Nel nome della pietra
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Nel nome della pietra

1386-1406 c'è un segreto celato in ogni pietra del Duomo di Milano

Cristina Fantini

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Nel nome della pietra

1386-1406 c'è un segreto celato in ogni pietra del Duomo di Milano

Cristina Fantini

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Il Duomo di Milano come nessuno lo ha mai raccontato. Milano, 1385. Forza, conquista, potere. Sono queste le parole che guidano i pensieri di Gian Galeazzo Visconti, da poco divenuto signore della città dopo aver deposto e fatto arrestare lo zio Bernabò. Quando l'arcivescovo di Milano gli prospetta l'idea di una grande cattedrale che sostituisca la chiesa di Santa Maria Maggiore, il conte di Virtù, da sempre devoto alla Vergine, approva il progetto anche se la decisione non ha nulla di religioso. Diventerà potente, espanderà i confini del ducato e la cattedrale dovrà essere il simbolo della sua grandezza. Per costruirla, si circonda dei migliori architetti e scultori, i maestri campionesi, tra i pochi in grado di portare a termine un progetto tanto ambizioso. Nelle schiere di ingegneri e artigiani, operai e artisti, vi sono Alberto e Pietro, gemelli separati alla nascita. Falegname l'uno, scultore l'altro, uniti da un solo ineludibile destino, quello di contribuire a una delle più grandi imprese che la nostra storia ricordi: la costruzione del Duomo di Milano.
Tra segreti di corte, passioni e giochi di potere, un romanzo che celebra la grandezza di uno dei simboli della nostra civiltà attraverso le vite dei potenti che lo vollero fortemente e di coloro che, con l'ingegno e la fatica, lo fecero sorgere dal nulla. Queste pagine celebrano la loro memoria.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858524008
1

Le conseguenze della debolezza

Campione, settembre 1371

Costanza si aggiustò la cuffietta che profumava di acqua fresca. La margherita ricamata sulla falda era al centro, la sfiorò con l’indice. Nonostante il cotone non fosse di pregio era soddisfatta. Merito delle sue dita, che trovavano il giusto equilibrio tra ago e filo: né troppo lento né troppo tirato, come ripeteva la nonna ogni volta che ricamava su un rettangolo di preziosa batista.
Posò la mano sul seno, quasi per rallentare il cuore: la vendemmia, finalmente.
«Costanza, dove sei?»
La madre era tornata, inconfondibili la voce e il ciabattare degli zoccoli di legno.
Per nulla preoccupata di rispondere arricciò la ciocca che le sfiorava la guancia, controllò il fiocco sotto il mento e lisciò il grembiule azzurro allacciato sulla gonna marrone. Le maniche del camiciotto cadevano un po’ larghe, sua sorella Maddalena era più alta e lo aveva indossato per anni, ma non importava. Con un sospiro sistemò il fazzoletto attorno alla scollatura.
Dalla finestra socchiusa entravano i profumi che tanto aveva desiderato: il dolce mosto, i formaggi stagionati, quello delle frittelle nel padellone in piazza. Non tutto era piacevole: con la confusione arrivavano i mendicanti, le mani diventavano viola come l’uva, le braccia dolevano, tra le dita dei piedi spuntavano vesciche ma la vendemmia era tempo di grandi cambiamenti.
«Sono qui, arrivo» rispose infine e lasciò la stanza. Incrociò la madre in fondo alle scale, la donna strinse le labbra e le scoccò un’occhiata.
«Quando ti vedrà tuo padre...» borbottò, ma non fece nulla per intralciarle il passo.
«Devo star comoda se devo lavorare sodo» rispose Costanza afferrando la cesta in cui avrebbe riposto i grappoli.
La madre riaprì la porta e uscì. Le andò dietro, erano giorni speciali quelli della vendemmia.
Quel posto era perfetto, assolutamente perfetto. Alla luce del mattino le antiche pietre delle case prendevano una tinta cremosa, riposante, e i tetti non erano tutti uguali: grigi di pietra o verdi di muschio. Sul fianco della collina le vigne correvano sui muretti a secco, dalle foglie facevano capolino le pennellate viola e argento dei grappoli bagnati dalla brina.
Marco Solari da Carona, da tutti chiamato Marchetto, era affacciato all’abbaino della stanza che divideva con gli altri apprendisti al seguito dell’ingegner Marco Frisone. Di solito scolpivano, progettavano, faticavano su marmo e pietra ma per quella settimana avrebbero servito la causa delle viti.
Già pregustava il mosto, il suo dolce peso sulla lingua, il pizzicorino al naso e lei, la fanciulla che aveva notato l’anno prima, Costanza, il motivo per cui non aveva protestato alla richiesta di accompagnare il maestro Frisone al paese natio.
Col gomito si appoggiò alla beola del davanzale in pietra serena. Sotto di lui il villaggio sembrava un formicaio tagliato da un aratro: gli abitanti si muovevano indaffarati, le teste chine, gli zoccoli che battevano allegri sul selciato, i cesti sulle spalle pronti per essere riempiti.
Una pennellata di colore, una di agitazione e, sullo sfondo, l’olmo centenario con i rami quasi spogli. Il piccione appollaiato sopra era infreddolito, l’autunno imminente stava dipingendo gli alberi di rosso, giallo e oro ma era generoso anche con le prime gelate notturne soprattutto lassù, a metà strada tra il lago e la cima del monte.
La famiglia Frisone, tre fratelli alti e robusti, ospitava la combriccola di giovani apprendisti sempre affamati, allegri.
«Sei pronto?» gli domandò Beltramo, lo scalpellino dalle mani come morse. «Andiamo, c’è odore di zuppa.»
I compagni si spintonarono per scendere per primi la ripida scala.
«Andate avanti, vi raggiungo» rispose Marchetto. «Non riuscirei a passare a meno di far rotolare giù qualcuno.»
Beltramo scoppiò nella risata per cui era famoso e lo lasciò solo, in agguato come un falco.
Dalla strada venivano le urla dei monelli, si udivano il cigolio di una carriola e il richiamo del fornaio che segnalava paste dolci e calde. Quando Marchetto si riscosse, i compagni erano scomparsi. Calcò il berretto in testa, un cono di lana floscio che gli avrebbe scaldato le orecchie fino al levar del sole, e divorò le scale scricchiolanti.
Nello stanzone dove si mangiava trovò un silenzio imbarazzante, rotto solo dal cozzare dei cucchiai sul bordo delle ciotole e dai brontolii di approvazione per il calore della zuppa.
Pia, moglie di Antonio Frisone, la figlia Maddalena e due servette si affannavano a servire mestolate di lenticchie e, se gli occhi non lo ingannavano, c’erano anche pezzi di carne di contorno.
Strofinò i palmi sui pantaloni e sedette tra Beltramo e Ambrogio, gli unici che gli avevano tenuto il posto. Il suo stomaco ebbe qualcosa da dire, sperò che il gorgoglio si perdesse tra il brusio e il rumore delle stoviglie. Fu il baluginare di una cuffietta bianca tra i tavoli a distrarlo e, più che allo stomaco, all’improvviso diede retta al cuore.
Eccola.
Imbambolato, fissò le dita bianche e fini reggere il mestolo. Come lei, la zuppa non la serviva nessuno: fragrante, appetitosa, coronata da un sorriso così bello da far piangere.
Dalla mano Marchetto risalì lungo il braccio, al grembiule con i non-ti-scordar-di-me, al seno, e a quel punto il suo cuore saltò un battito. Mollò il cucchiaio e ficcò la mano in tasca accarezzando con i polpastrelli la minuscola scultura di legno. L’aveva intagliata quella notte, in compagnia di un moccolo di candela e del ronfare dei compagni. La volontà aveva vinto sonno e dita indolenzite e, dal cubetto d’acero, era nato uno scoiattolo dalla coda riccia. Con l’indice ne saggiò la forma per scovare angoli troppo appuntiti ma non ne trovò. Non voleva che Costanza si facesse male, per la sua amata desiderava solo sorrisi e gioia.
Sì, la sua amata perché l’amava; come avrebbe potuto chiamare altrimenti le sensazioni, le emozioni che lo perseguitavano notte e giorno, tra le coltri o le sculture, i progetti e le pietre che regolavano la sua vita di apprendista?
«Cognata!» tuonò la voce di Marco Frisone e Pia gli sorrise.
«Cognato, la zuppa è servita e la tua tazza è a capotavola.»
Costanza accolse lo zio con un sorriso di benvenuto, Marchetto se lo godette fino in fondo, da egoista qual era.
La somiglianza con la madre e la sorella Maddalena era indiscutibile ma lui, da buon artista innamorato, notava le differenze: le sopracciglia più sottili, il labbro superiore più marcato e il naso, tipico della famiglia, privo della gobbetta che lo rendeva troppo mascolino.
Perfetta.
Costanza era delicata come un fiore di campo che cancella la cupezza dell’inverno e quel ricciolo sfuggito alla cuffietta lo bramò con tutta la sensuale voracità che gli ardeva nel petto. I suoi capelli erano oro liquido che sognava di farsi scivolare addosso, setosi, freddi come un mantello magico. Con un sospiro attaccò a mangiare e divorò tutto, senza perdere un gesto della ragazza.
Maddalena chiese chi volesse doppia razione, lui sollevò la ciotola. Furono il suo calore tra le mani e la voce del maestro a strapparlo dalla beatitudine.
«Ambrogio, porta con te i più giovani» stava dicendo Marco Frisone. «Beltramo, tu sulle fasce sopra la chiesa e tu, Marchetto, vai ai filari esposti al sole e prendi con te le ragazze che son più svelte di tutti voi.»
Un allegro mormorio di protesta si levò dagli apprendisti: «Non è vero, maestro» smentì qualcuno.
«Nelle sveltine siamo più bravi» urlò un altro dal fondo della sala.
L’ingegnere agitò il cucchiaio minaccioso.
«Mangiate, scostumati, e pensate a lavorare.»
Marchetto finì in fretta la zuppa: Costanza era scomparsa.
Giunta in cima alla salita, Costanza guardò in basso.
Il fianco della collina era tutto un susseguirsi di muretti a secco e là dove non cresceva la vite, gli orti regalavano le ultime insalate, i cavoli e le verze che si stavano richiudendo per il freddo. Scavalcò una zucca e ignorò di proposito il richiamo delle amiche che si fermarono al primo filare.
Era al confine del bosco, sola, forse lui avrebbe avuto il coraggio di rivolgerle la parola. O forse lo avrebbe fatto lei stessa, di nascosto dalle altre.
Le montagne attorno al lago la circondavano in tutta la gloria dell’autunno imminente, qualche foglia scricchiolò sotto gli zoccoli prima di essere trascinata via da una folata di vento.
Annodò lo scialle e staccò il primo grappolo. Gli acini erano maturi, ne schiacciò uno con i denti e il succo le inondò la bocca mentre osservava il paesaggio impervio, i boschi compatti, il lago tranquillo. Tuttavia nel cielo si stavano ammucchiando nuvole grigie che avrebbero rovinato quella perfezione.
Canticchiava accompagnando i grappoli nel cesto. Poi, quando fu colmo, fissò il giovane poco lontano. Spalle larghe, il berretto in testa, accanto all’asino che avrebbe portato in paese le gerle colme.
Costanza afferrò la cesta, a ogni passo il cuore batteva sempre più forte, le guance ardevano.
Marchetto.
L’anno prima lo zio Marco ne aveva parlato durante una cena.
«Si chiama come me e viene da Carona. È un Solari, una razza di testoni abili con la pietra. Lavora come un mulo e ha un occhio da lince.»
Oh, quegli occhi selvatici ora la fissavano, eccome. Un po’ allungati, scuri come le bucce di castagna. Quasi rise di se stessa per averli paragonati ai frutti dell’inverno e non seppe mai quanto restò così, sconvolta da un’emozione sorprendente. Fu il vento a spezzare l’invisibile legame? Il richiamo di una ghiandaia? La risata di un gruppo di fanciulle? Le parole le uscirono come una cantilena dalla bocca arida: «È piena» disse.
Il giovane afferrò la cesta e fu l’istante più bello della sua vita: quando la fermezza delle mani la alleggerì dal suo fardello, sfiorandola.
Marco Solari da Carona. Un nome bello, importante. Con un movimento brusco, il ragazzo svuotò i grappoli nella gerla e si voltò per restituirgliela.
«Andrò al Burg di Ratt, adesso» disse come se per lei fosse un luogo sconosciuto. In quei fienili a disposizione di tutto il paese, i bambini giocavano spesso scivolando sulle balle di fieno, sui mucchi di grano, ingaggiando battaglie con le mele accantonate per l’inverno.
Costanza si affrettò a tornare al lavoro e abbassò lo sguardo nella cesta. C’era qualcosa sul fondo. Prese l’oggetto e lo rigirò tra le mani. Era uno scoiattolo di legno, così bello che si commosse.
Le parole della madre, colte per caso il giorno prima, le tornarono alla mente: «...ha chiesto la mano a tuo padre. Chissà, forse in primavera ci sarà un matrimonio».
«Due figlie, due matrimoni» aveva detto la sorella Maddalena con tono compiaciuto. Le sue nozze erano fissate da tempo con Ottorino da Campione, maestro nella cattedrale di Bergamo.
Tra formaggi stagionati, salami appesi e rape sporche di terra, Costanza si era chiesta di chi stessero parlando. E chi poteva essersi fatto avanti, se non Marchetto?
Con lo scoiattolo in tasca fantasticò sul vestito, sulla chiesa, sulla nuova vita. Negli angoli della mente liberi dal duro lavoro quotidiano immaginò il futuro, un salto dalle con...

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