All'origine della pretesa cristiana
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All'origine della pretesa cristiana

Volume secondo del PerCorso

Luigi Giussani

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All'origine della pretesa cristiana

Volume secondo del PerCorso

Luigi Giussani

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In questo secondo volume del suo PerCorso, don Giussani mostra il passaggio dal senso religioso in generale all'avvenimento di Gesù Cristo, cioè all'esperienza religiosa cristiana. Dopo un'introduzione in cui si riepilogano gli aspetti salienti della riflessione sul senso religioso, l'Autore aiuta a rendersi conto di come l'uomo in tutti i tempi abbia sentito la necessità di mettersi in rapporto con il mistero ultimo, mediante tentativi che hanno fatto nascere le varie religioni. L'impossibilità a raggiungere chiarezza e sicurezza ha fatto sentire all'uomo l'urgenza o la necessità di un aiuto offerto dallo stesso mistero, cioè di una rivelazione. In un certo momento storico un uomo, Gesù di Nazareth, ha identificato se stesso con il divino.Come questo avvenimento abbia iniziato a imporsi all'attenzione degli uomini; come abbia creato una chiara convinzione; in che modo abbia comunicato il mistero della sua persona; come abbia confermato il suo svelarsi con una concezione nuova e perfetta della vita umana: tutto ciò è il contenuto di questo volume.

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Information

Publisher
BUR
Year
2013
ISBN
9788858645000

All'origine della pretesa cristiana

PREFAZIONE

«Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo,
Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo,
Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato. Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo, Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo;
Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce;
Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via.»
T.S. Eliot, Cori da «La Rocca»


Questa è la modalità con cui il messaggio cristiano è stato trasmesso dalla tradizione fino ai giorni nostri. La mia intenzione è quella di richiamare la profonda ragionevolezza dell’affermazione di Eliot e dell’annuncio cristiano così come si è espresso originariamente. Il criterio guida di tutto il libro è l’obbedienza all’autentica tradizione della Chiesa, all’intera tradizione ecclesiale.
Questo volume, come del resto la trilogia del PerCorso, intende esemplificare le modalità secondo le quali si può aderire coscientemente e ragionevolmente al cristianesimo, tenendo conto dell’esperienza reale. In particolare, All’origine della pretesa cristiana è il tentativo di definire l’origine della fede degli apostoli. In esso ho voluto esprimere la ragione per cui un uomo può credere a Cristo: la profonda corrispondenza umana e ragionevole delle sue esigenze con l’avvenimento dell’uomo Gesù di Nazareth. Ho cercato quindi di mostrare l’evidenza della ragionevolezza con cui ci si attacca a Cristo, e quindi si è condotti dall’esperienza dell’incontro con la sua umanità alla grande domanda circa la sua divinità.
Non è il ragionamento astratto che fa crescere, che allarga la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta. È la grande inversione di metodo che segna il passaggio dal senso religioso alla fede: non è più un ricercare pieno di incognite, ma la sorpresa di un fatto accaduto nella storia degli uomini – come Eliot descrive con poesia insuperabile – . Questa è la condizione senza la quale non si può neppure parlare di Gesù Cristo. Su questa strada, invece, Cristo diventa familiare, quasi come il rapporto con la propria madre e con il proprio padre, nel tempo, diventa sempre più costitutivo di sé.
A questo libro tengo particolarmente, perché esprime le ragioni di una fede consapevole e matura. Rileggendolo, per una nuova pubblicazione, ho voluto apportare – senza modificarne in alcun modo la struttura e l’impianto originari – alcune modifiche per renderlo ancora più vicino al lettore di oggi.
L. G.
Milano, luglio 2001

INTRODUZIONE

Nell’affrontare il tema dell’ipotesi di una rivelazione e della rivelazione cristiana, nulla è più importante della domanda sulla reale situazione dell’uomo. Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono «io» e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome.

1. Il fattore religioso e la vita

Affrontare il cristianesimo significa affrontare un problema pertinente al fenomeno religioso. Non considerare il cristianesimo in modo comunque riduttivo dipende dalla comprensività e completezza con cui uno percepisce e considera il fatto religioso come tale.
Se, perciò, il mio scopo è quello di situare l’emergenza del cristianesimo, è utile recuperare alcuni aspetti decisivi del senso religioso in generale. In che cosa consiste il senso religioso o la dimensione religiosa dell’esistenza? In che cosa consiste il contenuto dell’esperienza religiosa?
Il senso religioso altro non è che quella natura originale dell’uomo per cui egli si esprime esaurientemente in domande «ultime», cercando il perché ultimo dell’esistenza in tutte le pieghe della vita e in tutte le sue implicazioni.1 È nel senso religioso quindi l’espressione adeguata di quel livello della natura in cui la natura diventa coscienza del reale tendenzialmente secondo la totalità dei suoi fattori; ed è a questo livello che la natura può dire «io», riflettendosi in tale parola potenzialmente tutta la realtà. San Tommaso diceva: Anima est quodammodo omnia (l’anima è in qualche modo tutto).2
In tal senso la dimensione religiosa coincide con la dimensione razionale e il senso religioso coincide con la ragione nel suo aspetto ultimo e profondo. Il cardinal Montini in una sua lettera quaresimale definì il senso religioso come la «sintesi dello spirito».3 Tutti gli impeti con cui l’uomo è spinto dalla sua natura, perciò tutti i passi del moto umano – moto dunque cosciente e libero –, tutti questi passi, cui lo slancio originale induce l’uomo, sono determinati, resi possibili e realizzati in forza di quell’impulso globale e totalizzante che è il senso religioso. Esso coincide, dunque, con l’urgenza di un raggiungimento totale e di una esauriente completezza e si colloca, nascosto ma determinante, dentro ogni dinamismo, dentro ogni movimento della vita umana, la quale risulta perciò progetto sviluppato da quell’impeto globale, dal senso religioso.

a) Una nota sulla parola «Dio»

Lungo il percorso della religiosità umana la parola «Dio» segna l’oggetto proprio di questo desiderio ultimo dell’uomo, come desiderio di conoscenza dell’origine e del senso esauriente dell’esistenza,4 del senso ultimo implicato in ogni aspetto di quel che è vita. «Dio» è il «ciò» di cui ultimamente tutto è fatto, è il «ciò» cui finalmente tutto tende e in cui tutto si compie. È insomma ciò per cui la vita «vale», «consiste», «dura».
Non si può domandare che cosa rappresenti la parola «Dio» a chi in Dio dice di non credere. È qualcosa che occorre sorprendere nell’esperienza di chi quella parola usa e vive seriamente. Un aneddoto a questo proposito risale all’epoca in cui insegnavo in una scuola superiore. In una determinata stagione teatrale era stato rappresentato al Piccolo Teatro di Milano Il diavolo e il buon Dio di Jean-Paul Sartre. Rammento che alcuni studenti, particolarmente colpiti dall’opera, venivano a scuola ripetendo con aria sardonica certe battute riferite a Dio. Io facevo notare loro, molto tranquillamente, che quello che in quel momento stavano deridendo era il dio di Sartre, vale a dire un dio per me inattendibile, che non coincideva per nulla con ciò in cui io credevo. Li esortavo semmai a riflettere se per caso quello rappresentato a teatro non fosse invece il «loro» dio o eventualmente il modo con cui era loro di fatto possibile pensare Dio.

b) Una nota sulla domanda che apre una ricerca attenta

Dio, in quanto oggetto proprio ed esauriente della fame e della sete umane, dell’esigenza costitutiva della coscienza e della ragione, è sì una presenza perennemente incombente sull’orizzonte umano, ma si situa pur sempre al di là di esso. E quanto più l’uomo spinge l’acceleratore della sua ricerca tanto più questo orizzonte retrocede, si sposta. È questa un’esperienza così strutturale che se noi ipotizzassimo l’esistenza di un essere umano sul nostro pianeta tra un miliardo di secoli dovremmo dire che la questione gli si porrebbe al fondo tale e quale, pur nella imprevedibile diversità delle sue condizioni di vita.
Questa imperitura situazione di sproporzione e di inarrivabilità facilita l’insorgere nella coscienza dell’ idea di mistero, la consapevolezza cioè che l’oggetto proprio e adeguato all’esigenza esistenziale è incommensurabile con la ragione come «misura», con la capacità di misura che l’esigenza stessa ha. L’oggetto cui l’uomo tende non è riconducibile a nessun raggiungimento, a nessun traguardo cui egli possa arrivare. Tale inarrivabilità, quanto più l’uomo cammina, tanto più, anziché ridursi via via, diventa evidente, così che solo nell’uomo «ignorante» c’è la presunzione di arrivare. Se uno «non ignora» se stesso in rapporto al reale, se uno è «cólto» nel senso profondo della parola, cioè attento ricercatore, si trova a dover fronteggiare la drammatica sproporzione che è stata descritta.

2. La vertiginosa condizione umana

Guardiamo più attentamente la situazione esistenziale in cui l’uomo si trova a vivere. Quel «Dio», quella realtà per cui ultimamente val la pena vivere, come abbiamo visto, è ciò di cui ultimamente la realtà è fatta e al cui manifestarsi continuamente si protende. Io, uomo, sono costretto a vivere tutti i passi della mia esistenza dentro la prigionia di un orizzonte sul quale una grande Incognita incombe, irraggiungibile.
E la cosa è tanto più drammatica quanto più io sono consapevole. Perché, se la stupidità suprema è quella di vivere distratti, è evidente che per gli stupidi i problemi a questo riguardo diminuiscono. Io, dunque, in piena consapevolezza, sono costretto dalla mia condizione esistenziale a compiere dei passi verso quel destino cui in me tutto tende senza però conoscerlo. So che esiste, perché ciò è implicato nel mio stesso dinamismo, e so che quindi tutto in me dipende da esso. Il senso umano, il gusto di ciò che provo, che approvo o a cui approdo dipende da quel destino, ma esso resta un ignoto. L’uomo consapevole realizza così che il senso della realtà, vale a dire ciò cui la ragione tende, è una «x» ultimamente non comprensibile e che non può essere rinvenuta nella capacità di memoria della ragione. È fuori. La ragione al suo vertice può giungere a coglierne l’esistenza, ma una volta raggiunto questo vertice è come se essa venisse meno, non può andare oltre. La percezione dell’esistenza del mistero rappresenta il vertice della ragione. Ma, pur in questa sua impossibilità di arrivare a conoscere ciò di cui intuisce l’esistenza e che massimamente la concerne – si tratta infatti del senso delle cose, interesse di ogni interesse –, la ragione mantiene la sua struttura d’esigenza conoscitiva: vorrebbe conoscere il destino suo. È vertiginoso essere costretti ad aderire a qualcosa che non si arriva a conoscere, che non si riesce ad afferrare. È come se ogni mio essere fosse sospeso a qualcuno che mi sta alle spalle e il cui viso mai io potessi vedere. «Conosci tu l’assenza più potente della presenza?», diceva Schweitzer all’infermiera nel dramma di Gilbert Cesbron È mezzanotte dottor Schweitzer.5
È una condizione vertiginosa dover obbedire a qualcosa di cui intuisco la presenza, ma che non vedo, non misuro, non possiedo. Il destino, infatti, o l’ignoto, convoca a sé la mia vita attraverso le cose, il condensarsi provvisorio ed effimero delle circostanze, e l’uomo ragionevole, pur privato della possibilità di una misurazione e di un possesso di quell’ignoto, è chiamato comunque a una attività, che consiste, innanzitutto, nel prendere atto della sua condizione e, in secondo luogo, nell’aderire realisticamente, circostanza per circostanza, alle emergenze esistenziali, senza poter tuttavia vedere l’intelaiatura che tutto regge, il disegno in cui si modella il significato. Quando nel Vecchio Testamento l’oracolo di Dio diceva: «Le mie vie non sono le vostre vie e i miei pensieri non sono i vostri pensieri»,6 richiamava gli Israeliti proprio a questa sproporzione che esistenzialmente non può non risultare esperienza di contraddizione. L’uomo si sente uno che cammina verso l’ignoto, aderendo a ogni determinazione, a ogni passo secondo le circostanze che gli si pongono come sollecitatrici inevitabili, ma alle quali egli, proprio perché le riconosce tali, dovrebbe dire sì con tutte le risorse della sua mente e del suo cuore senza «capire»: una precarietà assoluta, vertiginosa. A essa l’uomo finisce col non resistere, anche ammettendo che si possa cristallizzare un teorico istante in cui egli riesca a prendere una posizione di adesione a quell’ignoto che lo conduce. L’uomo coglie nell’attimo la sua condizione vertiginosa, misura la sua sproporzione. Ma il ricordo di questa sua lucidità non dura. Questo attimo «filosofico» di percezione della sproporzione tra l’umano e il senso esauriente delle cose è ben esemplificato dalle espressioni che Platone usa nel Timeo parlando dell’Artefice dell’universo: «Ma il Fattore e il Padre di q...

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