Zeus e altri racconti
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Zeus e altri racconti

Valerio Massimo Manfredi

  1. 210 pages
  2. Italian
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Zeus e altri racconti

Valerio Massimo Manfredi

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Il giovane direttore di un museo di provincia incrocia per caso le tracce del più grandioso capolavoro scomparso dell'antichità. Un abile soldato al seguito di Attilio Regolo è costretto ad affrontare un nemico mostruoso e invisibile. Un templare sulla strada per Roncisvalle affida a un cavaliere una missione tanto misteriosa quanto cruciale per la sopravvivenza della Cristianità. Un tribuno romano è impegnato in un avventuroso viaggio sulla regina delle strade, la via Appia, e involontariamente viene implicato in uno dei più intricati gialli della Roma repubblicana. Un'altra Roma, agli albori del nuovo millennio, deve fare i conti con una situazione angosciosa e drammatica. Ecco i temi d'avvio di questi racconti di Valerio Massimo Manfredi. Profondo conoscitore del passato e narratore di talento, con la sua scrittura appassionante riesce a ricreare attorno ai suoi personaggi tutto il fascino, il colore e l'atmosfera di epoche solo in apparenza da noi distanti, muovendosi con pari disinvoltura e intensità narrativa nel vicino futuro come nel più remoto passato, si tratti della Spagna medievale, dei lidi africani durante la guerra punica o della Roma inquietante del terzo millennio.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2013
ISBN
9788852033230

Zeus

Da quando ero tornato dal mio ultimo viaggio in Grecia avevo un sogno ricorrente. Mi trovavo davanti al tempio di Zeus a Olimpia, con le sue colonne rovesciate e i rocchi allineati orizzontalmente uno dopo l’altro come tronchi d’albero tagliati a pezzi con la motosega. Coperti di incrostazioni, attorniati dalla vegetazione secca di luglio. Il frinire delle cicale isolava quel luogo dal resto del mondo come se quella vibrazione così potente avesse un significato, come se quel grido stridulo protestasse a Zeus il suo errore madornale: di aver concesso l’immortalità all’amante di Eos, l’Aurora, al ragazzo bellissimo, dimenticando di dargli l’eterna giovinezza, condannandolo a una ripugnante rugosità, alla vista eterna di carni cadenti e membra decrepite. Trasformato per pietà in una cicala che attende che passi la notte per ammirare il volto della sua amata. Per poi gridare, stridula, tutto il giorno, la sua disperazione fino al tramonto.
Il meriggio rovente, il bagliore accecante, il deserto di pietre. Ero solo davanti a quella maestosa rovina. Nessuno si aggirava nei dintorni nell’ora canicolare.
Ma a un tratto le cicale tacevano, un silenzio abissale scendeva sulla valle, l’aria era percorsa da un ronzio continuo, quasi elettrico, e le rovine si animavano, i blocchi si sovrapponevano l’uno all’altro come sollevati da una forza smisurata e invisibile. Lentamente ruotavano sospesi nell’aria in una danza irreale a cercare il giusto attacco, la coincidenza con le asperità del blocco sottostante. A una a una le colonne si ergevano poderose, rastremandosi, a mano a mano che crescevano, fino a ricevere il capitello che le concludeva e incoronava. Poi saliva l’architrave e poi il timpano che si popolava di statue…
Dietro di me, alla mia destra, uscivano dalle porte spalancate del museo con le loro protesi di metallo a sostituire gli arti perduti, con i crani calvi, privati degli elmi crestati, con i fori trapanati sul petto là dove c’erano le corazze e i baltei splendenti. Arrancavano faticosamente fra i ruderi sparsi, si arrampicavano sulle colonne in quell’aria attonita, sotto il cielo di metallo rovente, fino a occupare il loro posto.
Là ritrovavano la loro imponenza, la maestosa armonia di cui l’artista divino le aveva dotate. La loro epidermide di marmo piano piano prendeva colore, gli abiti, i capelli, gli occhi si rivestivano di tinte vivaci o di tonalità sommesse. Enomao mostrava la sua arrogante nudità, Sterope dall’altro lato sembrava distogliere lo sguardo e si ergeva immobile mentre l’auriga, corrotto, in ginocchio vicino alla ruota del carro, metteva in atto il suo intrigo mortale.
Ecco, l’immane santuario era ricomposto davanti a me in tutto il suo splendore. Lo vedevo, potevo toccarlo, sentirne il calore e le irregolarità, potevo anche sentirne l’odore, un odore di pietra porosa cui aderivano gli aromi della valle e del bosco sacro di pini e di olivi. In qualche modo mi rendevo conto che stavo sognando, ma avvertivo anche un forte senso di realtà, sentivo che c’era verità in quello che stavo vedendo, talmente nitida e forte era la visione.
Ora, davanti a me, con un cigolio lieve e continuo i pesanti battenti di bronzo si aprivano verso l’interno, mi invitavano a entrare e io salivo i gradini del podio, attraversavo il colonnato osservando per un momento dal basso la scena che incombeva dal timpano, l’elegante peplo di Atalanta, il giavellotto micidiale stretto nella mano di Enomao. L’interno era illuminato da una luce diffusa che spioveva dal grande lucernaio al centro della copertura e, mentre lo sguardo si abituava alla semioscurità della cella, mi appariva in tutta la sua maestosa possanza il dio supremo, gigante assiso, lo scettro nella mano, l’aquila ai piedi, grifagna, il torso muscoloso e levigato, d’avorio, il volto sublime incorniciato da riccioli folti, da una florida barba. Mi fissava con uno sguardo così intenso e penetrante da sembrare vivo. E lo era.
Ma qui si manifestava il sogno nella sua dimensione irreale, quando lui alzava il braccio sinistro a indicare l’oriente e alla base del trono lampeggiava intermittente un’iscrizione luminosa come nelle scritte pubblicitarie.
Grottesco! E tuttora, quando quel sogno torna ad agitare le mie notti, non riesco mai a leggere che cosa dice. La mia estasi si tramuta in irritazione come quando uno si sente preso in giro. La visione epica si trasforma in commedia, eppure ci casco ogni volta.
Non sono uno che crede alle fate. Ho passato i quarant’anni e sono il direttore di un museo di provincia nell’entroterra genovese. Certo non è il British Museum e nemmeno il Museo vaticano ma è una raccolta dignitosa e di una certa importanza. Mi ci hanno sistemato perché all’università non c’era posto e il mio maestro si era preso un’assistente molto carina che gli dava soddisfazioni che io non gli potevo dare. Inutile dire che il vecchio le aveva spianato la strada in ogni modo e l’aveva messa in cattedra nel giro di un paio d’anni scrivendole anche gli articoli e il libro da presentare al concorso.
Non me la sono presa. Forse al posto suo avrei fatto lo stesso. Sono celibe, single, come si dice adesso, ma me la cavo abbastanza bene. Ho sempre qualche amica che è gentile con me, e quando cominciano ad avere delle pretese me la svigno. Non sono il tipo che si sposa, che si mette a cambiare pannoloni, che si ricorda il giorno dell’anniversario e tutto il resto. Inoltre non ho più né mio padre né mia madre. Se ne sono andati a poca distanza l’uno dall’altra in meno di un anno. Sono solo, ma ho passione per il mio lavoro. Gli dedico corpo e anima e questo mi appaga.
Nel mio museo non ci sono importanti collezioni di statuaria greca o di preziose ceramiche. Un po’ di stele liguri, alcune tombe con il loro modesto corredo, delle iscrizioni funerarie romane con qualche bel ritratto repubblicano, pietre miliari e una discreta collezione di monete, sia repubblicane che imperiali. Ma all’università ho studiato soprattutto l’archeologia e la storia dell’arte greca, che continuo a coltivare perché sono la passione della mia vita anche se nel mio museo non c’è praticamente quasi nulla di quel genere. In particolare ho studiato a fondo gli aspetti tecnologici delle realizzazioni d’arte penetrando i più reconditi segreti degli antichi maestri.
Forse è per questo che ho certe allucinazioni oniriche? mi sono chiesto.
Il nostro cervello è una strana macchina: da studente scrissi una tesi di laurea sulla ritrattistica di Zeus, come era stato rappresentato nei secoli il volto del padre degli dei, ed ero arrivato a concludere che anche il Padreterno dei cristiani era in debito con il signore dell’Olimpo quanto a iconografia. Il mio pensiero fisso però, il mio pallino, come si dice dalle mie parti, era proprio lui, lo Zeus di Olimpia, il colosso creato da Fidia in avorio e oro, una delle sette meraviglie del mondo antico. Avevo inoltre creato un’immagine digitale, una specie di schema dei punti di forza del colosso che, per le sue caratteristiche costruttive, doveva presupporre a livello ingegneristico un calcolo statico estremamente complesso e sofisticato.
Ed ecco che, dopo il giro di boa dei quaranta, mi sogno questa roba. La mia mente, libera di notte di muoversi come vuole, mi dà la misura netta di quanto sia in realtà ossessiva questa mia passione. Una cosa che con i colleghi non ammetterei mai perché mi farebbe sembrare un dilettante, uno di quelli che leggono le storie di fantarcheologia – il Graal, la grande piramide – e si beve tutta la paccottiglia televisiva e giornalistica che viene propinata ogni giorno agli ingenui.
Sono anche salito sull’Olimpo. Non ho difficoltà ad ammetterlo. E ho rischiato una polmonite. Un giorno di marzo in cui poi si era guastato il tempo e a momenti ci resto secco. Non ho certo avuto epifanie. Solo nubi basse, vento gelido e nevischio. Chiuso l’argomento.
Adesso mi trovavo, da qualche giorno, a Istanbul, una delle mie città predilette, anzi forse quella che amo di più, per le sue atmosfere, il suo fascino, la sua straordinaria bellezza. Ci sono stato la prima volta da ragazzo, da studente universitario con gli amici, e me ne sono innamorato: un alberghetto da pochi soldi ma in pieno centro, e poi via per le stradine congestionate, nel frastuono dei mercati, dei clacson, dei venditori di ciambelle, dei lustrascarpe e dei negozianti che propongono la loro merce. Ecco, ho pensato che un bel bagno nella metropoli del Bosforo, nella più grande città islamica d’Europa, mi avrebbe tolto dalla mente certi ricorsi maniacali che avevano ormai le caratteristiche di una vera e propria fissazione. La voce del muezzin dai minareti, le moschee sotto la luna, il Serraglio, la Sublime Porta, il çay bollente e profumato, il sish kebab… insomma, tutto quello che ci può essere di anticlassico è concentrato in questa metropoli spettacolare: quindi mi sarei rimesso in equilibrio.
A dire la verità c’era stato anche un altro motivo altrettanto forte a spingermi verso il Bosforo: avevo una vecchia fiamma in città, Leyla, conosciuta all’Università per stranieri di Perugia durante un breve incarico di insegnamento. Allora avevo poco meno di trent’anni, lei venti. C’era stata una storia fra noi, piuttosto intensa. Avevo rischiato di innamorarmi, anzi, mi ero innamorato per davvero, ma poi mi ero tirato indietro, come al solito. Mi era rimasto però un rammarico, una nostalgia che ogni tanto mi prendeva e non mi lasciava per giorni o per settimane. Chissà, forse ero venuto a Istanbul con la speranza di rivederla, anzi, più che una speranza: lei mi aveva scritto una lettera chiedendomi il mio parere su alcuni problemi di carattere scientifico a proposito di una pergamena che stava studiando, uno dei tanti tesori della biblioteca del Serraglio, e io le avevo risposto con una lettera più circostanziata di quello che mi veniva richiesto. Mi ero portato il suo numero di telefono e avevo intenzione di chiamarla, ma quando lo feci mi rispose una voce maschile e riattaccai. Forse si era sposata. Anzi, di sicuro. Peccato.
Me ne andai verso piazza Sultan Ahmet a smaltire il disappunto, entrai nel giardino di Topkapi e raggiunsi il caffè del Museo archeologico, un locale vecchia maniera, molto accogliente, con i tavolini sul ghiaietto, all’ombra dei platani. Ricordavo ancora un po’ di turco, e mentre aspettavo un caffè presi a sfogliare «Milliyet» sperando in cuor mio, anche se non volevo ammetterlo, che lei sarebbe anche potuta passare di lì entrando o uscendo dall’edificio in cui lavorava. Certamente doveva essere ancora bella, anzi, forse lo era ancora di più: una donna che ha passato i trenta è nel pieno del suo fascino.
A un tratto udii una voce alle mie spalle: «Posso sedermi?».
Incredibile. Era lei.
«Leyla, che cos’è, una magia?»
«No» rispose. «È normale. Lavoro qui e prendo sempre il caffè a quest’ora. Chiunque venga qui mi incontra. Come vedi, nessun miracolo. La tua lettera mi è stata di grande aiuto, ma non avrei mai sperato che tu venissi di persona.»
«Come stai? Ti trovo magnificamente.» Era una banalità, ma non mi era uscito nulla di meglio.
«Bene» rispose lei. «Come mai hai deciso di venire a Istanbul? E come mai non mi hai detto niente? Non hai nemmeno telefonato.»
«Avevo bisogno di un po’ di riposo e questa città mi rilassa e poi… avevo anche voglia di rivederti. Sai, ti avevo chiamato oggi. Mi ha risposto tuo marito.»
Sorrise. «Non è mio marito. È mio fratello: quando passa da Istanbul si ferma da me. Lo sai, nella mia famiglia il fatto che io viva da sola in città è motivo di scandalo. Almeno lui non me lo fa pesare e non mi fa sentire in colpa.»
Era sempre bellissima: occhi fondi, verdemare, colorito pallido, capelli nerissimi e un corpo ancora perfettamente tonico....

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Manfredi, V. M. (2013). Zeus e altri racconti ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3301689/zeus-e-altri-racconti-pdf (Original work published 2013)

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Manfredi, Valerio Massimo. (2013) 2013. Zeus e Altri Racconti. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3301689/zeus-e-altri-racconti-pdf.

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Manfredi, V. M. (2013) Zeus e altri racconti. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3301689/zeus-e-altri-racconti-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Manfredi, Valerio Massimo. Zeus e Altri Racconti. [edition unavailable]. Mondadori, 2013. Web. 15 Oct. 2022.