Sbirre (Nero Rizzoli)
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Sbirre (Nero Rizzoli)

Maurizio de Giovanni, Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto

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Sbirre (Nero Rizzoli)

Maurizio de Giovanni, Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto

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Non dimenticano, odiano, sanno vendicarsi. E sono poliziotte. NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Ci sono poliziotti che combattono il crimine e difendono la legge. A volte pagano con la vita. E ci sono poliziotti corrotti che tradiscono, diventando peggio dei peggiori banditi. Poi ci sono loro: le donne in divisa. Fragili e determinate, vittime e carnefici, le sbirre di questi racconti sono creature di confine, paladine mancate, guerriere comunque sconfitte, sedotte dal delitto, soggiogate dalla vendetta, in bilico tra bene e male.
Il commissario Alba Doria indaga nel magma ribollente della rete telematica, tra le pieghe più segrete deldark web, laddove alligna l'odio che consuma il Paese. Il vicequestore Anna Santarossa è già passata dall'altra parte e vende informazioni alla mafia bulgara. Sara Morozzi legge le labbra della gente e interpreta il linguaggio del corpo. Ha i capelli grigi e un passato tra i ranghi di un'unità impegnata in intercettazioni non autorizzate: ora ha anche un conto da regolare.
Dall'estremo Nordest di una frontiera selvaggia fino alla Napoli anonima di sobborghi e quartieri residenziali, passando per una Roma in cui davvero aprile è il più crudele dei mesi e la primavera ha smesso di riscaldare i cuori, Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo e Maurizio de Giovanni raccontano l'Italia al tempo dell'illegalità globalizzata, dellefake news, del condizionamento di massa. Svelano le ossessioni, le paure e la privata ferocia di coloro che dovrebbero difendere l'ordine pubblico. Inaugurano unanew wavedella letteratura nera, in cui la donnanon ha più nulla di fatale, ha rinunciato alle pose marziali della giustizierae, lontana dall'eroismo inquirente, restituisce la cupezza di una realtàquantomaicontroversa.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2018
ISBN
9788858693841

Giancarlo De Cataldo

La triade oscura

Prologo

Quella notte di maggio, al centralino c’era Panebianco, che tutti consideravano, e a ragione, un perfetto imbecille.
«Sono il commissario Doria.»
«Chi?»
«Alba Doria, idiota.»
«Mi scusi, commissario, non l’avevo…»
«È un’emergenza, datti una mossa. Sto andando a casa del dirigente.»
«Il dottor Petti?»
«Proprio lui. Mandami subito due macchine. Uomini armati.»
«Ma qui non c’è nessuno, come…»
«Panebianco, cazzo, chiama la volante di turno e i reparti operativi… Io mi sto muovendo per conto mio. Non c’è un minuto da perdere. Chiaro?»
«Ma commissario…»
Alba troncò la comunicazione, mise in tasca il cellulare, scarrellò la Beretta calibro 9x21 d’ordinanza, trasse un profondo respiro e scavalcò con facilità il cancelletto. Le siepi che circondavano il vialetto d’accesso al civico 35 erano irrorate di guazza. Per essere primavera faceva caldo. La donna era in un bagno di sudore. Gli scarponcini scricchiolavano sulla pista di ghiaia che moriva contro il piccolo portone illuminato da due anacronistici globi gialli. Un’avanzata rumorosa, nel cuore della notte.
Ma c’era da giurare che il Maestro non ci avrebbe badato. La musica a tutto volume che si diffondeva dal terzo piano della palazzina glielo avrebbe impedito. Risuonava la sigla di un cartone animato di tanti anni prima. Un motivetto allegro, beffardo. Incongruo, in considerazione della scena che si stava svolgendo all’interno.
E d’altronde il Maestro si sentiva sicuro di sé.
Sapeva di avere le spalle coperte.
Si sbagliava.
Il portoncino era aperto e Alba si avviò per le scale. L’edificio aveva tre piani. Il primo era occupato da una finanziaria. Uffici deserti. Il secondo e il terzo erano di proprietà del vicequestore Paolo Petti.
Davanti alla porta socchiusa, il sonoro raggiungeva livelli isterici. Ma nessun vicino avrebbe protestato. Petti aveva comprato i due appartamenti proprio per non avere gente fra i piedi. E se anche ci fosse stato qualcuno, con la sua autorità e le sue maniere sbrigative lui se ne sarebbe liberato.
Alba strinse la Beretta, controllò un’ultima volta che il colpo fosse in canna. E irruppe urlando: «Fermo, polizia!».
Il Maestro si voltò con lentezza. Sotto la maschera Alba riusciva a intuire lo sguardo sorpreso, forse esterrefatto. Brandiva un’ascia. Le sembrò che il filo fosse già sporco di sangue.
«Gettala e alza le mani, bastardo!»
Lui abbassò gli occhi verso la massa indistinta che si contorceva mugolando sul pavimento.
Sollevò l’ascia.
Alba inspirò, prese la mira ed esplose due colpi in rapidissima successione.
L’altro lanciò un urlo strozzato, si avvitò su se stesso, annaspò come in cerca d’aria, e infine si accasciò, mollando l’arma.
Il commissario Doria avanzò piano, impugnando la pistola con due mani.
Il Maestro era immobile, ma poteva fingere.
Da un metro circa, Alba gli piantò una terza pallottola nel cranio.
Davanti al PM avrebbe sostenuto che si era sentita minacciata. Chi avrebbe osato contestare la sua versione, dopo quello che il Maestro aveva combinato?
Dalle casse, collegate a un piccolo iPhone di terz’ultima generazione, partirono le note di Dragon Ball. Alba strappò i fili con un gesto rabbioso.
La sagoma di Petti, che sino a un istante prima si agitava per terra, ora giaceva inerte in una posa scomposta.
È vivo o è già andato?
Sono arrivata in tempo?
Era questo che Alba si chiedeva, senza decidersi a esaminare il corpo del vicequestore.
Poi udì il suono di una sirena in avvicinamento.
Ripose la Beretta nella cintura dei jeans.
Uno strano, ambiguo sorriso affiorò sul suo bel volto affilato.

Due mesi prima

1.

“Mi chiamo Sergio, ho sedici anni e sto per uccidere i miei genitori.”
Un uomo e una donna sedevano davanti allo schermo di un computer sul quale si stagliava il viso di un adolescente come tanti. Si trovavano in un ufficio d’angolo della Direzione investigativa della polizia di Stato, in un arioso palazzo a vetri del quartiere EUR. Era una sera di fine marzo.
L’uomo, un cinquantenne sovrappeso dagli occhi iniettati di sangue, si chiamava Paolo Petti ed era il titolare dell’indagine.
La donna non aveva ancora raggiunto i trenta, indossava un tailleur grigio, con camicetta bianca e gonna al ginocchio, sfoggiava con studiata noncuranza corti capelli biondi e occhi verdi solcati da pagliuzze iridescenti. Emanava un tenue profumo accompagnato da un accenno di fragranza al lime. Il suo nome era Alba Doria e lavorava all’Unità di analisi del crimine violento.
«Possiamo guardarlo ancora, per favore?»
«Alba, per la miseria, saranno già dieci volte che abbiamo visto ’sto schifo.»
«No, è che…»
«L’ultima, ok?» Petti fece ripartire il video sbuffando.
Durava cinquantasette secondi. Il tempo sufficiente perché il ragazzo commettesse un duplice omicidio e si lanciasse giù da un terrazzo di corso Trieste. Cominciava con la faccia di un adolescente come tanti e finiva con l’immobilità di una parete nuda. Nell’inquadratura, in basso a destra, s’intuiva l’angolo del manifesto della squadra del cuore. Il delitto risaliva al giorno precedente. C’era stata una fuga di notizie. Nel pomeriggio qualcuno aveva postato il video su YouTube. Nella mezz’ora che era servita alla polizia postale per rimuoverlo, aveva superato i diecimila like. Non c’è niente che tiri più della morbosità.
«Allora, Alba?»
La donna sospirò.
Prima di trasformarsi in mostro, Sergio Rivo, il ragazzo, aveva condotto un’esistenza normalissima. Figlio unico di due professionisti, buon curriculum scolastico, niente droghe né contatti con ambienti pericolosi, tipo ultrà del calcio o aree politiche radicali. Però qualcosa di strano c’era. Altroché. Nel video Sergio era calmo. Niente respiro affannoso. Niente sudore sulla fronte. Aveva preso da tempo la sua decisione, e non avrebbe desistito. L’unica possibilità sarebbe stata che qualcuno intervenisse e lo disarmasse. Ma non era accaduto. La pistola era una Bernardelli calibro .22. Risultava regolarmente denunciata. Il padre aveva lavorato più volte come consulente per le risorse umane in svariate aziende. Aveva una discreta fama di tagliatore di teste. Era stato minacciato e aveva deciso di armarsi.
Non poteva certo immaginare che avrebbe dovuto difendersi dal figlio.
Il caricatore era stato innestato con un unico gesto secco e il colpo era scivolato in canna senza intoppi. Cartucce giuste, movimenti precisi. Prima di passare all’azione, il ragazzo doveva aver fatto delle prove. Si era diretto verso la camera dei genitori. Senza esitazioni si era avvicinato al letto, illuminando la scena con il telefono, incurante del pericolo di svegliarli. Perché? Perché non gli importava. Tanto aveva deciso. Due soli colpi. Alla testa. I botti che rompevano il silenzio della notte. Neanche un sussulto dei corpi freddati con estrema precisione. Aveva deposto l’arma sul comodino. Una nuova inquadratura del volto, freddo, privo di espressione. Poi l’iPhone era stato puntato sui piedi. Aveva ripreso i passi del ragazzo sino alla sua stanzetta, quella dove era stata girata la prima scena. Sergio aveva guardato di nuovo in macchina, poi a sinistra. Aveva pronunciato le ultime parole di una vita troppo breve.
Alba ripassò al rallentatore i fotogrammi, e li ingrandì. Cercò di decifrare il labiale. Sembrava dicesse: “Ho fatto ciò che dovevo”.
Ho fatto ciò che dovevo.
Ma che senso aveva?
Infine, Sergio aveva posato il cellulare su un comodino o una mensola.
E si era gettato dalla finestra.
Paolo Petti fissava Alba con una strana intensità. C’era qualcosa di rapace nello sguardo del vicequestore. Era noto per il pessimo carattere. Ma aveva più arresti all’attivo lui dell’intera Mobile romana. Sul suo conto circolavano voci contrapposte. C’era chi lo considerava una sorta di mito della Omicidi. E chi un corrotto e un pezzo di merda.
Alba non aveva ancora deciso, ma cominciava a propendere per la seconda ipotesi.
Si erano conosciuti quando lei era rientrata da Lione, dopo tre anni da recluta di belle speranze all’Europol. Erano finiti a letto nel giro di un paio di settimane. Alba aveva ceduto quando il sorriso a trentadue carati del vicequestore e la sua protervia di leggenda vivente le erano apparsi irresistibili. Ma non c’era stata una seconda volta. Paolo aveva commesso l’errore di essere se stesso: vanesio, arrogante, forse neanche troppo intelligente, e tecnicamente scarso. Alba si era ripromessa di tenersi alla larga. Un giro di giostra le era bastato.
E invece adesso aveva bisogno di lui. Senza la sua autorizzazione, il caso sarebbe stato archiviato in fretta.
Purché il prezzo da pagare non fosse troppo alto.
Petti era piuttosto seccato. Tutto questo doveva semb...

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