Caro dottor Morelli,
vorrei sottoporle un quesito per me urgente. Conosco e leggo la sua rivista da tanto tempo, ho letto decine e decine di libri sulle filosofie orientali (quelle occidentali le ho studiate a scuola), pratico la meditazione yoga vipassana e, soprattutto, cerco di applicare alla vita di tutti i giorni gli insegnamenti che queste letture mi hanno dato, insieme alla psicoterapia che ho fatto in passato. Sono riuscita a superare i miei problemi più gravi, la bulimia e propensioni autodistruttive, e oggi sto abbastanza bene. Abbuffate e inclinazioni nichiliste sono solo un lontano ricordo. Anche nella sfera sentimentale sono riuscita ad accettare di non poter avere una relazione stabile e duratura, e non ne faccio un dramma. Vivo la vita come un flusso, senza domandarmi se ho raggiunto o meno le famose tappe obbligatorie: laurea, matrimonio, figli, una casa ecc.
Nel lavoro invece ho grandi difficoltà, che neanche tutto il mio cammino interiore è riuscito a scalfire. Le faccio un esempio calzante e recentissimo. Sono una promotrice finanziaria e due giorni fa ero a Milano per la convention annuale. Era stato invitato Fabio Capello che, come era prevedibile, ha tenuto un intervento su come “essere vincenti”.
Naturalmente, tutti gli incontri a cui partecipo hanno lo stesso tema, dato che lavoro in un’azienda che deve vendere e guadagnare; quindi questa non è un’accusa contro l’allenatore.
Si è parlato di lotta, di “tener duro”, di andare diritti alla meta, di non cedere mai, di avere obiettivi sempre e comunque più ambiziosi, di considerarsi al di sopra degli altri… Tutto questo è agli antipodi rispetto a quello che insegnano il Buddha, il Tao, e ogni altro Saggio. Io mi sento squartata dentro: da una parte questi insegnamenti che mi sono consoni, e che hanno dato sollievo alla mia perenne angoscia, dall’altra la crudezza della realtà, l’impellenza delle bollette da pagare e dei soldi per vivere onestamente! Non riuscirò mai a essere un “bravo venditore” come la società pretende da me, e mi chiedo: c’è in questo caso una via di mezzo, una soluzione intermedia, o qualcos’altro che non conosco? Si può vivere in questa società materialista, consumista e truffaldina, coltivando il vuoto, la cedevolezza, e meditando? Per poter essere “cedevole”, devo necessariamente rinunciare a un certo tipo di lavoro? Può la motivazione non essere solo quella economica? Un manager può essere zen?
Spero di essermi espressa chiaramente. Il problema è ampio e molto diffuso, mi creda. La prego di rispondermi, perché tengo molto a quello che lei può pensare al riguardo.
La ringrazio anticipatamente. Con affetto,
Raffaella
Sa, cara Raffaella, che cosa ho imparato più di tutto in questi anni?
A ridurre lo sforzo, la fatica. Quando faccio qualcosa, quando mangio, quando guido, quando scrivo un articolo, quando sono in aereo, in treno, non sempre, ma a volte mi soffermo sulla mia presenza interiore; la ascolto, la osservo, la percepisco. E così mi accorgo se sto facendo fatica, se sto lottando. Se avverto che mi sto sforzando per realizzare i miei gesti, rallento… Mi dico: “Raffaele, stai facendo troppo sforzo!”. Tutto qua.
C’è poi un’altra cosa che faccio: sono presente, immerso, preso, assorbito, incantato dalle “azioni minime”, sì, quelle azioni che in genere riteniamo banali; quando bevo il caffè, per esempio, io sono lì, solo lì. Non lo faccio sempre (la parola “sempre” si è allontanata dal mio vocabolario), ma quando sento che i pensieri stanno prendendo il sopravvento, io mi tuffo, mi immergo nelle azioni. Guardo la mia mano che scrive, la penna che scorre sul foglio, e sento dilatarsi la mia presenza interiore; sono totalmente assorto, rapito dal gesto. Non mi ritiro, amica mia, e neppure penso che serva, in meditazione. Non mi chiedo se il mondo è buono o cattivo, no, io porto l’attenzione sul mio gesto.
Così facendo, un giorno, mentre guidavo il più in fretta possibile per assistere un amico morente, ho sentito una pace, una tranquillità, una serenità che forse non avevo mai sperimentato.
Sono arrivato in ospedale, e il mio amico era fuori pericolo… Non so se il mio “stato tranquillo” è servito alla sua guarigione, ma so che nel mio interno la serenità sgorga spontaneamente ogni volta che sono immerso nell’azione. Per me non c’è quasi più una meta da raggiungere, non ci sono più obiettivi che mi prefiggo. No, ci sono le cose che sto facendo e il mio essere immerso in loro: è il più potente antidepressivo che esista.
Secondo il Saggio chassidico Baal Shem Tov, tutti i gesti, anche i più piccoli e insignificanti, se compiuti in uno stato di coscienza in cui si è presenti a se stessi e con la mente vuota, racchiudono una speciale essenza spirituale.
Scrive Baal Shem Tov: “La più alta cultura dell’anima resta fondamentalmente arida e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta loro, non sgorghi, giorno dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima”.1
Sono le “azioni minime” che cambiano la nostra vita.
Si ammala chi crede che debba arrivare “una svolta”, o chi passa il tempo a rimuginare sulla sua vita sbagliata, oppure a pensare, come fa lei cara Raffaella, che dobbiamo conciliare teoria e pratica, affari e buddhismo, business e Zen.
Non c’è da diventare un buon venditore, un buon manager o un uomo d’affari realizzato. No, c’è soltanto da essere immersi in quello che si sta facendo e poi, sarà quel che sarà.
Friedrich Nietzsche a questo riguardo afferma: “L’uomo non è la conseguenza di una sua propria intenzione, di una volontà, di uno scopo, con lui non si tenta di raggiungere un ‘ideale di uomo’ o un ‘ideale di felicità’ o un ‘ideale di moralità’, è assurdo voler fare rotolare il suo essere verso un qualsiasi scopo. Noi abbiamo inventato il concetto di ‘scopo’: nella realtà lo scopo manca… Si è necessari, si è un frammento di destino, si appartiene al Tutto, si è nel Tutto…”.2
Non avere mai un secondo pensiero
Se vogliamo tradurre in immagini il concetto di “azioni minime”, possiamo rifarci al grande pittore olandese del XVII secolo Jan Vermeer.
Vermeer dipinge le “azioni minime”: una donna che ricama, una che cuce, una che versa il latte, una che scrive una lettera… Pochi quadri, capolavori, ma c’è qualcosa che lo rende unico, egli fa una cosa sconvolgente: prende queste “azioni minime” e le riempie di luce.
La sua arte è questa: riempire di luce le “azioni minime”.
Che bisogno c’è, che senso ha inondare di luce una donna che ricama?
Perché Vermeer ha capito come nessun altro che c’è una “luce interna” che inonda le “azioni minime”. Noi ci siamo riempiti la testa di cose importanti da fare, di obiettivi da raggiungere, di successi da inseguire, e poi… e poi?
Vermeer ritiene invece che l’Assoluto, il centro dell’universo, la vita, siano lì, nelle “azioni minime”, dove noi non siamo mai.
A tal proposito Martin Buber, filosofo e studioso della cultura chassidica – citando il Maestro Rabbi Bunam – sottolinea: “[…] ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quella che mi capita giorno per giorno, in quella che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata”.3
Quando bevi il caffè, quindi, c’è una “luce interna”, misteriosa…
Perché Vermeer non illumina gli occhi, ma il ricamo, la lettera… perché? Perché inondare di luce un’“azione minima”? Perché in particolare quelle delle donne?
Perché Vermeer sapeva che nei gesti femminili ci sono tutte le soluzioni: se vuoi capire una donna, guarda il suo bagno.
C’è il “luogo dei bisogni”, le decine di creme dappertutto, la vasca, i trucchi… Una donna che si trucca, una donna che si pettina, è sempre lì, nel presente.
Allora, per esempio, quando arriva il dolore, cara Raffaella, comincia a pensare che ti devi truccare…
Nel bagno le donne rendono possibile un mistero immenso: le cose più concrete della vita convivono con quelle più futili, con l’effimero, con l’apparenza.
Ecco perché Vermeer illuminava le donne.
In particolare, se volete capire di cosa parlo, dovete guardare le donne incinte, si distinguono per pochi gesti: quel movimento così, quella posizione colà… Se hanno accettato bene la gravidanza sono molto naturali, per nulla trattenute.
Sapete cosa fanno le donne incinte?
Niente. Non fanno niente.
Noi dobbiamo imparare a non fare niente.
Non passano il tempo a domandarsi come sarà il figlio che deve nascere, se sarà intelligente, bello, alto… Gli uomini fanno così, non le donne.
Bisogna fare come le donne incinte: un’altra vita cresce dentro di loro, e loro sono lì, e non fanno niente. Sono lì in quel processo.
Quindi è necessario che io impari a stare, ogni tanto, nelle “azioni minime”. Se sto guidando, guido e basta. Senza pensare a cosa sarà, a cosa devo fare… Ogni volta che non sono lì, sto male.
Non devo guarire, non devo combattere il dolore, non devo evitare che torni, devo stare lì, e basta! Devo sostare dentro l’“azione minima”.
Quando c’è un disagio, anch’io faccio questo esercizio con me stesso. “Devi stare qui”, mi dico, e allora la “donna interiore” incomincia a ricamare per me!
Vedi, cara Raffaella, noi siamo una serie di progetti, di intenzioni, di sogni da realizzare, e non ci accorgiamo che c’è qualcosa dentro di noi che sta facendo quello che va fatto…
Questo è il pensiero di Vermeer. Lui non si chiedeva se le donne che ritrae sono felici o meno, anzi, si comprende che molte non lo sono, ma lui vuole illuminare l’“azione minima”. Lui illumina l’“azione minima”.
Io devo stare, sostare lì, non devo fare la cosa che si fa sempre: correggere.
Devo osservare il disagio senza correggerlo, perché dentro io sto ricamando, sto compiendo l’“azione minima”.
Nessuno come Vermeer riempie di luce i gesti quotidiani, nessuno come lui li sospende nel senza tempo, nessuno come lui rende eterno l’effimero, nessuno come lui ha rinunciato a dipingere santi, ma...