Che tu sia per me il coltello
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Che tu sia per me il coltello

David Grossman, Alessandra Shomroni

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  1. 350 pages
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Che tu sia per me il coltello

David Grossman, Alessandra Shomroni

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In un gruppo di persone, un uomo nota una donna sconosciuta che sembra volersi isolare dagli altri. Yair, commosso da quella che egli interpreta come un'impercettibile e ostinata difesa, le scrive una lettera, proponendole un rapporto profondo, aperto, libero da qualsiasi vincolo. Più che una proposta è un'implorazione e Myriam ne resta colpita, forse sedotta. Un mondo privato si crea così fra loro e in questo processo di reciproco avvicinamento Yair e Myriam scoprono l'importanza dell'immaginazione nei rapporti umani e la sensualità che si nasconde nelle parole. Finché Yair si rende conto che le lettere di quella donna stanno aprendo un varco dentro di lui, chiedendogli con imperiosa delicatezza una inaspettata svolta interiore¿
Romanzo avvolgente e "impudico" di uno dei più grandi autori contemporanei, Che tu sia per me il coltello mostra a ognuno di noi quanta strada e quanto coraggio occorrano per arrivare a toccare con pienezza l'anima (e il corpo) di un altro essere umano.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852010491

Yair

3 aprile
Myriam,
tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi. A dire il vero ho cercato di non scrivere, sono già due giorni che ci provo, ma adesso mi sono arreso.
Ti ho vista l’altro ieri al raduno del liceo. Tu non mi hai notato, stavo in disparte, forse non potevi vedermi. Qualcuno ha pronunciato il tuo nome e alcuni ragazzi ti hanno chiamato “professoressa”. Eri con un uomo alto, probabilmente tuo marito. È tutto quello che so di te, ed è forse già troppo. Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me. Insomma, vorrei poterti raccontare di me (ogni tanto) scrivendo. Non che la mia vita sia così interessante (non lo è, e non mi lamento), ma mi piacerebbe darti qualcosa che altrimenti non saprei a chi dare. Intendo qualcosa che non immaginavo si potesse dare a un estraneo. Inutile dire che questo non comporta obblighi da parte tua, non devi far nulla (sono quasi certo che non mi risponderai). Ma se, malgrado tutto, un giorno vorrai farmi sapere che leggi le mie lettere, troverai sulla busta il numero della casella postale che ho affittato questa mattina e che è destinata solo a te.
Se mi devo spiegare, allora è tutto inutile: non sentirti in dovere di rispondere, probabilmente mi sono sbagliato sul tuo conto. Ma se sei tu quella che ho visto stringersi nelle braccia con un cauto sorriso, credo che capirai.
Yair W.
7 aprile
Ciao Myriam,
da quando ho ricevuto la tua lettera non combino più niente, non ne sono capace. Non lavoro, non vivo, non faccio che pensare a te. Lascio ruggire nel mio cuore il tuo nome e se tu fossi qui, adesso, ti abbraccerei con tutte le mie forze fino a spezzarci entrambi nell’impeto di quel che provo per te (non temere, non sono particolarmente forte). E prometto di rispondere a tutte le tue domande, ti meriti le risposte più oneste possibili. Per avermi scritto. Per aver accettato! Per non esserti lasciata intimorire dalla pacata lettera di suicidio che ti ho scritto (e che mi ha lasciato il segno dei denti all’interno delle guance). Prima di tutto, però, devo raccontarti come ci siamo veramente incontrati (mi hai risposto! In un giorno! Non hai riso di questo pazzo che all’improvviso ti è comparso davanti). Non mi riferisco all’incontro a scuola la settimana scorsa, quello appartiene alla realtà. E cosa c’entriamo noi con la realtà? Che spazio sarebbe disposta a lasciarci?
Da dove iniziare? Se fosse possibile, inizierei contemporaneamente da ogni parte. All’improvviso ho la sensazione che ogni parola sia un grumo di lettere inutili, non trovi anche tu? Che qualcuno, sulla punta della penna, traduca l’ebraico in francese... Non avrei mai immaginato quanto potesse essere difficile spiegare, sbriciolare questa sensazione in parole. Hai scritto che ti ho ricordato il ragazzo con gli stivali a molle. Magari potessi saltare la fase delle spiegazioni e della logica, come se tu sapessi già tutto, subito, e mi accettassi nella mia totalità. Come se fossi già racchiuso in te, al punto che, quando aprirò gli occhi, ti vedrò sorridere e dire: “Va bene, possiamo cominciare”. (Mi fermo qui. Ho la sensazione che ogni altra parola sarebbe superflua. Adesso tocca a te.)
Yair
7 aprile
Solo qualche altra riga. Ho spedito la lettera, sono tornato a casa e non sono riuscito a calmarmi. Ma chi vuole calmarsi, Myriam? Non far caso a quello stupido che da stamattina si aggira con un sorriso incontrollabile e che per la gioia vorrebbe ora, subito, spogliarsi, denudarsi completamente e rimanere di fronte a te, così com’è, nudo, al punto da mostrare il nocciolo bianco dell’anima. Se solo potessi disegnare per te, ruggire per te, nitrire, abbaiare, anche fischiare per te tutto quello che mi si muove dentro tumultuosamente. (Ricordo che a vent’anni cercavo il modo per diventare uno dei famosi trentasei giusti1 e che feci il proposito di sedermi sull’autobus, almeno una volta la settimana, dietro una donna sola, preferibilmente vestita di nero come una vedova. Senza farmi notare, a quel punto le avrei fischiato piano nell’orecchio una struggente melodia d’amore che avrebbe raggiunto il punto più profondo del suo padiglione auricolare, risvegliando tutto ciò che vi dormiva, raggrumato e sconsolato...)
No, non temo l’estraneità che c’è fra noi, al contrario – ovvio che è il contrario. Dimmi cosa c’è di più bello ed entusiasmante della possibilità di dare qualcosa che ti è molto caro, quello che hai di più caro – un segreto o una debolezza, o una richiesta assurda come la mia – a una persona totalmente estranea (volutamente estranea!). Di metterlo nelle sue mani mentre io mi tormento per la vergogna e l’imbarazzo di essermi lasciato tentare da un’illusione così meschina, e aver sentito dentro di me questo desiderio di elemosinare. Ho provato questo tormento per tre giorni e tre notti, sentendomi a ogni istante come in cella d’isolamento, o in trappola. Poi, quando ormai ero sul punto di rinunciare, con un godimento perverso, torbido e grigio, allora, d’un tratto, la tua mano bianca...
Forse nemmeno tu capisci cosa sia a emozionarmi tanto, ma la tua lettera piena di calore e di luce – soprattutto il postscriptum finale, solo una riga, in fondo – mi è sembrata come un passaggio dall’ombra alla luce. Come se tu mi avessi teso una mano, facendomi superare il confine oltre il quale si trova la luce. Gentilmente, come se fosse del tutto naturale con un estraneo.
(Ed ecco un brivido di freddo. Proprio ora. Proprio in questo momento. Perché? Perché sto bene? Un’ondata di freddo che sale dalle viscere, come un pugno gelido che mi stringe il cuore. È per te.)
Vorrei che tu capissi, io parlo solo di lettere, davvero. Non di incontri. Niente corpo, né carne. Non con te. Mi è parso talmente chiaro dopo la tua lettera. Solo parole. Perché tutto si rovinerebbe a tu per tu, scivolerebbe subito su strade note, già percorse. Ovviamente il nostro rapporto dovrà mantenersi nella più completa segretezza, non dovrà essere svelato a nessuno, perché ciò che diciamo non venga rivolto contro di noi. Solo le mie parole che incontrano le tue, il ritmo lento dei nostri respiri che si uniscono. Provo una tale stanchezza nello scriverti. Non quella solita, però. Dopo qualche riga devo proprio fermarmi per respirare e ritrovare la calma.
È già sera. Ho fatto una pausa e mi sono un po’ ripreso. Dieci ore esatte da quando ho trovato la tua busta bianca nella casella postale con il mio nome da una parte e il tuo dall’altra (forse come inizio potrebbe bastare). E dentro, su una metà del foglio (non avevi tempo?), la tua risposta. All’inizio non riuscivo a capire cosa stessi leggendo. Come se ogni parola, persino la più semplice, mandasse un bagliore accecante, come quello che emana la parola “io” se la si considera attentamente. Un istante di chiarezza seguito da una sorta di cupo oscuramento che si diffonde dentro di me, aspirandomi al suo interno. Ma quando sono arrivato al postscriptum, al ringraziamento per il mio regalo inatteso (e mi ringrazi anche!), al tuo cuore che ha provato nostalgia di quando eri bambina...
Vero che non c’è più niente da dire in questo momento? Che l’essenziale è già stato detto?
Tuttavia, senti: ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un’altra persona.
7 aprile
Io, malgrado tutto. Un attimo prima di mezzanotte. È la terza lettera oggi, ma non spaventarti. Non hai idea di quante altre te ne abbia risparmiate. Ma è il nostro primo giorno insieme, il giorno in cui è arrivata una tua lettera e io ti ho risposto; finché non ne arriverà un’altra, potrò credere che tu mi legga esattamente come io ti scrivo: in dormiveglia, trasognato (oggi al lavoro ho letteralmente ballato invece di camminare), e in questo stato posso sussurrarti: “acqua, acqua”. La voce mi si assottiglia quando ti penso. Acqua, gorgoglio d’acqua. Non so perché. Forse perché c’è dell’acqua nel tuo nome (senza quella “erre” un po’ dura, come un ostacolo al flusso),2 e forse perché non c’è fecondazione senza liquidi. Ma io sento, lo sento nel mio corpo, che abbiamo bisogno di tantissima acqua intorno a noi. Di cascate e di fiumi, solo per cominciare a essere.
Sto esagerando? Mi lascio trasportare? Ho sentito che ti ritraevi (davvero, il tuo corpo ha avuto una contrazione). Ho detto qualcosa che ti ha fatto male? Devi guidarmi, Myriam, spiegarmi dove fa male e dove occorre procedere con cautela. O forse oggi ti ho sommersa e sei già stanca?
Perché a me stanca scriverti, te l’ho detto. Non mi sono mai sentito così debole dopo aver scritto cinque, dieci righe. Provo davvero un senso di vertigine. Ma è anche piacevole. Mi ricorda la sensazione che provavo da bambino quando uscivo di casa dopo una lunga malattia. Senti, e se stabilissimo fin d’ora che non sarà una corrispondenza troppo lunga? Per esempio, solo un anno? O finché il piacere non la renderà insopportabile? Perché se il mio corpo ora dice la verità, e il corpo, come sai, non mente...
Non mente? Ma quante volte ho mentito con il corpo? Quante volte ho abbracciato e baciato, quante volte ho chiuso gli occhi con un sospiro e sono venuto ruggendo, ma senza intenzione?
E quante volte tu?
Myriam, se è vero quello che sento adesso per te, allora anche un anno sarebbe troppo per noi. Non resisteremmo più a lungo, seminando distruzione in tutto ciò che ci circonda. E credo che entrambi abbiamo qualcosa da perdere, là fuori. Allora ho pensato – un’idea stupida, ma tant’è – che forse dovremmo decidere fin d’ora. Che sarebbe meglio fissare una data, o attendere che accada qualcosa di particolare nel mondo, qualcosa al di fuori di noi e che ci è assolutamente indifferente, ma che sarà già annotato sul nostro calendario. Cosa ne dici? Ti fa sentire un po’ più tranquilla (benché ci ponga dei limiti)? Così sapremo fin dall’inizio che la separazione non dipenderà da noi e che dovremo fare tutto prima che giunga quel momento. Essere tutto o niente, cosa ne pensi?
Ti sei di nuovo allontanata, ti sei di colpo ritratta. Be’, lo so di avere scritto un’idiozia, di avere dato un calcio al secchio prima che cominciasse a riempirsi, ma aspetta, non prendere decisioni contro di me! Senti, la cosa più facile è che io strappi questa pagina e la riscriva senza quelle disgraziate parole, purché non ti perda.
Vedi? L’ho lasciata esattamente com’era. Senza cancellature. Perché, dal momento in cui mi hai risposto, ho deciso che tutto quello che mi succede a causa tua ti apparterrà. È-scritto-inme-ed-è-scritto-in-te. Ogni pensiero, desiderio, passione, timore; ogni creatura, feto o aborto che concepirò a causa tua. È questo il fulcro del mio contratto con te, e solo con te, in virtù del quale rinuncio a ogni tentativo di corteggiamento, rinuncio a censurarmi e, più in generale, al diritto di difendermi...
(Che sollievo scrivere queste parole.)
Ma ecco, ho riletto quello che ho appena scritto.
Come mi piacerebbe scriverti diversamente. Come mi piacerebbe essere uno che scrive in un altro modo. Le mie parole sono così pesanti. In fondo avrebbe potuto anche essere semplicissimo, no? Come quando si chiede: “Dimmi, piccino, dove ti fa male?”. Allora chiuderei gli occhi e scriverei in fretta: volesse il cielo che due estranei vincessero l’estraneità. Il principio stesso dell’estraneità, carico di prescrizioni e conseguenze – il vertice del Cremlino, soddisfatto e sazio, che ci si è assestato nelle profondità dell’anima. Come vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un’iniezione di verità per dirla, finalmente, la verità. Sarei felice di poter dire a me stesso: “Con lei ho stillato verità”. Sì, è questo quello che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anch’io lo sarò per te, prometto. Un coltello affilato ma misericordioso – parola tua. Non ricordavo nemmeno che fosse lecita. Un suono così delicato e ovattato. Una parola senza pelle (se la si ripete più volte a voce alta ci si può sentire come terra riarsa, e non è facile il momento in cui l’acqua s’infiltra fra le crepe). Sei stanca, mi obbligo a dirti buonanotte.
Yair
12 aprile
Myriam.
Lo sapevo, non dirmi che non lo sapevo e che non mi sono messo in guardia.
È veramente quello che hai provato? A tal punto?
Be’, puoi immaginare se non sia stato un colpo anche per me. Do con una mano, prendo con due. Sherazade e l’idiota sultano legati e aggrovigliati insieme... Questa mattina non ce l’ho più fatta e mi sono rispedito, per espresso, la tua prima lettera.
Ma tu capisci, vero, che nasce tutto dalla paura? Che dopo essere riuscito a prenderti per la manica, e a bloccarti per un attimo accanto a me, il mio fascino già appassito sarebbe completamente svanito e non avrei mai avuto una seconda occasione. Tu devi, devi credermi. Io mi rivelo solo al secondo sguardo, o al terzo, mai a quello che effettivamente mi osserva.
Malgrado questo, Myriam (hai un nome caldo, esuberante, duro e morbido allo stesso tempo), resta con me ancora un po’, finché cesseranno questi spasimi involontari. Nel frattempo potrai annotare sulla tua agenda qualche piccola e disperata considerazione sul mio conto. Permettimi però di assistere a quelle conversazioni trasognate con te stessa, con Ana (una tua amica?), con la tua gatta e i cani, e forse avrò ancora qualche possibilità con te. Dopotutto, nella tua lettera hai chiesto – con sincera preoccupazione, mi pare – che cosa mi spaventi tanto. E com’è possibile che chi ha osato esprimere un desiderio così grande alla vita provi anche tanta paura nei suoi confronti?
Spiegamelo, ti prego.
Raccontarti quante volte ho letto le tue due lettere? Vuoi ridere? A ogni ora del giorno e della notte, ad alta e a bassa voce, nella vasca da bagno, accanto alla fiamma del gas in cucina e nel bel mezzo di una riunione di lavoro, corrugando la fronte con sussiego di fronte a dieci persone. I miei ridicoli tentativi di essere con te a ogni costo, in qualsiasi momento, nei vari stadi della materia. Anche nei cessi della stazione centrale degli autobus di Gerusalemme. Ci sono andato oggi pomeriggio, proprio per trovarmi di fronte ai graffiti pornografici e alle scritte oscene, perché si contorcessero dalla vergogna udendo le tue parole. Come scrivi! Davvero, anche quando sei delusa. Senza trucchi né finzioni. Perfino senza curarti di te stessa. Ti dai con semplicità e mi accordi la tua fiducia senza nemmeno conoscermi.
Raccontarti ancora di me? Cosa c’è da raccontare?
Il tuo modo di scrivere mi ha fatto venire in mente che una volta pensavo di insegnare a mio figlio un lessico privato. Per isolarlo di proposito dalle parole del mondo e mentirgli fin dalla nascita, così che credesse solo ed esclusivamente a ciò che gli avrei insegnato io. Doveva essere un lessico misericordioso. Intendo dire che avrei camminato con lui, mano nella mano, chiamando tutto ciò che vedeva con nomi che non gli avrebbero procura...

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