alfiere, Soldati del re, L’eredità della priora). Poco invece influirono le ascendenze materne, tutte liberali (un fratello di Luisa, Ernesto Salvia, fu senatore del nuovo Stato).
La carriera militare del padre obbligò il giovane Carlo a frequenti spostamenti di luogo e di scuole. Fece le elementari a La Maddalena in Sardegna, la media inferiore a Firenze, dove frequentò anche assiduamente la congregazione mariana dei gesuiti cui rimase legato tutta la vita, il liceo e la facoltà di Lettere infine a Roma. Qui in un primo momento cercò di entrare nell’esercito, come il padre, ma non fu ammesso a causa di una rilevante miopia. Intraprese quindi la carriera di insegnante, con la consueta trafila burocratica del ruolo, prima in un liceo di Rieti, poi di Camerino, infine a Roma, dove in ultimo, prima della pensione, divenne ispettore del ministero della Pubblica istruzione. Contemporaneamente a questa attività, che svolse con lo zelo e il senso del dovere che gli erano congeniti, cominciò a scrivere per i giornali – da «Il Mondo» di Giovanni Amendola al «Corriere della Sera», «Il Messaggero» e altri –, a occuparsi di teatro e poesia e, negli otia, anche di pittura: poesie, drammi6 e quadri si trovano ora nel citato fondo Alianello.
Nel 1928 pubblica il primo libro, un saggio, Il teatro di Maurizio Maeterlinck, senza che dell’estenuato decadentismo dello scrittore belga, oggi ricordato soprattutto grazie a Debussy, si trovino tracce nella sua narrativa. Bisogna arrivare al dicembre del 1942 perché esca, da Einaudi, il romanzo L’alfiere. Se in seguito gliene verrà grande notorietà, sul momento gli frutta solo guai. Il regime fascista accusa il libro di disfattismo e condanna l’autore al confino, ma l’ordine non è eseguito, Alianello è difeso dal commissario repubblichino della casa editrice torinese, che la pensava diversamente e forse equiparava quei soldati del romanzo, fedeli fino all’ultimo ai Borboni, ai miliziani di Salò.
Nel 1945 è la volta di un altro saggio, Introduzione al Bruto I (Ed. Roma, Roma 1945), ma nel 1947 esce per Mondadori, nella collezione della «Medusa degli italiani», Il mago deluso. Profondamente intriso di religiosità, il romanzo racconta una storia di redenzione. Il protagonista, Massimo, insegnante di biologia all’università di C (non è difficile identificarvi Camerino), ateo convinto, finisce irretito in una strana compagnia dedita allo spiritualismo e a riti magici. Il premio Bagutta, probabilmente dovuto alla benevolenza di Bacchelli, appare oggi giustificabile solo come un’aperta, reattiva polemica allo strapotere politico-letterario di Pavese e Vittorini, tanto il romanzo appare debole sia psicologicamente che strutturalmente.7 Per fortuna nel 1952, ancora nella «Medusa degli italiani», con Soldati del re Alianello ritorna alla tematica risorgimentale, che costituisce il suo laboratorio di poetica più efficace per l’intreccio di memoria e di passione, di rabbia e di pietà. Sono tre racconti ambientati nella Napoli del 1848, durante i moti liberali contro il reazionario re Ferdinando II, moti che durarono un solo giorno e non scalfirono il trono poliziesco del monarca.
È inutile dire da che parte stia l’autore: è con i «cafoni», con i «lazzeroni», devoti al re contro la nobiltà patriottarda e la borghesia cinica e arrivista. Dei tre racconti il più significativo è l’ultimo, La matricola di Rocco Sminuzzo, una sorta di parabola che finisce con un processo divino, post-mortem: a essere processato e assolto è il mite popolano Rocco, fuciliere di guardia, costretto a sparare a uno studente che, insieme ad altri, lo derideva e cercava di disarmarlo. Alcuni critici troppo di parte hanno visto in questo apologo un’anticipazione della celebre poesia di Pasolini, contro gli studenti sessattontini «figli di papà» e in favore dei poliziotti «figli di poveri». Un’interpretazione che mi sembra, però, dare troppo credito a un testo che costituisce un esile quanto esemplare gioco demistificatorio delle parti.
Nel 1955 è di nuovo l’ispirazione cattolica a dettare il tema del nuovo romanzo, Maria e i fratelli, che rivisita la storia dell’amatissima Madonna, di Giuseppe e infine di Gesù, dalla nascita alla condanna, alla morte sul Golgota, con un Ponzio Pilato in crisi che sembra uscito da un film di Cecil De Mille. A pubblicarlo stavolta è Vallecchi, che continuava a ristampare con immutato successo Vita di Cristo di Papini e di costui aveva appena pubblicato Il diavolo (1953). Certamente nulla collega la vis polemica dello scrittore fiorentino, rozza e fastidiosa, al tono compunto, solenne e un po’ sagrestiale di Alianello.8 Di fatto, la sua narrazione evangelica non piacque e non interessò neppure i credenti; tuttavia, caparbio, lo scrittore ritentò nuovamente il tema religioso nel 1966, sempre con la stessa casa editrice ormai svenduta. Nascita di Eva sortì un esito peggiore del precedente, nonostante l’autore nel frattempo fosse diventato molto noto e apprezzato, grazie allo sceneggiato televisivo del 1956 e la pubblicazione, presso Feltrinelli, de L’eredità della priora (1963), terzo pannello del trittico risorgimentale, indubbiamente il suo romanzo più articolato e complesso.
Tutta la narrativa di Alianello si fonda su questi due nuclei mitopoietici, entrambi legati alla fedeltà e alla nostalgia. Il primo, quello del Risorgimento, gli preesisteva nella memoria familiare; il secondo, quello religioso, risaliva a un episodio dell’infanzia fiorentina dettagliatamente descritto nel suo testo autobiografico.9 Il primo gli ha procurato anche qualche soddisfazione perché, sapientemente raccontato, è stato in seguito anche ben accolto dal pubblico, proprio in quanto consentaneo a una revisione politico sociale della storia patria, successiva ai tanti trionfalismi culminati – secondo Alianello – nel 1961, con la mostra torinese del centenario (e L’eredità, in tal senso, ne è la risposta immediata). L’altro invece fu per lui una continua fonte di cruccio, non perché, come egli amava pensare, «troppo religioso per i laicisti e troppo laico per i cattolici», ma perché convenzionale, oleografico come un santino, privo di quelle nervature psicologiche e filosofiche presenti in altri scrittori cattolici più o meno contemporanei, come Luigi Santucci o Mario Pomilio, per non citare il più inquieto e «perverso» Giovanni Testori. Tanto è vero che neppure i dirigenti della Rusconi, Alfredo Cattabiani o chi per lui, negli anni Settanta, pensarono di recuperare i tre romanzi del suddetto nucleo.
L’eredità della priora, pubblicato dalla Feltrinelli nel 1963 (con ristampa in economica nel 1966) è, come del resto L’alfiere, un grande romanzo storico, che esce in una fase particolare dell’Italia del miracolo economico, quando si accentua enormemente il divario tra un nord sempre più industrializzato e un sud sempre più disertato: abbandono delle campagne, dei paesi privi di risorse, emigrazione di massa verso il triangolo d’oro. Un’emigrazione che ha così ben descritto il cinema di quegli anni, e mi riferisco in particolare a Rocco e i suoi fratelli di Visconti (1960), i cui personaggi, ricordo, vengono dalla Lucania. Il cinema entra in modo significativo anche nell’attività di Alianello, che fu un abile sceneggiatore cinematografico (oltre che televisivo, per le sue opere), partecipando alle scritture, tra l’altro, di Senso (1954) di Visconti e di Viva l’Italia (1961) di Rossellini. Indubbiamente ne L’eredità della priora l’es...

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Alianello, Carlo. (2011) 2011. L’alfiere. [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3299034/lalfiere-pdf.

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Alianello, C. (2011) L’alfiere. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3299034/lalfiere-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Alianello, Carlo. L’alfiere. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2011. Web. 15 Oct. 2022.