Sicurezza è libertà
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Marco Minniti

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Sicurezza è libertà

Marco Minniti

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«La differenza tra la sinistra e il nazionalpopulismo consiste proprio in questo: la sinistra ascolta, mentre i populisti fanno finta di ascoltare, quando invece il loro unico obiettivo è di tenere incatenata la gente alle proprie paure.» Parte da questa convinzione la riflessione di Marco Minniti, ex ministro dell'Interno e da oltre vent'anni ai vertici degli apparati di sicurezza e di intelligence del nostro Paese. Anni fondamentali e difficilissimi, in cui si è trovato a gestire, in particolare nei sedici mesi al Viminale, eventi epocali di portata internazionale, come la forte ondata migratoria successiva alle primavere arabe, il consolidamento dello Stato islamico e la stagione dei feroci attacchi terroristici in territorio europeo, la crisi libica con le sue ancora attuali conseguenze. E poi, sul versante interno, l'emergenza sicurezza nelle grandi città, la lotta alla criminalità organizzata, il caso emblematico di Ostia e di altri comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Non è possibile garantire la sicurezza rinunciando alla libertà: barattare la seconda in cambio della prima significa innalzare pericolose barriere, dimenticando che la connessione del mondo è ormai irrefrenabile. L'idea del confine come separazione dagli altri crea società chiuse. Sull'onda dei nazionalpopulismi, l'unità europea, che ci ha garantito settant'anni di pace, è a rischio di estinzione. E questo potrebbe essere l'inizio di molti drammatici danni. Un salto nel buio che non ci possiamo permettere.

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Non è un’emergenza

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Il bene comune

Nel 1935 lo storico olandese Johan Huizinga pubblicò un libro passato alla storia per il suo grido d’allarme. La traduzione italiana del titolo, La crisi della civiltà, non rende l’intuizione folgorante che invece risuona in quello inglese: In the Shadow of Tomorrow, «Nell’ombra del domani».
Siamo a cavallo tra le due guerre mondiali e, mentre in Europa si afferma il totalitarismo, Huizinga vede un’ombra allungarsi sul futuro. Le parole che aprono il libro sono da questo punto di vista estremamente evocative: «Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo». Sono passati più di ottant’anni, eppure queste sue parole sono perfette per descrivere anche il nostro presente. Ma se viviamo in un mondo ossessionato, e lo sappiamo, qual è il compito della sinistra riformista, qual è la sua funzione storica per arginare questa ossessione?
Ignorarla, far finta che non esista? Oppure affrontarla e provare a vincerla? Io dico che dobbiamo accettare la sfida. Per lungo tempo invece la sinistra ha sottovalutato il problema e non ha capito la necessità di rispondere alle grandi masse che si interrogano sul loro futuro, condizionate da un sentimento talmente diffuso da prefigurarsi in qualche modo come maggioritario. Questo sentimento si chiama paura.
La paura scava così a fondo nell’animo umano che a volte si ha difficoltà a confessarla anche alle persone più vicine. È una pulsione fondamentale dell’essere umano che spinge a difendere la propria identità, il proprio equilibrio interno e i propri confini. È qualcosa che mette in discussione principi e orientamenti forti, e che produce comportamenti irrazionali. La sinistra, di fronte alla paura di una persona, non può negare le ragioni che l’hanno generata, trattando la questione con supponenza o distacco. Così facendo lascia il campo libero agli speculatori della paura, a chi costruisce la propria fortuna politica sfruttando l’angoscia dell’impoverimento e della perdita dei propri diritti suscitata da un fantomatico nemico esterno, l’immigrato.
Io sono convinto che una formazione riformista abbia il compito di stare accanto alle persone, di ascoltarle per liberarle dai loro timori. Perché una spinta irrazionale conduce soltanto a provvedimenti schiacciati sul presente e impedisce la visione di un futuro fondato su riforme ad ampio respiro. Un vero progetto nasce solo da una visione a lungo termine.
La differenza tra la sinistra e il populismo consiste proprio in questo: la sinistra ascolta, mentre i populisti fanno finta di ascoltare, quando invece il loro unico obiettivo è di tenere incatenata la gente alle proprie paure.
I più vulnerabili sono i ceti più fragili, che la sinistra storicamente ha sempre rappresentato, e con i quali, tuttavia, nel corso degli anni si è creata una vera e propria rottura sentimentale. Si è rotto qualcosa di molto profondo e la sensazione è che ciò sia avvenuto perché pezzi della società non si sono più sentiti ascoltati. Anzi, hanno avvertito separazione e biasimo – una variante della superiorità morale – e un atteggiamento di aristocratico distacco. Questa rottura sentimentale pone un problema di rappresentanza e di identità in ampi settori della società italiana, mette in discussione principi democratici che vanno anche oltre i confini del nostro Paese. È una questione con la quale si stanno misurando tutte le forze progressiste europee.
Nella situazione in cui ci troviamo non basta dare la colpa a chi ora grida di più. La sinistra riformista italiana e quella europea hanno capito troppo tardi che su questo si giocava una scommessa cruciale. Per non tradire il proprio elettorato dovevano parlare un linguaggio di verità e capire che a chi prova paura e rabbia per la sua situazione economica e sociale non si può rispondere con la freddezza delle cifre e delle statistiche. Di fronte alla condizione individuale di chi ha perso il lavoro o si sente insicuro non basta rispondere sottolineando i segni meno che sono diventati segni più. D’accordo, il Pil è importante, anzi, fondamentale; ma è una drammatica illusione pensare che quel passaggio di segno da meno a più sia sufficiente a rassicurare la parte più esposta dei cittadini.
C’è poi un’altra parola chiave del nostro tempo, «sicurezza», un termine che deve essere centrale nel vocabolario della sinistra italiana ed europea. Non è infatti possibile pensare a una forza riformista di affermazione dell’individuo e della sua liberazione se non si mette al centro di questo processo il tema della sicurezza. La sicurezza è un bene comune. Innanzitutto è un bene. Qualcosa di molto importante nella vita di ciascun individuo. Strettamente connesso alla possibilità di «vivere la vita». Ma questo «bene» per sua stessa natura non può che essere comune. Esiste, si concretizza solo nel rapporto dell’individuo con l’altro. Nel reciproco riconoscimento. La sicurezza, dunque, è uno dei punti di incontro tra l’individuo e la comunità. La garanzia della socialità.
Sentirsi sicuri significa «sentirsi reciprocamente»: questo è un punto fondamentale che rende sempre più evidente il confine tra una società aperta e una società chiusa. Una società chiusa nella dimensione virtuale del sacro blog e nella dimensione fisica che traccia un confine di separazione dagli altri, anche a livello internazionale. Non sfugge a nessuno che dietro l’offensiva dei nuovi populismi, sia quelli europei sia quello italiano, ci sia l’idea che non è possibile tenere insieme il principio di sicurezza e quello di libertà, due principi fondativi della democrazia. Li si considera come una «coppia opposizionale». Così come tante altre: o si sceglie la sicurezza, o si sceglie la libertà; o si sceglie la crescita economica, o si sceglie la questione sociale. O si sceglie l’Europa, o si sceglie l’interesse nazionale. Il populismo in questi anni ha indotto gran parte dell’opinione pubblica italiana ed europea a coltivare la convinzione di doversi schierare a favore dell’uno o dell’altro principio. La questione è invece che non siamo assolutamente di fronte a delle «coppie opposizionali». Il futuro delle democrazie sta proprio nella capacità di conciliare i poli di quella che vogliono indurci a credere sia un’alternativa.
Se questo è il futuro, non spetta dunque alla sinistra, a una forza riformista, il compito di conciliare quelli che appaiono opposti ma opposti non sono?
Una democrazia, seppur sfidata sui fondamenti della propria sicurezza – così come è sfidata in questo momento dalla minaccia del terrorismo di matrice religiosa, tanto radicale e potente –, se dovesse concepire un possibile scambio tra sicurezza e libertà, di fatto si incamminerebbe su una strada dove il rischio è di perdere se stessa.
Uno scambio tra sicurezza e libertà non è possibile! Non è possibile contrapporre i due termini! Dobbiamo respingere il principio che favorisce questa forma di baratto: io ti do più sicurezza e tu rinunci a un pezzo delle tue libertà.
Se ci pensiamo bene, questa è la sfida di fondo che in qualche modo viene posta anche dai terroristi. L’Italia l’ha affrontata senza mettere in discussione nemmeno per un attimo la possibilità di rispondere alla minaccia con uno stato di eccezione democratica.
Su questo è stato straordinariamente potente l’insegnamento di un grande presidente della Repubblica, Sandro Pertini: una democrazia deve rispondere al terrorismo con le armi della democrazia. Questa è una guida assoluta che non ammette deroghe. Ma c’è un punto a mio avviso ancora più rilevante. Non solo non è ammissibile uno scambio tra sicurezza e libertà, ma la loro connessione deve essere intesa in modo ancora più stringente di quanto si possa esprimere con la congiunzione e. Per rendere la forza del legame, la congiunzione deve essere sostituita dalla terza persona del verbo essere: sicurezza è libertà. Tra questi due aspetti fondativi della democrazia c’è un rapporto di interconnessione, evidente anche nella vita di ogni giorno. Non c’è autentica sicurezza se è limitata ad alcuni ambiti dell’esistenza, cioè se per garantire la propria sicurezza si è obbligati a rinunciare ad alcune libertà. Accettare questo compromesso significa vivere una vita in miniatura, condizionata da qualcosa di estraneo a noi stessi.
Il nesso tra libertà e sicurezza è altrettanto evidente e intuitivo se rovesciato. A che mi serve la mia libertà se è sganciata da un principio di garanzia del rispetto delle mie azioni? Per dirla in modo più semplice: a che mi serve la mia libertà se nel momento in cui io esco di casa sono sottoposto a una minaccia? A che mi serve la mia libertà se non mi è garantita la facoltà di andare dove voglio?
«Sicurezza è libertà» è un principio universale, che vale per tutti. Seppure per i ricchi l’impatto, pur essendo in linea di principio molto forte, è meno cogente. Una persona abbiente ha infatti la possibilità di costruirsi un percorso di sicurezza privata, che le garantisca un canale di libertà che deriva dalla forza della sua capacità economica.
Se una persona è molto ricca e non ritiene che ci sia sicurezza nel proprio quartiere, può cambiare quartiere, città, Paese. Il problema riguarda chi non può cambiare quartiere, città, Paese. Noi dobbiamo stare vicini a chi ha comprato una casa con i sacrifici di una vita o non può permettersi di pagare un affitto più alto in un quartiere più sicuro. Dobbiamo stare vicini a chi è più esposto socialmente.
Questo è il cuore della dimensione sociale della parola «sicurezza». Se tutto questo non lo fa la sinistra, chi lo fa? E se la sinistra abdica a questo suo compito non viene forse meno a una delle sue ragioni di fondo?
Allora appare in maniera più evidente che non si tratta di una missione della sinistra in partibus infidelium, e cioè, per essere più espliciti, non è che occupandosi di sicurezza la sinistra si impadronisce di una materia storicamente appartenente ad altri e dimostra interesse per qualcosa che è distinto e distante da sé. La sinistra, occupandosi di sicurezza, fa il proprio mestiere. Si prende cura dei settori più esposti e più deboli della società. Sta vicino a chi crede di poter migliorare le proprie condizioni di vita e immagina per sé un futuro migliore.
La sicurezza è una questione che riguarda innanzitutto la gente comune, perciò la sinistra deve considerarla prioritaria. Se poi analizziamo attentamente i mezzi per garantire politiche adeguate, ci rendiamo conto che non soltanto non ci si trova in un terreno sconosciuto, ma che dentro una moderna idea di sicurezza la sinistra possiede più strumenti per poterla garantire.
Storicamente, per la destra, la sicurezza è soprattutto ordine pubblico. Come possiamo pensare che in una società complessa come la nostra sia concepibile dare una risposta insieme così semplice e così povera al problema della sicurezza? Facciamo un esempio banale. Per garantire la sicurezza di una piazza occorre che essa sia presidiata da una macchina delle forze di polizia. Questo è un presupposto importante, ma se si vuole costruire un percorso moderno di prevenzione bisogna intervenire su più aspetti: quella piazza ha bisogno di un’auto della polizia ma ha bisogno anche della giusta illuminazione, di adeguate politiche di sviluppo, di integrazione sociale e di arredo urbano. Pensiamo a quello che è successo a New York, nel Bronx: una volta, quando ci si voleva riferire a un quartiere difficile, si diceva: «Quello è il Bronx, il Bronx di Roma, il Bronx di Milano». Oggi ricorrere a questo stereotipo non è più tecnicamente possibile, perché la situazione è cambiata in modo radicale. La soluzione che è stata trovata per questo immenso quartiere è stata quella di coniugare politiche di sicurezza con politiche di valorizzazione urbanistica. Ampie zone sono state riqualificate costruendo nuovi complessi residenziali o ristrutturando edifici abbandonati. Sono stati progettati spazi destinati ad attività per la comunità, nuove aree verdi e un ampliamento della metropolitana.
Questa è la prova che occorre fare degli investimenti di edilizia pubblica particolarmente importanti per spezzare il vincolo della marginalità. Una concezione moderna della sicurezza presuppone un’idea interdisciplinare di gestione del territorio che unisca il tema dell’ordine pubblico e del controllo del territorio con l’idea dello sviluppo e della trasformazione degli spazi urbani.
Allora non siamo in partibus infidelium, è esattamente l’opposto. Un tempo si sarebbe detto: «Questo è pane per i denti della sinistra». Ha più strumenti, più sensibilità culturale, più vocazione interdisciplinare per affrontare e vincere la sfida. Rinunciare a questi obiettivi significa venir meno a un compito e a un ruolo storico della sinistra, che sottraendosi a queste responsabilità compie un tradimento nei confronti del suo popolo. Se ci pensiamo bene, questa è una sfida più generale che, in tempi di minaccia terroristica, è ancora più urgente.
Qual è il problema? La sfida del terrore è quella di spaventare e chiudere le persone dentro casa. La risposta a questa minaccia è organizzare la gestione del controllo del territorio in modo che la gente non ceda al terrore e continui ad affollare le piazze, perché la piazza più sicura è quella più vissuta. In questo modo la risposta arriva da un attore collettivo. A ben vedere, è una valida soluzione anche al problema del terrorismo «a prevedibilità zero».
La prevedibilità di un atto terroristico vicina allo zero o addirittura zero è definita dai tempi brevissimi di realizzazione di un attentato dal momento in cui viene pensato al momento in cui viene compiuto. Basta pensare, da questo punto di vista, all’evoluzione che c’è stata dall’attacco a Nizza il 14 luglio 2016, per arrivare a quello di Anis Amri al mercatino natalizio di Berlino, il 19 dicembre dello stesso anno, un attentato che ha riproposto in maniera estrema la sfida del «lupo solitario». Un meccanismo semplice, uno scenario che avevamo già visto a Nizza ma ulteriormente semplificato a Berlino. In Francia avevamo riscontrato un minimo di preparazione, con l’affitto del tir e i sopralluoghi sulla Promenade; a Berlino è bastato rubare un mezzo pesante e poi scagliarlo contro la folla.
Se si fa questo tipo di riflessione si comprende perfettamente che per affrontare il tema della prevedibilità zero occorre sì il controllo del territorio da parte delle forze di polizia, ma anche un’alleanza strategica con i suoi abitanti.

L’errore capitale

Esiste poi una seconda coppia opposizionale «chiave»: «umanità» e «sicurezza». Ma anche in questo caso non si tratta di una contrapposizione reale. Umanità e sicurezza convivono infatti nella stessa persona, sono due momenti nella vita di ciascuno di noi. I tratti fondamentali dell’individuo sono appunto il senso di umanità, il rispetto della vita umana, la capacità di accoglienza, e contemporaneamente il bisogno di sicurezza e il timore dell’altro, soprattutto se sconosciuto.
Occorre trovare un punto di incontro che consenta di conciliare questi due aspetti evitando di cedere alla spinta dei populisti verso la direzione privilegiata della sicurezza.
Compito di una visione moderna della sinistra riformista è includere e non separare. Contrapporre l’umanità alla sicurezza cancella l’orizzonte di valori e di principi alla base di una società aperta. Se vogliamo che umanità e sicurezza coesistano, dobbiamo affrontare una serie di questioni cruciali legate all’accoglienza e all’equilibrio, nelle moderne democrazie, tra i diritti delle due parti in causa, chi accoglie e chi è accolto.
L’accoglienza è una prerogativa fondamentale di tutte le società aperte. Qualsiasi ipotesi di cancellazione di questo principio dagli elementi fondativi della costituzione europea o di una comunità nazionale è inaccettabile. Tuttavia bisogna dire con altrettanta chiarezza che l’accoglienza ha un limite oggettivo e insuperabile nella capacità di integrazione. Nel futuro delle società moderne «integrazione» sarà sempre di più una parola chiave. Perché non è possibile cancellare i flussi migratori, così come non è possibile eliminare la possibilità di interscambi di carattere demografico. Una grande democrazia non può e non deve dare l’impressione nemmeno per un attimo che tutto questo non sia governabile.
La sfida che hanno di fronte le democrazie non è quindi quella di cancellare l’incancellabile, ma di gestire questi grandi processi storici. Le migrazioni di popoli sono eventi epocali con cui l’umanità ha dovuto misurarsi durante tutta la sua evoluzione. Noi oggi ci stiamo confrontando con importanti flussi migratori, ed è molto probabile, anzi certo, che sempre di più dovremo farlo nel futuro. Governare le migrazioni significa una cosa fondamentale: separare nettamente la parola «emergenza» dalla parola «immigrazione». Lo dobbiamo fare per una serie di ragioni. Parlare di emergenza evoca, infatti, qualcosa di straordinario, e soprattutto qualcosa che suscita preoccupazione. L’emergenza è, di per sé, una situazione che sospende l’ordinarietà, generando uno stato d’animo di ansia in chi la vive.
L’idea di una fase straordinaria implica la convinzione che il fenomeno abbia una durata limitata nel tempo, che possa e debba essere superato entro un certo termine peraltro breve o brevissimo. Produce diffidenza. Le migrazioni sono un dato strutturale del pianeta: non esiste scelta peggiore che affrontare un problema strutturale con misure di carattere straordinario.
Eppure è quello che per lungo tempo abbiamo fatto in Italia e in Europa. Ci siamo talmente abituati alla dimensione emergenziale che anche quando si comunica una «buona notizia» il titolo è sempre e comunque lo stesso: Emergenza immigrazione.

Dall’emergenza al governo

Gestire i flussi migratori significa affrontare la questione demografica considerando non i rapporti dentro l’Europa, ma quelli tra l’Europa e l’Africa. Uno dei punti determinanti dell’attività che abbiamo svolto è stato esattamente questo: far comprendere all’Europa che le relazioni con l’Africa sono un tema centrale, non nel senso che ci si deve occupare di questo continente con un atteggiamento caritatevole. Per l’Europa occuparsi dell’Africa significa innanzitutto curare i propri interessi; investire nei Paesi africani corrisponde a investire sul proprio futuro. Noi non lo facciamo perché siamo particolarmente buoni con gli altri, lo facciamo perché siamo particolarmente attenti al nostro futuro e perché è il modo migliore per costruirlo. L’Africa è strettamente connessa all’Europa per tre grandi ragioni strategiche.
Prima ragione: la sicurezza dell’Europa si gioca in gran part...

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