L'ultima legione
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L'ultima legione

Valerio Massimo Manfredi

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L'ultima legione

Valerio Massimo Manfredi

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Anno Domini 476. Il re barbaro Odoacre depone l'ultimo imperatore romano, il tredicenne Romolo Augustolo, confinandolo a Capri. Il sipario cala definitivamente sulla civiltà di Roma. Ma non tutto è perduto. Un pugno di legionari sembra risorgere dal campo di battaglia: Rufio Elio Vatreno, veterano di infinite battaglie, Cornelio Batiato, gigante etiope dalla forza smisurata, e il comandante Aurelio, il più leale e coraggioso. Insieme a Livia Prisca, una formidabile guerriera, sono decisi a tutto pur di liberare Romolo Augustolo e il suo precettore Meridius Ambrosinus. Una volta riusciti nella loro impresa, ha inizio così una caccia all'uomo senza esclusione di colpi, una lotta disperata in cui l'intelligenza, le astuzie, il coraggio di quattro soldati proteggeranno e guideranno l'ultimo Cesare; una fuga a perdifiato attraverso un'Italia e un'Europa devastate e drammaticamente affascinanti, fino all'ultimo approdo, fino all'ultima resa dei conti in un luogo desolato agli estremi confini del mondo. Dove, dalle ceneri di un mondo che si era creduto immortale, sorge un nuovo mito, destinato a varcare i millenni.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852010637

PARTE TERZA

XXVI

Wulfila e i suoi spuntavano in quel momento alle spalle di Livia: disposti in vasto arco si slanciavano contro Aurelio e i suoi dalla cima del colle.
Livia si voltò, li vide e capì. «Non vi ho tradito» gridò. «Mi dovete credere! Presto, salite qui e montate a cavallo, presto!»
«È vero» gridò Ursino. «Questa ragazza voleva aiutarvi. Muovetevi, su, salite fin qua!»
Aurelio e gli altri, senza riuscire ancora a capire che cosa fosse successo, né perché Livia si trovasse in quel luogo seguita a breve distanza dai loro nemici più implacabili, s’inerpicarono per l’ultima salita e si trovarono sul falsopiano sottostante la cima del colle da cui scendevano, affondando nella neve alta, i cavalieri di Wulfila. Erano almeno una cinquantina. «Gli altri sono al valico» gridò Ursino. «Non potete scendere dalla parte della strada!»
«E laggiù ci sono anche i mercenari di Stefano» gridò Livia. «È lui che mi ha fatta seguire senza che me ne accorgessi!»
In quel momento Stefano, vista l’impossibilità di dare corso al suo piano, si stava allontanando verso la strada per riunirsi ai suoi mercenari. Livia sfilò l’arco dalla sella, tirò e lo prese in pieno a cento passi di distanza, in mezzo alla schiena. Poi saettò contro i suoi uomini che stavano salendo dal bosco costringendoli a cercare riparo in mezzo alla vegetazione: avevano visto cadere il loro capo ed erano in preda alla confusione.
Ursino indicò il fianco occidentale del colle. «Quella è l’unica via di scampo» gridò, «ma corre lungo un precipizio e la neve può essere ghiacciata, dovete fare attenzione. Andate, andate, presto, di là.»
Livia si lanciò per prima guidando la colonna, ma Wulfila, dalla sommità del colle, intuì la mossa e ordinò a una parte dei suoi cavalieri di muoversi in quella direzione. «Ricordatevi!» urlava. «Voglio la testa del ragazzo e voglio quella spada, a tutti i costi! È quel soldato laggiù, quello con il cinturone rosso!»
Vatreno intanto si era lanciato dietro a Livia e così pure Aurelio, Batiato e gli altri. La via sembrava sgombra e tutti spronavano le loro cavalcature per attraversare al più presto il tratto più pericoloso che terminava verso ovest con un ciglione a precipizio su un baratro. Cercavano di tenersi il più possibile a mezza costa, e dietro di loro anche Ambrosinus incitava più che poteva la sua mula. Aurelio percepiva l’estrema vulnerabilità di quella piccola colonna in marcia e spinse Juba ancora più in alto per dominare meglio la situazione. Proprio in quell’attimo, sbucarono dal crinale, in una nube di neve polverizzata, Wulfila e i suoi con le spade sguainate.
Il barbaro gli fu addosso in un lampo, lo urtò con il cavallo e lo fece cadere a terra, poi gli volò addosso e i due cominciarono a capitombolare verso il basso avvinghiati in un inestricabile groviglio di membra anchilosate dall’odio e dalla neve ghiacciata. In quei movimenti incontrollati, in quel rovinare a valle, la spada di Aurelio si sfilò dalla guaina e cominciò a scivolare lungo il declivio. La caduta dei due guerrieri si fermò contro uno scoglio roccioso che emergeva dalla coltre di neve, le mani strette ai polsi l’uno dell’altro, ansimanti. Wulfila era di sopra, gli occhi si fissarono negli occhi e il barbaro ebbe la folgorazione che da tanto tempo attendeva per quel momento cruciale. «Ti riconosco finalmente, Romano! Ne è passato del tempo, ma tu non sei cambiato abbastanza! Sei quello che ci ha aperto le porte di Aquileia!»
Il volto di Aurelio si contrasse in una maschera di dolore. «No!» urlò. «No! Noooo!» E il suo urlo fu moltiplicato dall’eco sulle pareti ghiacciate dell’Alpe. Nello stesso istante egli reagì come invasato da una forza spaventosa, puntò le ginocchia contro il petto del nemico e lo catapultò all’indietro. Poi ruotò sul fianco per rimettersi in piedi e si trovò a poca distanza Ambrosinus, che era caduto e tentava in ogni modo di non scivolare verso il baratro. I loro sguardi s’incontrarono per un solo istante, ma fu sufficiente ad Aurelio per rendersi conto che l’altro aveva udito e perfettamente compreso. Si riscosse, e prese ad arrancare su per il pendio per aiutare i suoi amici già impegnati in un furioso combattimento. Udiva i ruggiti di Batiato che afferrava i nemici, li alzava sopra la testa e li scaraventava in giù, verso il precipizio, e le imprecazioni di Vatreno che affrontava con due spade in mano due nemici per volta, affondato nella neve fino al ginocchio.
Si alzò finalmente in piedi e portò la mano alla spada per lanciarsi nella mischia a cercarvi, forse, la morte, ma con disappunto trovò soltanto il fodero vuoto. In alto, in quel momento, un altro drappello di cavalieri, quelli che provenivano dal valico, irruppe sulla vetta del colle e attraversò tutta la radura per poi discendere ancora, obliquamente e in direzione opposta per evitare il pendio troppo ripido. Quel movimento così netto e trasversale tagliò in due la spessa coltre nevosa della cima che cominciò a scivolare a valle, diventando sempre più vasta e più spessa, finché investì in pieno Vatreno e Batiato, che combattevano in posizione più avanzata, e poi tutti gli altri, compreso Romolo.
Demetrio e Orosio avevano tentato fino a quel momento di ripararlo con gli scudi dalla pioggia di frecce e giavellotti dei nemici che cercavano in ogni modo di colpirlo per ucciderlo, ma l’impatto della valanga li scaraventò all’indietro senza che potessero in alcun modo aiutare il ragazzo. Anche i cavalli, che offrivano una massa assai maggiore all’impatto, vennero travolti e trascinati verso il burrone.
Wulfila, intanto, aveva continuato a scivolare, cercando in ogni modo di rallentare la sua caduta, affondando le mani nella neve, spezzandosi le unghie e spellandosi le mani, finché era riuscito ad arrestarsi serrando le dita su una protuberanza rocciosa. Penzolava ora per metà nel vuoto mentre le mani gli s’indurivano per il freddo, non obbedivano più alla sua volontà di sfuggire alla morte, di issarsi in salvo sul ciglio. Sentiva prossimo il momento in cui il morso del gelo lo avrebbe costretto a lasciare la presa quando, a poca distanza, vide la spada fantastica scivolare anch’essa verso il baratro: aveva ormai esaurito la sua spinta ma continuava a scendere, a scendere, sempre più lentamente ma sempre più vicina all’orlo del burrone, la vide sporgere all’infuori con più di metà della lama, pencolare oscillando e infine, miracolosamente, fermarsi. Il peso dell’impugnatura massiccia l’aveva ancorata al suolo all’ultimo istante.
Quella vista fu per Wulfila come una sferzata: inarcò la schiena e con un urlo selvaggio chiamò a raccolta tutte le forze del suo gran corpo, issandosi fino a puntare i gomiti sul ciglio ghiacciato, poi un ginocchio, poi l’altro. Era salvo. E in piedi. Si avvicinò lentamente alla spada, rendendosi conto che la minima vibrazione del terreno o soltanto dell’aria, avrebbe potuto farla cadere, finché fu a pochi passi di distanza. Allora si appiattì al suolo, allargando le gambe e piantando le punte dei calzari nella neve come ancoraggio, e protese la mano in avanti fino a ghermire il manico della spada e a stringerlo trionfalmente nel pugno. Si alzò in piedi puntandola verso il cielo burrascoso, e il suo urlo di vittoria perforò le nubi e urtò i picchi incrostati di ghiaccio risuonando a lungo nelle valli boscose. Poi arrancò fino a raggiungere il drappello che poco prima aveva provocato la valanga e uno degli uomini gli passò immediatamente il suo cavallo. Il tempo peggiorava e la luce scemava a ogni istante.
«È buio, ormai» disse ai suoi uomini. «Torneremo domani. Tanto hanno perso i cavalli, e se anche qualcuno si è salvato non può certo andare lontano. Domani comunque chiuderete tutti i passaggi a valle, a nord e a sud del valico: non voglio che sfugga nessuno. Poi con la luce cercheremo i corpi. Voglio la testa del ragazzo e il primo di voi che me la porta avrà una grossa ricompensa.» Fece loro cenno di seguirlo e tutti insieme presero a scendere per raggiungere la stazione di sosta sul valico.
Cominciava a nevicare, a piccoli cristalli appuntiti come aghi che foravano il viso e le mani. Poi il nevischio pungente si tramutò in fiocchi sempre più grandi e fitti che danzavano vorticosamente attorno alle sagome dei cavalieri che scendevano simili a spettri la collina macchiata di sangue e disseminata di corpi esanimi. Fra essi Wulfila vide anche quello di Stefano, trafitto alla schiena da un dardo che lo aveva passato da parte a parte e che l’uomo aveva cercato di strapparsi dal corpo nell’ultimo spasimo dell’agonia. “La fine che meritavi” pensò, e proseguì abbassando la testa e stringendosi il mantello attorno alle spalle per difendersi dalla bufera.
Entrarono nella mansio riscaldata da un bel fuoco scoppiettante di legna di pino e si sedettero su una panca mentre il taverniere arrostiva un montone allo spiedo e serviva brocche di birra e forme di pane. Nonostante il dolore per le ferite, Wulfila era al sommo dell’euforia. Dal fianco gli pendeva l’arma più formidabile che avesse mai potuto desiderare e la sua vittima giaceva ormai rigida sotto una spessa coltre di neve. Mozzargli la testa sarebbe stato ancora più facile, come spezzare una stalattite di ghiaccio.
«Voi» disse indicando il gruppo che gli stava seduto di fronte, «appena farà giorno scenderete dalla strada fino a raggiungere il fiume che scorre a fondovalle e bloccherete il ponte, che è l’unico passaggio verso il territorio retico. Voi invece» e si volse verso il gruppo seduto alla sua destra, «voi tornerete indietro per questa strada fino a trovare un sentiero che porta allo stesso ponte ma procedendo da ovest. Avrete una guida e non potrete perdervi. In questo modo non sfuggirà nessuno. Voialtri» e indicò quelli seduti alla sua sinistra, «tornerete con me lassù a cercare i cadaveri. E come ho già detto, qui c’è una borsa d’argento per il primo che trova la carcassa del ragazzo e gli spicca la testa dal busto. E ora mangiamo e beviamo e stiamo allegri, perché la sorte ci è stata benigna.» Alzò il boccale colmo e tutti lo acclamarono: esultanti per la vittoria conseguita, presero a bere ingurgitando incredibili quantità di birra e scandendo ogni bevuta con rutti fragorosi.
Juba si rimise dritto sulle zampe con uno sforzo poderoso, scrollandosi di dosso la neve e soffiando una densa nube di vapore dalle froge orlate di brina. Sbuffò, scuotendo la criniera, e nitrì sonoramente chiamando il suo padrone, ma il luogo era deserto e l’oscurità scendeva con il silenzio della sera sul vasto campo di neve sconvolto dalla valanga. Cominciò a percorrerlo al passo, ancora sbuffando di tanto in tanto e agitando la coda finché, d’un tratto, si fermò e cominciò a raspare con gli zoccoli, piano, rimuovendo la neve un poco per volta, finché apparve la schiena del suo padrone e poi il collo, che il cavallo cominciò a lambire con il muso soffiando vapore caldo sulla nuca dell’uomo semisvenuto. Quel contatto tiepido e delicato infuse ad Aurelio, rattrappito dal gelo, un poco di energia. A fatica e lentamente riuscì a puntare le mani e i gomiti, poi si alzò sulle ginocchia mentre Juba nitriva sommessamente, come se volesse approvare quegli sforzi, finché fu in piedi davanti a lui e lo abbracciò. «Buono, Juba, buono, lo so che sei bravo, lo so. E adesso aiutami a tirare fuori gli altri, su.» Poco distante apparve, come materializzata dal nulla, la mula di Ambrosinus, e Aurelio si ricordò degli scudi che portava appesi al basto. Ne staccò uno e cominciò a scavare usandolo come una pala da neve. Ben presto urtò contro il petto di Vatreno, che emise un lamento.
«Sei tutto intero?» gli chiese Aurelio.
«Credo di sì» brontolò Vatreno. «Soprattutto se la smetti di zapparmi la pancia con quell’arnese.»
Dall’altra parte del pendio, in direzione della strada, risuonò un uggiolio e subito dopo apparve Ursino, con il suo cane, arrancando a fatica. L’uomo si presentò ai due soldati dicendo: «Sono io che ho ospitato Livia e posso aiutarvi: il mio cane è addestrato a cercare gente sotto le valanghe. Non c’è molto tempo: se cala la notte è finita».
«Ti ringrazio» rispose Aurelio. «Per favore, aiutaci.»
L’uomo annuì e lanciò il suo cane alla ricerca. «Su, Argo, su, cerca, cerca i nostri amici, dài… Si chiama Argo» spiegò ad Aurelio già indaffarato a spalare con lo scudo, «come il cane di Ulisse. Non è un bel nome?»
«Altro che» commentò Vatreno. «Ha un nome bellissimo. Speriamo che sia anche bravo.»
Ma il cane aveva già fiutato un’altra vita in pericolo e scavava freneticamente con le zampe anteriori.
«Scavate dove indica lui» ordinò Ursino. Aurelio e Vatreno obbedirono e tirarono fuori Ambrosinus livido e mezzo assiderato.
«Aiutateci, presto!» risuonò una voce alla loro destra, dalla parte del ciglione roccioso. Aurelio accorse stando bene attento a non scivolare lungo il pendio. Si trovò di fronte una scena impressionante: Orosio penzolava sull’abisso appeso a un tronco di pino proteso nel vuoto, Demetrio era attaccato al manico del suo pugnale conficcato nel ghiaccio, e Livia stava scivolando lungo il suo corpo fino a protendere le gambe verso le braccia di Orosio, che vi si attaccò. Livia cominciò allora a trascinarsi in su facendo forza sul cinturone di Demetrio, che si teneva aggrappato con tutte le forze al manico del pugnale. Aurelio capì che avrebbe potuto cedere da un attimo all’altro. Piantò a sua volta il pugnale nel ghiaccio e protese l’altra mano ad afferrare quella di Demetrio, che così poté fare più forza e si trascinò in avanti conficcando di nuovo l’arma in uno strato più compatto. La maggiore resistenza offerta dal nuovo ancoraggio e la maggior energia fornita da Aurelio impressero alla catena umana un moto decisivo che trascinò tutti a salvamento.
«Batiato?» domandò Aurelio.
«L’ultima volta che l’ho visto, rotolava giù per quel pendio avvinghiato a due nemici, o tre, non saprei. Vedrai che tornerà» rispose Demetrio.
«Se non l’hanno ammazzato» obiettò Aurelio.
«Se non l’hanno ammazzato» ripeté Demetrio. «Ma ne dubito.»
Un ...

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