La terza rivoluzione industriale
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La terza rivoluzione industriale

Jeremy Rifkin, Paolo Canton

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La terza rivoluzione industriale

Jeremy Rifkin, Paolo Canton

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Il petrolio e gli altri combustibili fossili, le fonti energetiche su cui si basa l'odierno stile di vita nei paesi dell'Occidente, sono in via di esaurimento, e le tecnologie da essi alimentate stanno diventando obsolete. Intanto, i mali che affliggono il mondo globalizzato - crisi economica, disoccupazione, povertà, fame e guerre - sembrano aggravarsi anziché risolversi. A peggiorare le cose, si profila all'orizzonte un catastrofico cambiamento climatico provocato dalle attività industriali e commerciali ad alte emissioni di gas serra, e che già entro la fine di questo secolo potrebbe mettere a repentaglio la vita dell'uomo sul pianeta. La nostra civiltà, quindi, deve scegliere se continuare sulla strada che l'ha portata a un passo dal baratro, o provare a imboccarne coraggiosamente un'altra. E non ha molto tempo per farlo. Dopo trent'anni di studi e di attività sul campo, Jeremy Rifkin decreta la fine dell'era del carbonio e individua nella Terza rivoluzione industriale la via verso un futuro più equo e sostenibile, dove centinaia di milioni di persone in tutto il mondo produrranno energia verde a casa, negli uffici e nelle fabbriche, e la condivideranno con gli altri, proprio come adesso condividono informazioni tramite Internet. Questo nuovo regime energetico, non più centralizzato e gerarchico ma distribuito e collaborativo, e che segnerà il passaggio dalla globalizzazione alla «continentalizzazione », dovrà poggiare su cinque pilastri: la definitiva scelta dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili; la trasformazione del patrimonio edilizio in impianti di microgenerazione; l'applicazione dell'idrogeno e di altre tecnologie di immagazzinamento dell'energia in ogni edificio; l'unificazione delle reti elettriche dei cinque continenti in una inter-rete per la condivisione dell'energia; la riconversione dei mezzi di trasporto, pubblici e privati, in veicoli ibridi elettrici e con cella a combustibile per acquistare e vendere energia.
Ma, per risultare decisiva, questa «democratizzazione » dell'energia dovrà essere accompagnata da una rivoluzione culturale, il cui primo obiettivo sarà lo sviluppo di una «coscienza biosferica»: «Solo quando cominceremo a pensarci come un'estesa famiglia globale, che non include solo la nostra specie ma anche tutti i nostri compagni di viaggio nel cammino evolutivo della terra, saremo in grado di salvare la nostra comune biosfera e rinnovare il pianeta per le future generazioni».

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Parte prima

LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

I

La vera crisi economica
della quale non ci siamo accorti

Erano le cinque del mattino e stavo correndo sul tapis roulant. Ascoltavo distrattamente il primo notiziario della televisione via cavo quando ho sentito l’annunciatore assumere un tono eccitato: parlava di un nuovo movimento politico, battezzato «Tea Party». Ho fermato la macchina, perché non ero sicuro di aver sentito bene. Lo schermo era affollato di furibondi americani di mezza età che agitavano stendardi gialli con un serpente arrotolato e la scritta NON CALPESTATEMI; altri esibivano cartelli che reclamavano «Niente tasse senza rappresentanza», «Chiudiamo i confini» e «Il cambiamento climatico è una bufala». Il giornalista, che riusciva appena a far sentire la sua voce in mezzo allo schiamazzo, parlava di un movimento spontaneo che si stava diffondendo come un’epidemia in tutto il paese, in reazione all’invadenza del governo federale di Washington e dei politici di carriera progressisti che si preoccupavano solo di arricchirsi a spese dei contribuenti. Non riuscivo a credere a ciò che stavo vedendo e ascoltando. Era come se stessi assistendo a una perversa inversione di qualcosa che avevo organizzato quasi quarant’anni prima. Si trattava forse di un crudele scherzo del destino?
Il Boston Oil Party del 1973
16 dicembre 1973. La neve cominciò a cadere all’alba. Sentivo il vento freddo contro il viso mentre mi avvicinavo a Faneuil Hall, nel centro di Boston, quello che fu il luogo dove sovversivi e radicali come Sam Adams e Joseph Warren si riunirono per protestare contro le politiche coloniali di re Giorgio III e dei suoi emissari, fra i quali il più tristemente celebre era la Compagnia delle Indie Orientali.
Da qualche settimana sembrava che in città ci fosse il coprifuoco. Il traffico, generalmente frenetico e spesso bloccato in centro, era stato scarso per alcuni giorni, principalmente a causa del fatto che molti distributori di carburante erano rimasti a secco. Alle poche stazioni di servizio che avevano ancora benzina, gli automobilisti si mettevano ordinatamente in fila, per interi isolati, aspettando anche più di un’ora per fare il pieno. Chi era abbastanza fortunato da trovare benzina rimaneva scioccato dal prezzo raggiunto dai carburanti: il greggio era raddoppiato in poche settimane, creando un’isteria diffusa in tutto il paese che, fino ad allora, era stato il più grande produttore di petrolio al mondo.
La reazione pubblica era comprensibile, dato che erano state le ricche riserve petrolifere degli Stati Uniti e la capacità di produrre in grande serie automobili a prezzi accessibili alle masse popolari, in perenne movimento, a fare della nazione americana la prima superpotenza del Novecento.
Il colpo al nostro orgoglio nazionale venne senza preavviso. Solo due mesi prima, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) aveva dichiarato un embargo contro gli Stati Uniti, per ritorsione alle forniture militari offerte da Washington a Israele durante la guerra dello Yom Kippur. Lo shock petrolifero si riverberò rapidamente in tutto il mondo. Già a dicembre il prezzo del petrolio nel mercato mondiale era schizzato da 3 a 11,65 dollari al barile.1 La conseguenza fu il panico, a Wall Street come nelle case degli americani. Il primo e più evidente segno della nuova realtà veniva dai distributori di benzina: molti americani erano convinti che i colossi petroliferi stessero approfittando della situazione, aumentando arbitrariamente i prezzi per assicurarsi ingenti profitti. A Boston, come in tutto il paese, l’umore degli automobilisti era pessimo. Era questo il tumultuoso scenario dell’evento che si sarebbe svolto al Boston Wharf il 16 dicembre 1973.
Quella data segnava il duecentesimo anniversario del celeberrimo «Tea Party» di Boston: l’evento fondante della Rivoluzione americana, che ha catalizzato i sentimenti della popolazione contro la Corona britannica. Infuriati per un nuovo balzello imposto sul tè e su altri beni importati nelle colonie americane dalla madrepatria, Sam Adams raccolse una banda di rivoltosi, alcuni dei quali gettarono un carico di tè nelle acque del porto di Boston. «Niente tasse senza rappresentanza» divenne rapidamente lo slogan dei radicali. Il primo atto di aperta sfida al dominio britannico scatenò una serie di reazioni e controreazioni da parte della monarchia e delle tredici colonie, che sarebbe culminata con la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 e con il conflitto rivoluzionario.
Nelle settimane precedenti la celebrazione del Bicentenario stava montando la rabbia contro le grandi compagnie petrolifere. Molti americani erano furiosi per quella che consideravano una ingiustificabile speculazione sul prezzo da parte di ciniche imprese multinazionali e che minacciava di mettere a repentaglio quello che per il popolo degli Stati Uniti era diventato un diritto fondamentale, al pari della libertà di parola, di stampa e di assemblea: il diritto a carburanti a basso costo e alla mobilità automobilistica.
All’epoca avevo ventotto anni ed ero un giovane attivista formatosi nei movimenti contro la guerra nel Vietnam e per i diritti civili degli anni Sessanta. Un anno prima avevo lanciato una nuova organizzazione nazionale, la People’s Bicentennial Commission, che speravo potesse fungere da alternativa radicale alla ufficiale American Bicentennial Commission, creata dall’amministrazione Nixon per coordinare le commemorazioni dei diversi eventi storici che avevano condotto alla Dichiarazione d’indipendenza, il cui duecentesimo anniversario sarebbe stato celebrato tre anni dopo.
Avevo concepito l’idea di una celebrazione alternativa anche a causa della mia crescente disaffezione nei confronti della New Left. Essendo cresciuto in un quartiere operaio del South Side di Chicago – una comunità composta dalle famiglie dei lavoratori dei macelli, degli scali ferroviari e delle vicine acciaierie, oltre che da piccoli commercianti, meccanici, agenti di polizia e vigili del fuoco – avevo il patriottismo nel sangue: chi avesse visitato in un giorno qualunque il quartiere dove sono cresciuto non avrebbe potuto non notare la distesa di bandiere a stelle e strisce che garrivano al vento. Ogni giorno, in quell’angolo del mondo, si celebrava la Festa della bandiera.
Sono cresciuto nel mito del Sogno americano e ho sviluppato un profondo attaccamento alle idee radicali dei nostri padri fondatori – Thomas Jefferson, Benjamin Franklin, Thomas Paine, George Washington –, un ristretto gruppo di pensatori rivoluzionari che hanno messo a repentaglio la propria vita per la tutela dell’inalienabile diritto dell’uomo alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.
Molti miei compagni della New Left provenivano da contesti più privilegiati ed erano cresciuti nelle enclave suburbane dell’élite americana. Per quanto profondamente impegnati nella ricerca della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della pace, traevano la propria ispirazione da altre lotte rivoluzionarie a noi estranee e, soprattutto, dalle lotte anticoloniali del periodo postbellico. Ricordo innumerevoli riunioni nelle quali era il pensiero di Mao Tse-tung, di Ho Chi Minh e di Che Guevara a essere richiamato per indicare la strada e ispirare un’azione altruista. Per me, tutto questo era strano: ero cresciuto nel credo che fossero stati i nostri rivoluzionari la fonte di ispirazione per tutte le altre lotte anticoloniali dei due secoli passati.
Le celebrazioni del Bicentenario rappresentavano un’occasione unica per rimettere in contatto le giovani generazioni con la promessa radicale dell’America delle origini, soprattutto perché la linea ufficiale della Casa Bianca, dettata da Richard Nixon e messa in atto da legioni di sfruttatori commerciali, sembrava essere più radicata nei meccanismi monarchici del privilegio che nel senso di giustizia economica e sociale che aveva ispirato quei primi eroi americani che si supponeva dovessero essere celebrati.
Il nostro progetto era trasformare l’anniversario del Tea Party in una protesta contro le compagnie petrolifere. Non eravamo sicuri che qualcuno scendesse in strada e si unisse a noi: dopotutto, non c’era mai stata una protesta contro le «Sette sorelle», per cui non c’era modo di prevedere come avrebbe reagito la gente. Il mio timore per una partecipazione tanto bassa da metterci in imbarazzo crebbe smisuratamente quando cominciò a nevicare. Negli anni Sessanta le manifestazioni contro la guerra venivano sempre indette in primavera, perché così era più facile attrarre grandi folle. Tant’è vero che nessuno degli attivisti esperti nell’organizzare manifestazioni di piazza riusciva a ricordarne una tenutasi in pieno inverno.
Quando svoltai l’angolo di Faneuil Hall rimasi sbigottito: nelle strade adiacenti al palazzo c’erano migliaia di persone che inalberavano cartelli di protesta: «Facciamola pagare alle compagnie petrolifere», «Abbasso le Sette sorelle» e «Lunga vita alla Rivoluzione americana». L’atrio del palazzo era pieno di gente che scandiva slogan contro la Exxon.
Dopo un mio breve discorso ai convenuti, nel quale indicavo quella giornata come l’inizio di una seconda Rivoluzione americana per la conquista dell’«indipendenza energetica», scendemmo in piazza, seguendo lo stesso percorso dei rivoltosi di duecento anni prima, verso il Griffin’s Wharf. Lungo il percorso, migliaia di cittadini si unirono alla nostra manifestazione: studenti, operai, professionisti della classe media e intere famiglie. Quando raggiungemmo il molo dove era ormeggiata la riproduzione in scala naturale della nave della Salada Tea Company, il corteo aveva raggiunto le ventimila persone, allineate lungo il molo, che intonavano slogan contro le grandi compagnie petrolifere. La nostra manifestazione di protesta ebbe la meglio sulla cerimonia ufficiale, accuratamente orchestrata: accadde persino che una flotta di imbarcazioni da pesca provenienti anche da porti lontani, come Gloucester, fece irruzione nell’area del porto bloccata dalle motovedette della polizia, dirigendosi verso la nave della Salada Tea dove i rappresentanti del governo federale e locale attendevano alla cerimonia ufficiale. I pescatori salirono a bordo, presero possesso della nave, si arrampicarono sull’albero maestro e cominciarono a gettare nelle acque del porto barili di petrolio vuoti, invece delle casse di tè di duecento anni prima, accolti dalle grida di giubilo delle migliaia di manifestanti. Il giorno seguente, il «New York Times» e altri quotidiani nazionali si riferivano a quello che era accaduto a Boston come al «Boston Oil Party del 1973».2
Il crepuscolo della Seconda rivoluzione industriale
Nel luglio 2008, trentacinque anni dopo, il prezzo del petrolio nei mercati mondiali ha raggiunto il massimo storico di 147 dollari al barile.3 Appena sette anni prima si scambiava a meno di 24 dollari al barile.4 Nel 2001 ipotizzavo che si stesse preparando una crisi petrolifera e che in pochi anni il prezzo del petrolio avrebbe potuto toccare i 50 dollari al barile. Queste mie considerazioni furono accolte da un diffuso scetticismo, se non da pura derisione: «Non succederà mai» fu la risposta che ricevetti dalle grandi compagnie petrolifere, oltre che da un nutrito gruppo di economisti e geologi. Poco dopo, il prezzo del petrolio cominciò la sua lunga e inarrestabile ascesa. A metà del 2007, quando raggiunse i 70 dollari al barile, anche il prezzo dei beni e dei servizi in tutta la catena globale dell’offerta cominciò a lievitare, per la semplice ragione che quasi tutte le attività economiche della nostra economia globale sono dipendenti dal petrolio e dagli altri combustibili fossili.5 Per produrre gli alimenti di cui ci nutriamo ricorriamo a concimi e pesticidi derivati dal petrolio; quasi tutti i materiali da costruzione che usiamo – cemento, plastiche eccetera – sono derivati dai combustibili fossili, così come la stragrande maggioranza dei farmaci con cui ci curiamo; gli abiti che indossiamo sono, in massima parte, realizzati con fibre sintetiche petrolchimiche; trasporti, riscaldamento, energia elettrica e illuminazione dipendono quasi totalmente dai combustibili fossili. Abbiamo costruito un’intera civiltà sulla riesumazione dei depositi del Carbonifero.
Ipotizzando che il genere umano riesca a sopravvivere, mi domando spesso come le future generazioni – quelle che vivranno fra cinquantamila anni – considereranno questo specifico periodo storico. Probabilmente ci battezzeranno «popolo dei combustibili fossili» e chiameranno la nostra epoca Età del carbonio, così come noi ci riferiamo a epoche passate come all’Età del ferro o all’Età del bronzo.
Quando il prezzo del petrolio ha superato la soglia psicologica dei 100 dollari al barile – qualcosa di impensabile solo pochi anni prima – in ventidue paesi sono esplose proteste spontanee e scontri di piazza a causa del brusco e forte rincaro dei cereali: si sono avute proteste delle tortilla in Messico, della pasta in Italia, del riso in Asia.6 Il timore di un diffuso malessere politico ha innescato un acceso dibattito a livello globale sulla connessione fra il petrolio e il cibo.
Il 40% dell’umanità vive con due dollari al giorno, o anche meno. Anche la minima variazione del prezzo delle derrate basilari può mettere a repentaglio la sopravvivenza di masse oceaniche di persone. Rispetto ai livelli rilevati nel 2003, nel 2008 il prezzo della soia e dell’orzo era raddoppiato, quello del frumento triplicato e quello del riso quintuplicato.7 La Food and Agriculture Organization (FAO) delle Nazioni Unite riferiva che ogni giorno un miliardo di esseri umani va a letto affamato.
La paura si è diffusa nel momento in cui anche le classi medie dei paesi sviluppati hanno cominciato ad avvertire la pressione dei forti rincari dei prodotti petroliferi. Nei negozi, i prezzi dei generi di prima necessità hanno cominciato ad aumentare, quelli della benzina e dell’energia elettrica sono saliti alle stelle, e altrettanto è accaduto ai materiali da costruzione e da imballaggio, ai prodotti farmaceutici, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Alla fine della primavera i prezzi stavano diventando proibitivi e il potere d’acquisto è crollato in tutto il mondo. Nel luglio 2008 l’economia mondiale si è fermata: è stato quel grande terremoto economico che segnava l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili. Il crollo dei mercati finanziari, sessanta giorni dopo, non è stato che una scossa di assestamento.
La maggior parte dei capi di Stato, dei grandi manager e degli economisti deve ancora capire quale sia stata la vera causa del blocco dell’economia che ha scosso il mondo: continuano a credere che la bolla del credito e il debito pubblico non siano correlati al prezzo del petrolio, non capendo quanto siano invece intimamente legati al tramonto dell’era del petrolio. Quanto più a lungo l’opinione comune rimarrà distorta dalla convinzione che in qualche modo la bolla del credito e l’indebitamento pubblico non siano che il risultato di un fallimento nella supervisione di mercati deregolamentati, tanto più i leader mondiali resteranno incapaci di trovare una soluzione efficace alla crisi. Torneremo su questo punto fra poco.
Quanto è accaduto nel luglio 2008 è ciò che ho definito «picco della globalizzazione». Benché la gran parte del mondo non ne sia ancora consapevole, è chiaro che abbiamo raggiunto il limite estremo della possibile estensione della crescita economica globale­ nell’ambito di un sistema economico profondamente dipendente dal petrolio e dagli altri combustibili fossili.
Ciò che sto ipotizzando è che siano cominciate le fasi finali della Seconda rivoluzione industriale e dell’era del petrolio sulla quale essa si fonda. È una realtà dura da accettare, perché costringe l’umanità a una rapida transizione verso un regime energetico completamente nuovo e a un nuovo modello industriale, o ad affrontare il rischio di un crollo della civiltà.
La ragione per cui abbiamo raggiunto il limite della globalizzazione è il «picco del petrolio pro capite», da non confondere con il «picco della produzione petrolifera globale». Quest’ultimo è un termine in uso fra i geologi per indicare il momento in cui la produzione globale di petrolio raggiunge l’apice di quella che è nota come curva di Hubbert. Si raggiunge il picco della produzione petrolifera globale nel momento in cui è stata estratta la metà delle riserve petrolifere mondiali sfruttabili: l’apice della curva di Hubbert rappresenta il punto medio delle possibilità di estrazione del petrolio. Da quel momento in poi, la produzione declina con la stessa rapidità con cui è cresciuta.
Marion King Hubbert era un geofis...

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