Il profumo di mio padre
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Il profumo di mio padre

L'eredità di un figlio della Shoah

Emanuele Fiano

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Il profumo di mio padre

L'eredità di un figlio della Shoah

Emanuele Fiano

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Prefazione di Liliana Segre «Domani spariranno i testimoni e io racconterò a chi non può credere, che tutto ciò è successo. A noi spetta memoria. Sarà per sempre il nostro Kaddish ». «Noi figli dei sopravvissuti alle camere a gas di Birkenau non siamo normali. Lo sa bene la mia amata moglie e lo sanno i miei figli, e forse le mogli di tutti i figli della Shoah e i loro amati figli. Come prima le nostre madri o padri. Noi non abbiamo ascoltato solo parole dolci e tenere dai nostri padri, non solo favole ci è capitato di ascoltare, ma il silenzio impastato di lacrime e urla».
È così che Emanuele Fiano, oggi deputato del Partito democratico, in prima linea, da sempre, contro i rigurgiti del neofascismo e dell'antisemitismo, tratteggia in poche parole il senso di questo sentito memoriale. La storia della sua famiglia è segnata dalla tragedia degli scomparsi e dal dolore e dal ricordo dei vivi. Tra Nedo, il padre sopravvissuto ai campi di concentramento, ed Emanuele, il figlio "politico", viene alla luce un rapporto fatto di silenzi, odori e mistero, tenerezze reciproche e scoperte rivelatorie. Il profumo di mio padre è il tentativo di un passaggio di consegne di una memoria preziosa e indimenticabile e una riflessione attualissima sul male e sugli orrori del passato; e, allo stesso tempo, un esempio di come si possa trasformare la catastrofe in un messaggio straordinariamente educativo per le generazioni future, come è accaduto con i libri di Liliana Segre e Primo Levi.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858525845
LA COSCIENZA
13

Mauro, papà

Ci sono uomini che incontri, o addirittura da cui sei stato generato, uomini le cui origini, le cui età e le cui storie sono diverse. Eppure, capita che le loro diverse vicende, a volte, attraversando il tempo e la geografia, si intersechino, generino sovrapposizioni e percorsi paralleli, oppure contraddizioni e confronti, che ti mettono di fronte alla vita, in tutte le sue sfaccettature.
Mauro è stato mio compagno di stanza nel corso di un ricovero; era un uomo dolce e segnato nel volto da rughe di età e di lavoro. Aveva paura di non guarire; nella sua vita aveva fumato tanto, aveva respirato tanto carbone, aveva faticato tanto. Verso il termine della propria vita, purtroppo, pagava tutto. Veleggiava verso l’ottantina, da oltre 60 anni abitava nell’hinterland milanese raggiunto a 17 anni dal suo paese in Puglia, dove il lavoro in città mancava e il lavoro in campagna non gli piaceva. Il racconto della sua vita mi faceva pensare ai tanti ricordi di mio padre sull’hinterland milanese alla fine degli anni Cinquanta, quando papà lavorava a Busto Arsizio e a Villa Cortese. Racconti di nebbia e di rabbia. Delle sveglie all’alba a Milano, dei debiti per la casa nuova, delle pause pranzo passate all’autogrill, quello dei tre archi sulla Milano-Laghi, nel parcheggio, con tutti i bigliettini scritti fitti e appiccicati con lo scotch alle pareti, come raccontava Nando, suo collega e amico, con gli appunti degli esami che papà preparava, sempre per tener fede alla promessa fatta alla Nella.
Negli stessi anni, la sorella di Mauro aveva bussato ai tanti cantieri della ricostruzione milanese del 1953 e aveva trovato per lui un’occasione da manovale, ma le resistenze della madre a farlo partire gli avevano fatto perdere l’occasione, e per lui il primo impiego fu poi da carbonaio. Mauro era forte, giovane, integro; il peso di carbone e tronchi vari non lo stancavano e mise radici. La madre che non voleva farlo partire, era, come il padre, comunista, in quella terra dove i contadini resistevano, o cercavano perlomeno di resistere, ai soprusi, ma soprattutto dove la povertà più totale era la lingua comune. Di Vittorio era di lì vicino, e le battaglie agrarie nascevano lì. La madre fu arrestata insieme ad altre donne che protestavano verso la fine degli anni Quaranta, durante i moti del 1949, sciopero pugliese della Federbraccianti in concomitanza alle grandi manifestazioni in tutto il Sud, specie Calabria e Sicilia, guidate da Pci e Cgil, mentre era in corso la battaglia parlamentare per la riforma agraria per la riassegnazione delle terre incolte ai braccianti.
Papà, invece, non ha mai avuto dimestichezza con la politica, né amore, io credo forse per via dell’innamoramento politico indicibile di suo padre per colui che lo consegnò poi ai suoi assassini, ma un giorno, e solo quella volta, mi raccontò che a Prato nella lavanderia dove prese a lavorare subito dopo il ritorno, proprio il Primo maggio del 1946, papà prese uno sgabellino, ci salì sopra e fece il suo primo e unico, credo, comizio politico di fronte ai compagni di lavoro, parlandogli di quella ricorrenza, dei loro diritti e del lavoro come medicina dell’uomo.
Probabilmente parlava anche di sé, e di come quella medicina lo stesse salvando dai fantasmi e dagli incubi, e di come lui avesse conosciuto l’atroce beffa dell’«Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi), e del diventare schiavi insieme a suo padre, a poche centinaia di chilometri da dove stava parlando allora, tra uomini come loro, nello stesso tempo, sotto lo stesso cielo.
Chissà che parole e che pensieri lo attraversarono in quel primo maggio, non più schiavo, ma libero, a celebrare il lavoro come diritto dell’uomo.
Mauro nel 1949 ha invece 13 anni, è il sesto e ultimo figlio della sua famiglia in un paese della provincia di Bari. Abitano in una stanza in 8, una stanza e basta, senza bagno, solo una tenda li divide da un secchio, per i bisogni, e vicino alla porta uno svuotatoio, un bugliolo avrebbe detto il babbo. L’odore di bisogni riempiva i polmoni di tutti, la stanza non aveva finestre, per cucinare accendevano un fuoco fuori dalla porta. C’era un camino per scaldarsi ma non per cucinare. Davanti alla porta si svolgeva anche la cerimonia della separazione del grano dalla paglia, che sfruttava il vento della sera al tramonto, facendo scivolare il grano dall’alto, il vento separava la paglia. Poi i chicchi puliti venivano portati al molino, e scambiati con la farina, un chilo per un chilo. La mamma preparava l’impasto la notte, metteva le pagnotte a lievitare su un’asse, per terra in stanza, all’alba verso le 4 passava il fornaio, ritirava le pagnotte, e anche una focaccia con i pomodorini, e li portava al forno a cuocere, poi tornava la mattina con il pane pronto per la giornata, alle prime ore del giorno. Era questo il cibo del giorno: pane, pane, pane, pomodoro, cipolla, olio portato dal fratello bracciante. Pane, quello che papà sognava in campo, e che Olderigo sognava in Austria nel 1915.
Mauro ricorda da piccolo un grande bombardamento, ricorda i bengala in cielo e la mamma che lo porta correndo a nascondersi sotto foglie grandi grandi. Ricorda bene, è un famoso e terribile bombardamento del porto di Bari del 2 dicembre del 1943, a opera di 100 aerei della Luftwaffe; fu terribile l’esplosione della stiva di una nave inglese carica di armi chimiche micidiali, 1.000 morti nei giorni successivi per i gas sprigionati, ma questo Mauro non lo poteva sapere, ricorda i bengala e la paura vista da lontano.
Mentre raccontavo a papà di questo terribile bombardamento, lui si perse con gli occhi lontano e mi raccontò di nuovo, perché lo aveva già raccontato, che a Stutthof, un campo di aviazione, gestito dai militari della Luftwaffe, trasformato in campo di concentramento, dove lui transitò dopo Auschwitz, gli alleati effettuavano continuamente bombardamenti per distruggere le piste, ma che lui quelle bombe non le sentiva o non le voleva sentire, spossato com’era, e mentre i compagni di prigionia cercavano un rifugio quale che fosse, lui imperterrito, anche perché credo fosse ormai del tutto sconsolato per aver perso l’ultimo amico italiano che gli era rimasto, Giulio Levi, non voleva assolutamente perdere il sonno e rimaneva a dormire in quelle specie di letti a castello di legno, senza neanche svegliarsi, diceva, per le bombe scoppiate vicino.
Una volta al mese la mamma di Mauro comprava un po’ di carne di cavallo per fare uno spezzatino, ogni sera invece in una pentola un po’ di acqua scaldata per ammorbidire il pane e pomodoro sopra le fette, come fossero friselle. Mentre Mauro raccontava dei suoi pasti, io pensavo ai racconti di mio nonno Olderigo, conservati in piccolissimi diari scritti a matita, di quando era prigioniero degli austriaci durante la Prima guerra mondiale a Sigmundsherberg, e dove annotava con meticolosità che ho poi capito a chi avesse trasmesso, ogni cibo che mangiavano, e l’elenco era incredibilmente simile ai racconti dell’alimentazione di Auschwitz che faceva papà, e forse a quella di tutti i prigionieri di guerra in ogni tempo: «Oggi, 25 gennaio 1918, acqua calda con le rape, due gallette, caffè; 26 gennaio, alle 8.15 caffè. Alle 11.15 3 sardine, 1/2 pane, rape e acqua calda», e via dicendo.
Mauro studia fino alla terza elementare, poi comincia ad aiutare la mamma; va nei campi “a spicolare”, come dice lui, cioè passa con il fratello, con il padre, con la sorella e con la madre dopo il raccolto e raccoglie quello che è rimasto per terra, le spighe lasciate dalla macchina o dalla falce; lavorano la mattina presto, le spighe sono bagnate e non si possono battere, allora vengono messe in un sacco appeso sul davanti, sul petto, in attesa che si asciughino e poi vengono stese su un panno al pomeriggio, per l’asciugatura finale, poi vengono battute per tirare fuori i chicchi di grano che sono il guadagno del giorno. A pranzo si fermano in una casupola per pastori, sul fuoco la mamma mette un filo d’olio in padella, pomodoro, cipolle rosse, ci si intinge un pane duro portato da casa. I campi dove lavoravano erano lontani 5, 10 chilometri, da raggiungere a piedi. Ogni giorno, andata e ritorno, la mamma sul capo portava il pane, la padella, l’olio.
Un giorno un temporale fortissimo coglie Mauro e la sorella al ritorno, non ci sono ripari, Mauro è zuppo, si ammala, polmonite, febbre alta, lo curano con le lumache sulla schiena (forse sanguisughe penso io), porta ancora le cicatrici. A ottobre/novembre c’è un lavoro simile da fare con le olive, che vengono poi vendute ai grossisti. Il lavoro della famiglia di Mauro è questo, spicolavano, vivevano di quello che rimaneva dei raccolti di altri. Pane, olive, pomodori, la frutta dei campi, la carne rarissima. Solo un fratello è bracciante. Quando arrestano la mamma, Mauro ha 13 anni, il fratello più grande invece è già adulto, vende verdura in un paese vicino con un carretto a mano, a Corato, non vuole che il ragazzo rimanga solo, lo accoglie in casa sua, Mauro lo accompagna con il carretto. Ma il giorno dell’arresto Mauro è ancora in paese, con la mamma in casa quando arrivano i carabinieri a prelevarla. Mauro rimane solo, piange, va la mattina con il fratello a vendere fave per strada, passa il trasporto sui camion delle donne arrestate, Mauro rivede la mamma andare via, scomparire in fondo alla strada, ne rimane scioccato, traumatizzato.
È maggio. La mamma rimane in carcere più di un anno, a Trani, viene accusata di colpe inesistenti, Mauro piccolino la seguiva nei cortei, la mamma guidava i cortei con il pugno chiuso, era la leader comunista contadina del paese. Il carcere la piega, il volto e il corpo rimangono semi paralizzati, per sempre, non sopravvivrà molti anni.
Così il ragazzo raggiunge il fratello, incomincia una nuova fase della sua crescita. Dopo 4 anni, la chiamata a Milano dalla sorella grande, un po’ di attesa, poi la partenza.
Milano è lontana, lontanissima, Mauro parte con il treno, la sorella lo avvisa che sarà arrivato quando vedrà la nebbia.
Mio papà venne invece a Milano perché rispose a un annuncio sul giornale: cercavano un tecnico di stampa di tessuti per uno stabilimento tessile alle porte di Milano, papà a Milano c’era già stato, ma solo alla stazione, perché durante il periodo in cui furono nascosti in via de’ Bardi, papà si era organizzato un commercio al mercato nero di pezzature di stoffe, fra Prato e Milano, che lui eseguiva in treno, con sprezzo assoluto del pericolo e con totale esagerata sicurezza, che infatti una volta quasi gli costò l’arresto, ma credo che conoscesse solo la stazione o giù di lì. Mentre invece la prima volta che venne a Milano, per il primo colloquio, ormai nel mondo del dopo, papà racconta che il tram lo portò a Cordusio, che lui scese, vide tutti questi palazzi giganti, questo traffico, del centro di Milano, queste macchine lucenti, questi tram, si sentì girare la testa, si dovette sedere, si mise la testa tra le mani e pianse. Lui ragazzo di Santa Croce che era l’ultimo sopravvissuto e che arrivava ora a Milano, lontano da Firenze, da Auschwitz, e dal suo passato.
La nebbia Mauro la vede a Parma, e scende dal treno, è nella terra della nebbia, lontano dalla spicolatura, dalla stanza senza finestre, dalla mamma paralizzata, dal carretto spinto a mano dal fratello, ma non sa di non essere ancora arrivato, pensa che quel bianco latte dell’aria sia Milano; poi chiede e risale.
La Stazione Centrale era grande come un paese mi dice, grande, grandissima, i binari non finivano mai, ma in larghezza non in lunghezza. Scale mobili, roba mai vista. Biglietterie a non finire, poi edicole. Insomma, numeri e dimensioni di un altro mondo. La sorella gli aveva dato istruzioni precise, c’è un tram, forse il numero 1, che arriva direttamente al paese dove abita, appena fuori Milano. Un altro viaggio, diverso, tutte case, una attaccata all’altra, non c’è la campagna, i campi, i frutteti, gli oliveti; no, ci sono case, capannoni, fabbriche, nebbia, tanta nebbia, per la prima volta. Ma Mauro è aperto, gli piace, si guarda intorno, conosce.
Un pomeriggio esce di casa senza meta, la sorella lo prega di non allontanarsi, le strade sono complicate, si può perdere, ma lui è un po’ orgoglioso e un po’ incosciente, arriva a un bar e rimane rapito dalla scena di un piccolo cinema appeso al muro, entra e si siede, rapito. A lui il cinema piaceva. È il 1953 e quella è la televisione. Si dimentica di rientrare, si dimentica il nome della via, lo viene a recuperare la sorella, impaurita, nella nebbia della Milano di periferia, lui è ipnotizzato. Un carbonaio lo assume, è qualche anno prima dell’arrivo di Salvatore a piedi da Porto Torres, ma la nebbia è la stessa, sono gli stessi anni in cui arriva Giuseppe dalla Sicilia. Pochi anni prima dell’arrivo dei Fiano.
Mauro è forte, carica e scarica, con le gerle da 25 chili porta su e giù per le scale i carichi di carbone negli appartamenti, 3,4,5,6 piani, tutto il giorno. A Milano fa freddo, le case vanno riscaldate, e usano tutti il carbone. La notte dorme dove arrivano i carichi dei camion da scaricare, possono arrivare a qualsiasi ora. Anche alle due di mattina, il padrone chiama Mauro e gli altri, bisogna scaricare subito, quello che non si riesce a rovesciare direttamente nella carbonaia va ripreso a badilate e messo dentro, una o due ore di lavoro. Il carbone si respira a pieni polmoni e certo non gli ha fatto bene. Non c’è orario. La paga è circa di 10.000 lire a settimana.
Papà intanto si fa notare, è bravo, disegna tessuti, ma poi ha evidentemente capacità organizzative, cresce, conquista incarichi di rilievo, cambia varie aziende. Una è quella del cane Ciak, guardiano della fabbrica, il cui cortile presidiava ventiquattro ore su ventiquattro, quello che covò la vendetta verso un operaio cattivo per diversi mesi, e poi il giorno giusto, balzò su di lui da un armadio, mordendogli il dietro della scarpa fino a staccarglielo, con l’operaio morto di paura che si dimise, per la paura di ulteriori vendette, e con papà che raccontandolo rideva a crepapelle, con le lacrime agli occhi. Nedo sta rinascendo, fa amicizie, aumenta il suo stipendio, anche la famiglia è cresciuta, forse il buco nero del trauma di Auschwitz rimane in questi anni in fondo al cuore, si impegna a laurearsi e a lavorare.
Mauro, nel frattempo, apprezza la paga, si compra un motorino, è un Aquilotto Bianchi, così lucido che ci si poteva specchiare, mi dice che è un 50cc, è una via di mezzo tra una bici e un motorino, l’avvio è a pedalata, il motore si può anche tenere staccato, e rimane una bicicletta pesante. Con la moto, si sa, si attira. Lui ha ora 19 anni, un giorno va a trovare un compaesano che ha fatto fortuna, ha un’ortaia, insomma è un agricoltore che vende i prodotti all’ingrosso all’ortomercato, al verziere come dice Mauro con perfetto accento milanese. Il compaesano aveva richiesto all’ufficio di collocamento del suo paese di origine 7/8 braccianti donne, per i lavori dell’orto, raccolta, selezione, pulitura. Perché giù chiedo? Perché qui non ne trovava di donne disponibili a lavori così. Uno dei tanti rivoli dell’immigrazione dal Sud, che tutti sembrano dimenticarsi quando pensano alla forza del Nord.
Comunque, galeotta fu l’ortaia. Mauro incontra L., una delle ragazze salite dal paese per questo lavoro, è appena arrivata, è tutta sporca di fango, ma bella, forte, compaesana, Mauro se ne innamora, L. non si sa. Ma i ragazzi fissano subito di andare a ballare dopo pochi giorni. C’è un circolino di una sezione comunista. Si rincontrano, Mauro conosce la mamma, poi l’accompagnamento sull’Aquilotto una a una di tutte le ragazze e della madre, verso l’ortaia dove dormono, e dove come Cenerentola si deve rientrare alle 24. L. ovviamente rimane ultima da accompagnare e l’Aquilotto diventa la carrozza più bella del mondo.
Ma Mauro non si fa mancare nulla della classica storia italiana. Quando vede come dorme male L. in uno stanzone senza mura e senza armadi con le altre ragazze, decide che è il tempo della fuitina. Detto fatto, si va a casa della sorella. Ma una fuitina è per sempre e L. rimane per sempre al fianco di Mauro. Poi 4 figli e una vita insieme.
Un giorno Mauro scivola dal camion del carbone, cade e si fa male, va in malattia un mese, poi ancora qualche giorno, ma alla fine l’assegno di malattia che riceve non lo convince, litiga, pretende i suoi diritti, memore delle battaglie della madre. Il rapporto di lavoro si rompe, dopo 9 anni. Anni Sessanta, hinterland milanese, va molto il riciclo di metallo, l’industria metallurgica mangia, le fonderie lavorano h24, Mauro compra un autocamion insieme ad un nipote, girano le case e i cortili alla ricerca di scarti di metallo che poi rivendono ai grossisti.
Prima la casa era una cantina, topi grossi da morire, costava poco ma bisognava andarsene; con il metallo arriva la prima casa vera, a piano terra, umida, una casa vecchia, un ex fienile, senza pavimento. Intanto arriva la prima Fiat 600, quella con le porte che si aprivano al contrario, la macchina della mia infanzia. Un giorno accompagnando a Milano un cognato, qualche bicchierino di troppo, al curvone con cui si arriva a Milano la 600 si ribalta di fianco, fa scintille con il marciapiede, il cognato si spaventa a morte, ma niente feriti, solo tanto spavento.
Erano gli stessi anni in cui in casa mia c’era la 1.100 due cerchioni di cui parlavano i miei fratelli, ma io quella non me la ricordo, ho solo vaga l’impressione di quella 600 con le porte che si aprivano al contrario e i sedili ribaltabili come nei taxi di Londra. Da qualche parte ci deve essere anche una foto del papà e della mamma su una Lambretta, la mamma con foulard e gambe da una parte, e papà sorridente, con quegli occhi ...

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