Sulla fiaba
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Italo Calvino

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Sulla fiaba

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Un'indagine del grande narratore sull'origine, lo sviluppo e la funzione della fiaba e delle tradizioni popolari di ogni parte del mondo.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852016516

Le fiabe italiane

1. Un viaggio tra le fiabe

La prima spinta a comporre le Fiabe italiane è venuta da un’esigenza editoriale: si voleva pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere, una raccolta italiana. Ma che testo scegliere? Esisteva un «Grimm italiano»?
I grandi libri di fiabe italiani, si sa, sono nati in anticipo sugli altri. Già a metà del secolo XVI, a Venezia, nelle Piacevoli Notti di Straparola, la novella cede il campo alla sua più anziana e rustica sorella, la fiaba di meraviglie e d’incantesimi, con un ritorno d’immaginazione tra gotica e orientale alla Carpaccio, e un’incrinatura dialettale allo stampo della prosa boccaccesca. Nel Seicento, a Napoli, Giambattista Basile sceglie per le sue acrobazie di stilista barocco-dialettale i «cunti», le fiabe «de’ peccerille» e ci dà un libro, il Pentamerone (restituito alle nostre letture dalla versione di Benedetto Croce) che è come il sogno d’un deforme Shakespeare partenopeo, ossessionato da un fascino dell’orrido per cui non ci sono orchi né streghe che bastino, da un gusto dell’immagine lambiccata e grottesca in cui il sublime si mischia col volgare e il sozzo. E nel Settecento, di nuovo a Venezia, ma stavolta con sufficienza e ostentazione di concedersi a un gioco, l’astioso e supercilioso Carlo Gozzi fa calcare alle fiabe le tavole del palcoscenico, tra le maschere dell’Arte.
Ma era un divertimento grave e sforzato: l’ora della fiaba batteva intanto già dai tempi del Re Sole alla Corte di Versaglia, dove allo spirare del «Grand Siècle» Charles Perrault aveva inventato un genere, e finalmente ricreato sulla carta un prezioso equivalente di quella semplicità di tono popolare in cui la fiaba s’era tramandata di bocca in bocca fin’allora. Il genere diventò di moda, snaturandosi: nobildonne e précieuses si diedero a trascrivere e ad inventar fiabe; infiorata e candita nei quarantun volumi del Cabinet des Fées la fiaba prosperò e morì nella letteratura francese col gusto del gioco di fantasia elegante e temperato di simmetrica razionalità cartesiana.
Risorse cupa e truculenta all’alba del secolo XIX nella letteratura romantica tedesca, come anonima creazione del Volksgeist, da un’antichità ancestrale che aveva colore d’un atemporale medioevo, per opera dei fratelli Grimm. Il culto patriottico della poesia dei volghi si diffuse tra i letterati dell’Europa; Tommaseo cercò i canti toscani corsi greci illirici; ma le «novelline», (come nell’Ottocento da noi le fiabe si chiamavano) attesero invano che di tra i nostri romantici venisse il loro scopritore. Cresciuta alla scuola del Tommaseo, la «contessa contadina» Caterina Percoto compose in dialetto friulano racconti e leggende patriottici e morali di cui alcuni tolti dalla tradizione orale;1 e dal ceppo degli scrittori didascalici conservatori alla Cantù, il senese Temistocle Gradi (1824-87) nei suoi «saggi di lettura»2 per i giovani del popolo, riportò fiabe nella parlata vernacola per dare a quelle menti il pane che stimava meno corrompitore.
Ci vollero i diligenti studiosi di folklore della generazione positivista, perché ci si mettesse a scrivere sotto dettatura delle nonne. Essi credevano – col Max Muller – nell’India patria di ogni storia e mito umano se non pur dell’uman genere, e nelle religioni solari, talmente complicate che per spiegarsi l’aurora inventavano Cenerentola e per la primavera Biancaneve. Ma intanto, sotto il primo esempio dei tedeschi (Widter e Wolf a Venezia, Hermann Knust a Livorno, l’austriaco Schneller nel Trentino, e poi Laura Gonzenbach in Sicilia) si posero a raccogliere «novelline», Angelo De Gubernatis nel Senese, Vittorio Imbriani a Firenze, in Campania e in Lombardia, Domenico Comparetti a Pisa, Giuseppe Pitrè in Sicilia, chi in modo approssimativo e sommario, chi con uno scrupolo che riesce a salvarne e tramandarne fino a noi la freschezza. La passione si trasmise a uno stuolo di ricercatori locali, collezionisti di curiosità dialettali e di minuzie, che formarono la rete dei corrispondenti alle riviste di archivio folkloristico: il «Giambattista Basile» di Luigi Molinaro del Chiaro a Napoli, l’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», di Pitrè a Palermo, la «Rivista delle tradizioni popolari italiane» di De Gubernatis a Roma. Perfino Benedetto Croce diciassettenne, ignaro ancora di correr dietro ad uno pseudoconcetto, si faceva dettare dalle lavandaie del Vomero canti e filastrocche per il «Basile» di Del Chiaro.
S’accumulò così, specialmente nell’ultimo trentennio del secolo, per opera di questi mai abbastanza lodati «demopsicologi» (come per un certo tempo, con termine coniato dal Pitrè, si vollero chiamare) una montagna di narrazioni tratte dalla bocca del popolo nei vari dialetti. Ma era un patrimonio destinato a fermarsi nelle biblioteche degli specialisti, non a circolare in mezzo al pubblico. Un «Grimm italiano» non venne alla luce, sebbene già nel 1875 il Comparetti avesse tentato una raccolta generale di più regioni, pubblicando nella collana – diretta da lui e dal D’Ancona – dei «Canti e racconti del popolo italiano», un volume di Novelle popolari italiane e promettendone un paio d’altri, che non uscirono.
E il genere «fiaba», mentre da parte degli studiosi veniva confinato in dotte monografie, tra gli scrittori e i poeti non conobbe da noi la voga romantica che percorse l’Europa da Tieck a Puškin, ma divenne dominio degli autori di libri per bambini, con per maestro il Collodi, che aveva derivato il gusto fiabistico dai contes des fées secenteschi francesi.3 Ogni tanto, qualche illustre scrittore tentò il libro di fiabe per l’infanzia; ricorderemo, come eccezionale riuscita poetica, il C’era una volta… di Capuana, libro di fiabe nutrite insieme di fantasia e di spirito popolare.4 (Va poi ricordato che il Carducci portò le narrazioni di tradizione popolare nelle scuole, inserendo nelle antologie per i ginnasi da lui curate5 qualche novellina toscana del Pitrè e del Nerucci. E che il D’Annunzio, nel momento dei suoi maggiori interessi per il folklore, trascrisse e pubblicò con la sua firma, nella rubrica Favole ed Apologhi della «Cronaca Bizantina», alcune novelline abruzzesi raccolte dal Finamore e dal De Nino.)6
Ma la gran raccolta delle fiabe popolari di tutta Italia, che sia anche libro piacevole da leggere, popolare per destinazione e non solo per fonte, non l’abbiamo avuto. Si poteva fare oggi? Poteva nascere con tanto «ritardo» sulle mode letterarie e sull’entusiasmo scientifico? Ci parve che forse solo adesso esistevano le condizioni per fare un libro così, data la vasta mole di materiale reperibile e dato il distacco da un «problema della fiaba» più scottante.
Stando così le cose, si venne nell’idea che lo dovessi fare io.
Era per me – e me ne rendevo ben conto – un salto a freddo, come tuffarmi da un trampolino in un mare in cui da un secolo e mezzo si spinge solo gente che v’è attratta non dal piacere sportivo di nuotare tra onde insolite, ma da un richiamo del sangue, quasi per salvare qualcosa che s’agita là in fondo e se no perdercisi senza più tornare a riva, come il Cola Pesce della leggenda. Per i Grimm7 era lo scoprire i frantumi d’una antica religione della razza, custodita dai volghi, da far risorgere nel giorno glorioso in cui, cacciato Napoleone, si risvegliasse la coscienza germanica; per gli «indianisti» erano le allegorie dei primi ariani, che stupiti dal sole e dalla luna, fondavano l’evoluzione religiosa e civile; per gli «antropologi» gli oscuri e sanguinosi riti d’iniziazione dei giovanetti delle tribù, uguali nelle foreste di tutto il mondo tra quei padri cacciatori e ancor oggi tra i selvaggi; per i seguaci della «scuola finnica» delle specie di coleotteri da classificare e incasellare, ridotte a una sigla algebrica di lettere e cifre, nei loro cataloghi – il Type-Index e il Motif-Index – e nei loro tracciati delle fluttuanti migrazioni tra i paesi buddistici, l’Irlanda ed il Sahara; per i freudiani, un repertorio d’ambigui sogni comuni a tutti gli uomini, rubati all’oblio dei risvegli e fissati in forma canonica per rappresentare le paure più elementari. E per tutti gli sparsi appassionati di tradizioni dialettali, l’umile fede in un dio ignoto, agreste e familiare, che si cela nel parlare dei paesani.
Invece io m’immergevo in questo mondo sottomarino disarmato d’ogni fiocina specialistica, sprovvisto d’occhiali dottrinari, neanche munito di quella bombola d’ossigeno che è l’entusiasmo – che oggi molto si respira – per ogni cosa spontanea e primitiva, per ogni rivelazione di quello che – con un’espressione gramsciana fin troppo fortunata – si chiama oggi il «mondo subalterno»; bensì esposto a tutti i malesseri che comunica un elemento quasi informe, mai fino in fondo dominato coscientemente come quello della pigra e passiva tradizione orale. («Non sei neppure meridionale!» mi diceva un severo amico etnologo.) E nemmeno, per altro verso, ero catafratto dall’impermeabilità della distinzione crociana tra ciò che è poesia in quanto un poeta la fa propria e ricrea, e ciò che invece ripiomba in un limbo oggettivo quasi vegetale; ché anzi, non riesco a dimenticare neanche per un momento con quale misteriosa materia ho a che fare, e sto a sentire sempre affascinato e perplesso ogni ipotesi che le opposte scuole avanzano in questo campo, difendendomi solo dal pericolo che la teorizzazione faccia velo al godimento estetico che si può trarre da quei testi, e d’altra parte guardandomi dall’esclamare troppo presto «ah!» ed «oh!» di fronte a prodotti così complessi e stratificati e indefinibili. Insomma, ci sarebbe stato da chiedermi perché avevo accettato d’occuparmene, se non fosse per un fatto che mi legava alle fiabe, e che dirò più in là.
Intanto, cominciando a lavorare, a rendermi conto del materiale esistente, a dividere i tipi delle fiabe in una mia empirica catalogazione che via via ampliavo, venivo a poco a poco preso come da una smania, una fame, un’insaziabilità di versioni e di varianti, una febbre comparatistica e classificatoria. Sentivo prender corpo anche in me quella passione da entomologo che m’era parsa caratteristica degli studiosi delle «Folklore Fellows Communications» di Helsinki, una passione che rapidamente inclinava a trasformarsi in mania, per cui avrei dato tutto Proust in cambio d’una nuova variante del «ciuchino caca-zecchini», e tremavo di disappunto se trovavo l’episodio dello sposo che perde la memoria abbracciando la madre, al posto di quello della Brutta Saracina, e il mio occhio si faceva – come nei maniaci – d’una mostruosa acutezza, per distinguere al primo sguardo nel più ostico testo pugliese o friulano un tipo «Prezzemolina» da un tipo «Bellinda».
Ero stato, in maniera imprevista, catturato dalla natura tentacolare, aracnoidea dell’oggetto del mio studio; e non era questo un modo formale ed esterno di possesso: anzi, mi poneva di fronte alla sua proprietà più segreta: la sua infinita varietà ed infinita ripetizione. E nello stesso tempo, la parte lucida di me, non corrosa ma soltanto eccitata dal progredire della mania, andava scoprendo che questo fondo fiabistico popolare italiano è d’una ricchezza e limpidezza e variegatezza e ammicco tra reale e irreale da non fargli invidiar nulla alle fiabistiche più celebrate dei paesi germanici e nordici e slavi, e non solo nei casi in cui ci s’imbatte in uno straordinario novellatore orale – più spesso una novellatrice – o in una località di sapiente tecnica narrativa, ma anche proprio come generali qualità di grazia, spirito, sinteticità di disegno, modo di comporre o fissare nella tradizione collettiva un dato tipo di racconto. Così, più mi sospingevo nella mia immersione, più il controllato distacco con cui m’ero tuffato cadeva, e mi sentivo ammirato e felice del viaggio, e la smania catalogatoria – maniaca e solitaria – veniva scalzata dal desiderio di comunicare agli altri le visioni insospettate che apparivano al mio sguardo.
Ora, il viaggio tra le fiabe è finito, il libro è fatto, scrivo questa prefazione e ne son fuori: riuscirò a rimettere i piedi sulla terra? Per due anni ho vissuto in mezzo a boschi e palazzi incantati, col problema di come meglio vedere in viso la bella sconosciuta che si corica ogni notte al fianco del cavaliere, o con l’incertezza se usare il mantello che rende invisibile o la zampina di formica, la penna d’aquila e l’unghia di leone che servono a trasformarsi in animali. E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo: e le vite individuali, sottratte al solito discreto chiaroscuro degli stati d’animo, si vedevano rapite in amori fatati, o sconvolte da misteriose magie, sparizioni istantanee, trasformazioni mostruose, poste di fronte a scelte elementari di giusto o ingiusto, messe alla prova da percorsi irti d’ostacoli, verso felicità prigioniere d’un assedio di draghi; e così nelle vite dei popoli, che ormai parevano fissate in un calco statico e predeterminato, tutto ritornava possibile: abissi irti di serpenti s’aprivano come ruscelli di latte, re stimati giusti si rivelavano crudi persecutori dei propri figli, regni incantati e muti si svegliavano a un tratto con gran brusio e sgranchire di braccia e gambe. Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra.
Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere.
Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto; la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’am...

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