L'armata perduta
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L'armata perduta

Valerio Massimo Manfredi

  1. 432 pages
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L'armata perduta

Valerio Massimo Manfredi

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401 a.C.: spossata da trent'anni di guerra tra Atene e Sparta, la Grecia è in ginocchio. Nel momento di più profonda crisi, il comandante Clearco arruola un esercito di mercenari greci: l'armata dei "Diecimila". Quale sia la sua missione non è chiaro. Si sa che dovrà addentrarsi in territori misteriosi e ostili, nel cuore dell'impero persiano; e si sa che è al soldo del principe Ciro, fratello del Gran Re Artaserse.
A raccontare la grande epopea dell' Anabasi di Senofonte - resoconto dell'incredibile marcia di quell'esercito di ritorno dall'odierno Iraq attraverso l'Armenia fino al Mar Nero - è una donna, Abira, una ragazza che abbandona il suo polveroso villaggio per seguire Xeno, il guerriero a cavallo che un giorno le è apparso con una promessa d'amore e di avventura nello sguardo. E il suo racconto grandioso ci mostrerà tutta la fierezza di diecimila indomiti guerrieri addestrati a superare qualsiasi prova e insieme il coraggio e la dolcezza di una donna innamorata, capace di sopportare qualunque sacrificio.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852010644

1

Il vento.
Soffia senza sosta attraverso le strettoie del monte Amano come dalla gola di un drago e si abbatte sulla nostra pianura con violenza disseccando l’erba e i campi. Per tutta l’estate.
Spesso per la maggior parte della primavera e dell’autunno.
Se non fosse per il ruscello che scende dai contrafforti del Tauro non crescerebbe nulla da queste parti. Solo stoppie per magri armenti di capre.
Il vento ha una sua voce, continuamente modulata. A volte è un lungo lamento che sembra non doversi placare mai; altre volte un sibilo che s’insinua di notte nelle crepe dei muri, nelle fessure tra i battenti delle porte e gli stipiti, avvolgendo ogni cosa con una foschia sottile e arrossando gli occhi e inaridendo le fauci anche quando si dorme.
A volte è un rombo che porta con sé l’eco del tuono sui monti e lo schioccare delle tende nomadi nel deserto. Un suono che ti penetra e fa vibrare ogni fibra del tuo corpo. I vecchi dicono che quando il vento romba a quel modo qualcosa di straordinario sta per accadere.
Ci sono cinque villaggi nella nostra terra: Naim, Beth Qadà, Ain Ras, Sula Him e Sheeb Mlech. In tutto vi abitano poche centinaia di persone e ognuno di essi sorge su un piccolo rialzo del terreno costituito dai resti di altri villaggi dissolti dal tempo, costruiti e poi abbandonati e di nuovo ricostruiti uno sull’altro nello stesso posto, con lo stesso fango seccato al sole. Ma gli amministratori del Gran Re li chiamano “I Villaggi di Parisatis” dal nome della Regina Madre.
Li chiamano anche “I Villaggi della Cintura” perché tutto il nostro lavoro, tutto quello che produciamo e riusciamo a vendere, tolto quanto ci serve per sopravvivere, è destinato ad acquistare ogni anno una nuova, preziosa cintura per la veste della Sovrana. Alla fine dell’estate arriva un persiano riccamente vestito scortato da numerose guardie del corpo a prelevare i guadagni che i nostri genitori hanno racimolato in un anno di durissimo lavoro. Ci lascia esposti al rischio della fame e alla certezza della miseria soltanto per comprare un’altra cintura a una donna che ne ha già a decine e sicuramente non ha bisogno di averne una in più. E ci dice anche che per noi è un onore e che ne dovremmo essere fieri. Non a tutti è dato di provvedere a un capo di vestiario per un membro così importante della casa reale.
Ho provato più volte a immaginarla, quella casa, ma non ci riesco, tali e tante sono le storie che circolano su quella dimora iperbolica. C’è chi dice che è a Susa, altri dicono che si trova a Persepoli, altri ancora a Pasargade sul grande altopiano. Forse si trova in tutti quei luoghi contemporaneamente, forse in nessuno. O forse sorge in un luogo a eguale distanza da tutte quelle città.
Io vivo in una casa con due stanze, una per dormire, una per consumare i pasti. Il pavimento è in terra battuta ed è forse per questo che tutto ciò che mangiamo sa di polvere; il tetto è fatto di tronchi di palma e di paglia. Quando andiamo al pozzo ad attingere acqua, le mie amiche e io, ci fermiamo a chiacchierare, a fantasticare, a costo di buscarle quando torniamo troppo tardi.
Spesso sogniamo a occhi aperti di vedere arrivare un giovane bello, nobile, amabile, che ci porti via da questo luogo dove ogni giorno è uguale all’altro, anche se sappiamo bene che ciò non potrà mai accadere. Ma sono contenta ugualmente: mi piace essere al mondo, lavorare, andare al pozzo con le mie amiche. Sognare non costa nulla e per un po’ è come vivere un’altra vita: quella che tutte avremmo voluto e che non abbiamo né avremo mai.
Un giorno, mentre andavamo al pozzo, la forza del vento ci investì facendoci vacillare e piegare in avanti per reggerne la spinta potente. Lo conoscevamo: era il vento che romba!
Tutto fu immerso nella foschia per qualche tempo, una caligine densa che oscurava ogni cosa. Il disco del sole era l’unica cosa che si distingueva con chiarezza, ma il suo colore aveva una insolita tonalità rosata. Sembrava sospeso nel nulla, su una landa senza confine né forme definite, su un paese di spettri.
E apparve in quella nebbia una forma indistinta che sembrava muoversi fluttuando nell’aria.
Un fantasma.
Uno degli spiriti che al tramonto escono di sottoterra per addentrarsi nella notte appena il sole si nasconde oltre l’orizzonte.
– Guardate – dissi alle mie amiche.
La figura si delineava, ma il volto restava invisibile. Alle nostre spalle sentivamo i rumori della sera: i contadini che tornavano dai campi, i pastori che spingevano le greggi verso gli ovili, le madri che chiamavano i bambini. Poi, a un tratto, si fece silenzio. Il vento che romba tacque, la caligine lentamente si dissolse. Alla nostra sinistra apparve il gruppo di dodici palme che contornava il pozzo, alla destra la collina di Ain Ras.
Al centro lei.
Si poteva distinguere ormai con contorni netti: la sua figura, il volto incorniciato da lunghi capelli scuri. Una donna giovane, molto bella.
– Guardate! – ripetei. Come se quella immagine non fosse già al centro dell’attenzione di ognuno. La figura esile procedeva lentamente quasi sentisse il peso degli sguardi gravare sempre di più su di lei a ogni passo che l’avvicinava al limitare di Beth Qadà.
Ci voltammo e vedemmo che molti uomini si erano radunati all’ingresso del villaggio facendo muro all’approssimarsi della donna. Vi fu chi gridò qualcosa: parole terribili, cariche di una violenza che non avevamo mai conosciuto. Accorsero anche le donne e una di loro urlò: – Vattene! Va’ via finché sei in tempo! – ma lei non udì o non volle ascoltare. Continuò per la sua strada. Ora anche il peso di quell’odio gravava su di lei e l’opprimeva, ne appesantiva il passo.
Un uomo raccolse da terra una pietra e la scagliò. Fallì il bersaglio di poco. Altri raccolsero pietre e le lanciarono contro la donna che vacillò. Una pietra la colpì al braccio sinistro e, subito dopo, un’altra al ginocchio destro la fece cadere. Si rialzò a stento. Con lo sguardo cercava invano tra quella folla feroce un viso amico.
Gridai anch’io: – Lasciatela stare! Non fatele del male!
Ma nessuno mi ascoltò. Il lancio di pietre si trasformò in una gragnuola. La donna cadde in ginocchio.
Benché non la conoscessi, benché non sapessi nulla di lei, vedevo in quel suo resistere sotto una grandine di pietre qualcosa di miracoloso, un evento che mai si era manifestato in quell’angolo dimenticato dell’Impero del Gran Re.
La lapidazione continuò finché la donna non diede più segno di vita. Poi gli uomini si voltarono e rientrarono al villaggio. Pensavo che presto si sarebbero seduti a tavola e avrebbero spezzato il pane per i loro figli e mangiato il cibo preparato dalle loro mogli. Uccidere a sassate, da lontano, non macchia le mani di sangue.
Mia madre doveva essere fra quella folla perché mi sentii chiamare: – Vieni qui, stupida, muoviti!
Eravamo tutte impietrite per quello che avevamo visto: una cosa che non saremmo state nemmeno capaci di immaginare. Fui la prima a riscuotermi e mi avviai verso casa. Vincendo il ribrezzo passai non molto distante dal corpo di quella sconosciuta, abbastanza vicina da vedere un rivolo di sangue che usciva da sotto le pietre e tingeva la polvere di rosso. Potei vedere la sua mano destra e ambedue i piedi, anch’essi insanguinati, poi distolsi lo sguardo e mi allontanai in fretta, piangendo.
Mia madre mi accolse con due ceffoni e per poco non lasciai cadere la brocca dell’acqua. Non c’era motivo per picchiarmi, ma immaginai che volesse sfogare la tensione e l’angoscia che aveva provato nel veder uccidere a colpi di pietre una persona che non aveva fatto male a nessuno.
– Chi era quella donna? – chiesi senza badare al dolore.
– Non lo so – rispose mia madre. – E stai zitta. Capii che stava mentendo; non feci altre domande e mi diedi da fare per preparare la cena. Mio padre entrò mentre mettevo in tavola: mangiò a testa bassa con la faccia sulla scodella e senza proferire parola. Poi passò nell’altra stanza e subito dopo udimmo il suo respiro pesante. Mia madre lo raggiunse appena venne il tempo di accendere la lucerna e io chiesi di poter restare ancora alzata al buio. Non disse nulla.
Passò parecchio tempo. L’ultimo chiarore della sera si spense e scese la notte, una notte di luna nuova. Mi ero seduta vicino alla finestra che tenevo socchiusa per vedere le stelle. Si udivano abbaiare i cani: forse sentivano l’odore del sangue o la presenza di quel corpo sconosciuto che giaceva là fuori coperto di sassi. Mi chiedevo se il giorno dopo l’avrebbero seppellita o se l’avrebbero lasciata a marcire sotto le pietre.
Il vento invece taceva, come se quel delitto avesse ammutolito anche lui, e tutti dormivano ormai a Beth Qadà. Ma io no. Non avrei mai potuto cedere al sonno perché sentivo che lo spirito di quella donna vagava inquieto per le strade del villaggio assopito cercando qualcuno da affliggere con il suo stesso tormento. Incapace di reggere l’angoscia che mi assaliva nel buio della mia casa e incapace di addormentarmi sulla stuoia stesa in un angolo della cucina, alla fine uscii e la vista dell’immensa volta del cielo stellato mi diede un po’ di pace. Trassi un lungo respiro e mi sedetti in terra accanto al muro ancora tiepido e lì restai con gli occhi spalancati nell’oscurità ad aspettare che il battito del mio cuore si calmasse.
Mi accorsi dopo qualche tempo di non essere l’unica a non poter prendere sonno nel villaggio: un’ombra mi passò a poca distanza, silenziosa, ma l’andatura era inconfondibile e riconobbi una delle mie amiche.
La chiamai: – Abisag.
– Sei tu?… Mi hai fatto morire di spavento.
– Dove vai?
– Non riesco a dormire.
– Nemmeno io.
– Vado a vedere quella donna.
– È morta.
– Perché allora i cani continuano ad abbaiare?
– Non lo so.
– Perché sentono che è viva e hanno paura.
– Forse temono che il suo spirito li tormenti.
– I cani non hanno paura dei morti. Solo gli uomini. Io vado a vedere.
– Aspetta, vengo anch’io.
Ci incamminammo assieme consapevoli che se le nostre famiglie lo avessero scoperto ci avrebbero massacrato di botte. Strada facendo, arrivate vicino alla casa di Mermah, l’altra nostra amica, la chiamammo a bassa voce da sotto la finestra e battemmo con le nocche contro l’imposta. Doveva essere sveglia perché ci aprì immediatamente e mentre stava per uscire arrivò anche sua sorella e si unì a noi.
Camminammo rasente ai muri fino a uscire dal villaggio e in pochi istanti raggiungemmo il punto in cui la straniera era stata lapidata. Un animale fuggì al nostro arrivo: uno sciacallo, probabilmente, che era stato attirato dall’odore del sangue. Ci fermammo davanti a quel mucchio informe di pietre.
– È morta – dissi. – Che cosa siamo venute a fare qui?
Non avevo finito di parlare che una pietra smossa rotolò sulle altre.
– È viva – disse Abisag.
Ci chinammo su di lei e cominciammo a toglierle di dosso le pietre una per una senza fare il minimo rumore finché la liberammo completamente. Con quel buio non riuscivamo nemmeno a vederla in faccia. Era comunque una maschera tumefatta, con i capelli raggrumati di sangue e di polvere. Ma la sua vena giugulare palpitava e dalla sua bocca usciva un lieve rantolo. Era indubbiamente viva, ma per quanto mi sembrava avrebbe potuto morire in qualunque istante.
– Portiamola via – dissi.
– E dove? – chiese Mermah.
– Al capanno vicino al torrente – propose Abisag. – Non lo usa più nessuno da molto tempo.
– E come facciamo? – domandò ancora Mermah.
Ebbi un’idea: – Toglietevi i vestiti. Tanto non ci vede nessuno.
Le ragazze fecero quello che avevo chiesto intuendo cosa avevo in mente e restarono quasi nude.
Stesi gli abiti, li annodai per formare una sorta di telo che poggiammo a terra vicino alla donna. Poi, con somma cautela, la prendemmo per le mani e per le braccia, la sollevammo e ve la deponemmo sopra. Lasciò udire un lamento quando la staccammo da terra perché le sue membra dovevano essere massacrate e noi cercammo di sollevare il telo con la massima delicatezza. Quella poveretta doveva essere sfinita e non sembrò pesante nemmeno per delle ragazzine come noi. Riuscimmo a trasportarla fino al capanno senza sforzo eccessivo, fermandoci ogni tanto per riposarci e riprendere fiato.
Le preparammo un giaciglio con paglia, fieno e una stuoia. La lavammo con acqua fresca e la coprimmo con un telo di sacco. Non avrebbe avuto freddo in quella notte mite, ma questo era comunque l’ultimo dei problemi. Nessuna di noi sapeva se avrebbe passato la notte o se l’indomani l’avremmo trovata cadavere. Pensammo che non c’era altro che potessimo fare per lei a quel punto e che la cosa migliore fosse di rientrare prima che i genitori si accorgessero della nostra assenza. Lavammo anche le nostre vesti nel torrente perché si erano macchiate di sangue e le portammo a casa sperando che si sarebbero asciugate durante la notte.
Prima di separarci ci mettemmo d’accordo per soccorrere a turno la nostra protetta, se mai fosse sopravvissuta, per portarle cibo e acqua finché non fosse stata in grado di badare a se stessa. Giurammo che non l’avremmo detto a nessuno. Che quello sarebbe stato il nostro segreto e che non l’avremmo tradito per nulla al mondo, anche a prezzo della vita.
Non ci rendevamo bene conto di che cosa significasse, ma sapevamo che un giuramento per essere valido doveva contenere affermazioni tremende. Ci lasciammo con un lungo abbraccio; eravamo stanche, emozionate, stremate, ma al tempo stesso così eccitate che forse non saremmo più riuscite ad addormentarci.
Il vento riprese a soffiare e continuò fino all’alba quando il canto dei galli risvegliò gli abitanti di Beth Qadà e degli altri quattro Villaggi della Cintura.
La prima cosa che gli uomini notarono recandosi nei campi a lavorare fu che la donna lapidata era sparita e la cosa gettò tutti nella costernazione. Strane dicerie si diffusero fra la gente, la più parte terrificanti, cosicché nessuno volle indagare: preferivano dimenticare quel fatto di sangue che in qualche modo aveva contaminato tutti. Senza dare...

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Manfredi, V. M. (2010). L’armata perduta ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3299954/larmata-perduta-pdf (Original work published 2010)

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Manfredi, Valerio Massimo. (2010) 2010. L’armata Perduta. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3299954/larmata-perduta-pdf.

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Manfredi, V. M. (2010) L’armata perduta. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3299954/larmata-perduta-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Manfredi, Valerio Massimo. L’armata Perduta. [edition unavailable]. Mondadori, 2010. Web. 15 Oct. 2022.