Itaca per sempre (Mondadori)
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Itaca per sempre (Mondadori)

Romanzo

Luigi Malerba

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Itaca per sempre (Mondadori)

Romanzo

Luigi Malerba

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Ulisse è tornato a Itaca. Sotto le spoglie del mendicante, si rivela a Eumeo e a Telemaco, organizza la vendetta, la esegue. Ma a questo punto Malerba comincia a scavare, a introdurre il germe di un'inquietudine, a portare alle conseguenze più dirompenti un'intuizione: come è possibile che Penelope non riconosca mai, neppure nel bagliore di un sospetto, lo sposo? E infatti, la Penelope di Malerba ha riconosciuto subito l'eroe, ma tace. E nel silenzio, nell'inquietudine di una psicologia femminile ricostruita con magistrale sensibilità, si macera, a sua volta chiedendosi: perché? Perché Ulisse si svela a tutti e non a me? Il risentimento di Penelope, che in Omero è appena abbozzato e si concentra tutto nel celebre interrogatorio sul mistero del letto coniugale, nell'Itaca di Malerba innesca il dramma intimo che attira nel suo vortice anche Ulisse, il quale giungerà a dubitare non tanto della fedeltà della donna, ma di se stesso, della propria celebrata astuzia, della propria incrollabile personalità.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852013058

Luigi Malerba

ITACA PER SEMPRE

Romanzo

Mondadori

Itaca per sempre

Ulisse
Mi sono domandato tante volte come mai l’acqua del mare è salata mentre l’acqua dei fiumi che si versano nel mare non lo è, e nemmeno la pioggia che cade dal cielo è salata. Non ho mai trovato una risposta e mi faccio di nuovo questa domanda mentre, risvegliato dal vento dopo un lungo sonno, sto seduto sulla costa sassosa di questa terra che dovrebbe essere Itaca, ma che ora non riconosco.
Mi guardo intorno smarrito perché non riconosco né la costa sassosa, né questa terra arida coperta di alberi spogliati dai venti marini, né l’orizzonte delle montagne, né questo cielo colore del mare. E mi domando ancora da dove vengano questi frammenti di pietra rossa e porosa portati qui dalle piogge che scendono a precipizio lungo la montagna. A ogni temporale c’è un pezzetto di mondo che se ne va portato in mare dall’acqua che trascina giù terra e sassi, che scava fossi e mette a nudo le radici degli alberi. A un certo punto scompariranno le isole e le montagne e, colmato di terra, il mare diventerà una grande pianura?
Molti anni fa ho battuto palmo a palmo le montagne della mia Itaca alla caccia del cervo e del cinghiale, ma non ricordo di avere mai calpestato questa roccia rossa e spugnosa di cui trovo qui i frammenti arrotondati dal vento e dalle onde del mare. Da dove viene il sale dell’acqua marina? Da dove vengono questi sassi rossi e spugnosi che abbondano qui in riva al mare? E allora, dove mi trovo? Mi hanno sbarcato sulla costa di Itaca i marinai feaci, o dove? Non mi sono mai fidato dei marinai che conosco come i più mentitori uomini del mondo.
Le tribolazioni della guerra e poi di un lungo viaggio mi fanno sospettare di ogni cosa, e ora sospetto che i marinai feaci, che mi hanno portato fin qui, si siano impossessati dei doni che generosamente il loro re Alcinoo aveva fatto caricare per me sulla nave, e mi abbiano deposto addormentato sulla prima costa di un qualsiasi isolotto deserto per liberarsi di un ospite ingombrante. Lo avevo capito dalle loro facce inquiete che non desideravano altro che finalmente percorrere il mare alla ventura prima di ritornare in patria. Ma se avessero voluto impossessarsi del mio tesoro, mi avrebbero gettato di notte nel profondo mare salato invece di approdare in questa terra scoscesa. Oppure semplicemente avevano deciso di rubare il tesoro, ma non volevano darmi la morte con le loro mani per la pietà che qualche volta sopravvive anche nei cuori più aridi?
Ma ecco che vedo luccicare qualcosa là sotto quelle frasche ai piedi di un cespuglioso olivastro sull’ingresso di una grotta profonda. Sono proprio le coppe e i bacili d’oro e argento che il re dei Feaci mi ha donato prima della mia partenza. Ora li coprirò con altre frasche e con solide pietre per evitare che qualche vagabondo se ne impadronisca.
Ancora non so se questa terra è la mia Itaca o un isolotto sperduto nell’oceano o la costa di una regione sconosciuta. Non so se questa terra è abitata da gente ospitale o da giganti con un solo occhio in mezzo alla fronte. Mi guardo intorno e ancora non so se questa è la mia patria.
Mi domando come può questa terra arida e selvatica essere la patria che ho sognato per nove lunghi anni di guerra e per altri dieci anni di viaggio fra pericoli e avventure di ogni sorta. So bene che il ricordo della patria è ingannevole. Negli anni della lontananza e del pericolo ho immaginato verde e fiorita come un giardino la mia isola pietrosa, che per la verità può nutrire solo greggi di pecore e capre che brucano le aride erbe sulla dura roccia, e branchi di porci che ingrassano con le ghiande nella parte più alta e boscosa. Ho imparato finalmente che non bisogna mai mettere a confronto i sogni con la realtà.
Ma non sono sincero quando mi dipingo come lunghi gli anni dell’assedio di Troia perché quelli sono stati gli anni più veloci che ho mai attraversato. Anni tribolati e felici. E posso perfino vantarmi che la mia presenza è stata decisiva per la vittoria degli Achei. La chiamo vittoria ma chissà se si può chiamare con questa parola la distruzione di una città e i fatti atroci che sono avvenuti sotto le sue mura e che io stesso ho raccontato cento volte come eventi gloriosi durante le soste del mio lungo viaggio di ritorno.
Sono partito come il re di Itaca e mi accingo a ritornare nella mia casa nascosto sotto gli stracci di mendicante che ho trovato in questa grotta in riva al mare e che mi consentiranno una ispezione segreta, e perciò veritiera, su quanto è avvenuto durante la mia assenza. Se è vero, come ho sentito, che la mia casa è piena di pretendenti che insidiano Penelope e vogliono prendere il mio posto nel regno e nel letto coniugale. Come si comporta Penelope con questi pretendenti. Come è cresciuto Telemaco che ho lasciato bambino. Come sono state conservate le mie proprietà. Come si sono condotti in mia assenza i dispensieri, i servi e le ancelle della casa.
Venti anni gettati al vento? Venti anni senza memoria? Chissà se qualcuno raccoglierà le testimonianze dei reduci sulle imprese di Achille, di Ettore troiano e Agamennone miceneo, guerrieri di animo forte ma di corto pensiero, le loro ire e crudeltà, e soprattutto la storia del cavallo di legno da me ideato, che ci ha permesso di espugnare Troia e consegnare a Menelao di Sparta la bella Elena.
Se penso alle fatiche, alle ferite e alle vite perdute a causa di una donna infedele come Elena, il mio pensiero si confonde. Ma se dimentico il pretesto che ha dato origine alla più stupida guerra del mondo, vorrei anch’io che restassero scritti nelle tavole della memoria, per le generazioni che verranno, eventi che non si potranno mai più ripetere e che già appartengono all’antichità.
Nessuna donna metterà più al mondo uomini come Achille, Ettore e Agamennone. La Sparta di Menelao e la Micene di Agamennone sono cresciute con il fragore delle armi e dureranno quanto le pietre con cui sono costruite, un misero frammento dell’eternità. Ma la memoria è fallace e la storia è bugiarda perché gli uomini vogliono ricordare e ascoltare le favole e non la cruda e stupida realtà.
Tante cose sono successe a me in questi venti anni, ma quante altre cose saranno successe a Itaca durante la mia assenza? Se non riconosco più nemmeno la mia terra che è rimasta immobile nei secoli, mi domando come sarà cambiata Penelope, e come potrò riconoscere mio figlio Telemaco, lasciato nella culla e che dovrei trovare già uomo. Quanto potrà contare sui loro sentimenti un marito e padre che è stato lontano dalla patria e dalla famiglia per tanti anni?
Sarò dunque guardingo, mi avvicinerò alla reggia senza farmi riconoscere e con tutte le cautele che l’esperienza mi suggerisce. Chissà se potrò contare su Telemaco e sulla fedeltà di Penelope alla quale ho rivolto ogni giorno i miei pensieri migliori anche in mezzo al rumore delle armi e all’infuriare delle tempeste di mare.
I figli restano tuoi figli anche se non ti conoscono, perfino se le circostanze te li rendono ostili, ma una moglie che ti tradisce diventa una estranea, non avendo legami di parentela e di sangue. Non ho mai dubitato di Penelope in tutti questi anni, ma i dubbi mi assalgono proprio ora che i miei piedi calpestano, così spero, l’arido suolo della mia Itaca. Quando le onde tempestose hanno messo in pericolo la mia nave, quando i venti hanno spezzato i robusti alberi che reggevano le vele, il mio pensiero correva a Penelope che aspettava il mio ritorno e questo pensiero mi ha dato la forza di combattere le avversità con cui gli dèi, invidiosi dei miei successi, hanno voluto rendere difficile il mio ritorno.
Perché temo ora di avere perduto lo scopo del mio travagliato ritorno? Perché proprio quando la fiducia sarebbe di conforto alla mia stanchezza, gli dèi si accaniscono ancora contro di me e opprimono la mia mente con tutti questi dubbi? Per anni ho avuto nelle orecchie l’esuberanza rumorosa della loro gioia lassù in Olimpo dopo il banchetto quotidiano, ma ora non sento più le loro voci ed è rimasta sulla nave la luminosa conchiglia dentro la quale ascoltavo la voce di Penelope. Mi manca, questa conchiglia, più che la voce degli dèi ubriachi. Ma perché rimpiangere la conchiglia quando fra poco potrò udire la viva voce della stessa Penelope?
Se alzo gli occhi al cielo vedo altissimi i falchi neri con le loro ali squadrate e il loro volo librato che li fa apparire immobili contro l’azzurro profondo. Se ho buona memoria i falchi si vedevano molto raramente nel cielo di Itaca. Devo pensare che le terre sono rimaste incolte e le serpi, preda degli avvoltoi, si sono moltiplicate?
Penelope
Ho contato i giorni i mesi e gli anni e la somma mi sgomenta. Ogni giorno ho indirizzato i miei pensieri all’amato Ulisse, ho ripercorso mille volte i giorni felici e le notti amorose che ho fatto rivivere nella memoria notte dopo notte. In giorni ormai remoti ho cercato di condividere anche le sue inquietudini e alla fine ho accolto con forza d’animo la sua partenza per una guerra forse giusta per Sparta e Micene, ma ingiusta per il nostro matrimonio e sicuramente perniciosa per Itaca.
Troia era così lontana dalla nostra mente e dalla nostra isola felice, e la guerra così estranea ai nostri interessi, che Ulisse più volentieri sarebbe rimasto in patria con la famiglia e i sudditi che lo adoravano. Ma come impedire la sua partenza per una guerra alla quale tutti gli altri popoli dell’Ellade lo chiamavano? Ho tentato di fermarlo, ma la sua vecchia nutrice Euriclea me lo ha impedito rifiutandomi il suo aiuto. Sarebbe bastato rompergli un braccio o una gamba con il manico di una scure. Non sarebbe stata una tragedia, mentre è stata una tragedia la sua partenza.
La nostra piccola Itaca navigava felice e prospera nelle acque dell’oceano, le nostre greggi pascolavano sulle montagne al riparo dai predoni, i Proci governavano pacificamente ognuno il proprio territorio. Ma quando l’assenza del loro re Ulisse si è prolungata per troppi anni oltre il tempo previsto, hanno cominciato a dare segni di inquietudine e infine si sono insediati qui nella reggia a gozzovigliare e a pretendere che io tradissi il mio sposo con uno di loro e che mi preparassi a un nuovo matrimonio. La maledizione degli dèi è caduta sulla mia casa che si è trasformata per me in una prigione e per i Proci in un volgare festino. Non riuscirò mai a tradire il letto coniugale e quando pure ne fossi obbligata nascerebbero fra i pretendenti delle tali contese che porterebbero Itaca alla rovina.
Mai ho sentito come ora il desiderio di avere al mio fianco un uomo forte e coraggioso come Ulisse. Troppo si è prolungata la tua assenza, mio amato Ulisse, e prego gli dèi che il mio amore non si tramuti in rancore per la tua assenza che non ha giustificazione. Da molti anni si è conclusa la guerra di Troia e sul tuo ritorno sono arrivate notizie incerte e a volte precipitose come il vento di Borea. Ho scacciato dalla mia mente il pensiero che tu sia rimasto vittima delle tempeste che sconvolgono i mari, e non so se devo credere a chi ti dice ancora vivo in balìa di Sirene o di Maghe o a chi addirittura annuncia ormai prossimo il tuo arrivo a Itaca.
Ciò che temo invece, più delle Sirene e della Maghe, è che tu sia stato sedotto dalle arti di una delle tante femmine perverse che gli dèi spargono sul cammino degli uomini, e che sia questa la vera spiegazione della tua lunga assenza. Anche gli uomini più solidi sono facile preda delle tentazioni. Molte voci sono giunte alle mie orecchie, e io ho cercato di soffocarle con la fiducia e con l’amore. Sono una donna debole e sola, ma in questi anni ho trasformato il mio letto in una fortezza inespugnabile mentre tu vai in giro non si sa dove per il vasto mondo.
Ho ingannato questi Proci ingordi e prepotenti con la favola della tela che continuo a tessere di giorno e a disfare durante la notte, ma già sento crescere i loro sospetti e mi preoccupo quando parlottano fra loro da orecchio a orecchio e fanno strani sorrisi di compatimento.
So che non devo mostrarlo, ma questi anni di attesa hanno logorato i miei buoni spiriti. Mi sono accorta che piango durante il sonno e quando improvvisamente mi sveglio di notte per disfare sul telaio il lavoro del giorno prima, il mio guanciale è bagnato per le lacrime versate nel sonno.
Ulisse
Il porcaio Eumeo è un uomo rustico ma generoso e soprattutto fedele al suo re Ulisse anche dopo venti anni di assenza. Mi sono presentato vestito come un mendicante, un mantello di stracci sulle spalle e una bisaccia a tracolla, e mi sforzo di camminare curvo reggendomi a un bastone, ma devo essere veramente ridotto male, o forse perfettamente travestito, se Eumeo non mi ha riconosciuto. Non poche volte, quando venivo a caccia da queste parti, mi ha visto vicino al suo recinto dove allevava i porci, e mi vedeva anche quando veniva nella reggia a consegnare le bestie che servivano alla mia mensa. Non mi ha riconosciuto, meglio così.
Eumeo mi ha invitato nella sua casa dove abita insieme a Galatea, una figlia adolescente che lo aiuta a pascolare i porci, gli prepara il cibo e gli rammenda i vestiti. È la prima volta che entro in questa casa. Era considerato sconveniente per un re entrare nella casa di un mandriano e se tentavo di farlo venivo trattenuto dagli uomini che mi accompagnavano. Coperto di stracci come un mendicante sono stato benevolmente accolto da Eumeo sotto il tetto che mi era vietato quando venivo qui in veste di re.
È una abitazione di pietre bianche murate con il fango e il tetto è di paglia, ma è pulita e il focolare non spande il fumo nell’unica grande stanza. Il pavimento è di terra battuta e il giaciglio che mi ha offerto Eumeo è di dura pietra coperta con pelli di pecora. Poche sono le suppellettili della casa, ma sufficienti per preparare minestre di fave o di farro e qualche boccone di carne arrostita. In un grande vaso di coccio tiene le olive in salamoia che abbiamo mangiato prima della cena sputando i noccioli nel fuoco del camino.
Ho fatto credere a Eumeo di essere figlio di un glorioso principe di Creta, di avere combattuto per nove anni sotto le mura di Troia insieme a Ulisse e, ritornato in patria, di avere ripreso il mare con una piccola flotta diretto in Egitto per avviare commerci con quel paese. Ma laggiù, gli ho raccontato, i miei compagni hanno tradito i patti e si sono abbandonati a vile saccheggio e solo per intervento di una dea amica ho avuto salva la vita. Ho raccontato che da quel lontano paese sono stato tratto su una nave fenicia per essere venduto come schiavo. A metà della navigazione verso la Tessaglia, mentre i miei aguzzini si fermavano su questa costa per cacciare qualche animale e imbarcare acqua non salata, sono riuscito a scendere dalla nave e a nascondermi nella boscaglia.
«Ed eccomi qua» gli ho detto «coperto di stracci come tu mi vedi, in quest’isola sconosciuta.»
«Questa è Itaca, la patria di Ulisse» ha detto Eumeo.
Avevo con tanto calore imbastito il mio racconto che io stesso mi sono commosso sul mio triste destino di principe diseredato e ridotto a mendico. Il povero Eumeo mi ascoltava con grandissima pena e ho capito che avrebbe voluto che il mio racconto proseguisse come una bella favola di avventure, ma io gli ho detto che non sono un profeta e che non potevo raccontargli anche il futuro.
Nessuno sa raccontare menzogne come so raccontarle io, ma pur sapendo che le mie storie erano pura invenzione, ho finito per lasciarmi andare a un vergognoso pianto dirotto. È la prima volta che mi succede di piangere tanto, dopo quelle lacrime che invano ho tentato di nascondere quando Demodoco, nella reggia dei Feaci, ha cantato con belle parole la storia del cavallo di Troia.
Come può succedere questa pioggia improvvisa di lacrime all’astuto e forte Ulisse, al mentitore sublime, all’abile tessitore di inganni? Ho attribuito questa mia sorprendente debolezza alla fatica che ha fiaccato non tanto le mie membra, che sono ben salde, ma la mia mente che si lascia impressionare dalle stesse parole che escono dalle mie labbra. Non voglio strapparmi i capelli per questo, ma come prima non sono riuscito a trattenere le lacrime così ora non riesco a trattenere il mio stupore.
Il buon Eumeo ha mostrato di credere ogni mia parola e quando gli ho raccontato di essere stato compagno di Ulisse sotto le mura di Troia mi ha abbracciato, mi ha rinnovato l’offerta della sua ospitalità e mi ha manifestato la sua pena per la lunga lontananza del suo re. Tali sono state le sue espressioni di fedeltà che quasi ho sospettato che mi avesse riconosciuto e che le sue parole fossero dettate da una piaggeria ben calcolata. Ma poi h...

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