La masseria delle allodole
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La masseria delle allodole

Antonia Arslan

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La masseria delle allodole

Antonia Arslan

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"Sono loro, i miei padri e madri, che emergendo da un pozzo profondo mi hanno narrato la loro storia e io mi sono seduta, un giorno di maggio, ad ascoltare e a scrivere. Ed è stato come intessere un tappeto." Zio Sempad è solo una leggenda per noi: ma una leggenda su cui abbiamo tutti pianto. Era l'unico fratello del nonno, il minore. Amava la sua tranquilla città, la sua provincia sonnolenta, le chiacchiere al caffè con gli amici. Studiò da farmacista a Costantinopoli, ma pensando di ritornare a casa." Ha inizio così, come un caldo e rassicurante ricordo di famiglia, il lungo viaggio di Antonia Arslan nel dolore e nell'orrore di un popolo, vittima del primo genocidio del Ventesimo secolo e sopravvissuto grazie al coraggio delle sue donne straordinarie.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2017
ISBN
9788858690536

PARTE SECONDA

Shushanig

Appena fuori dalla Masseria, le carrozze vengono circondate dalle donne di Ismene, che non sanno bene cosa fare, se non esercitare il loro mestiere: la compassione nel lutto.
L’aura nera che avvolge le donne di Sempad non le spaventa ancora: offrono grida, lamenti, spalle su cui piangere. Cenciose, sempre evitate da tutti, le vecchie dei cimiteri si schierano un po’ a distanza, in un cerchio irregolare, in riguardoso silenzio. Il loro momento verrà, e così, pensano, i doverosi banchetti funerari, il momento di riempirsi per bene la pancia. È l’orizzonte limitato del povero.
Tutti guardano Shushanig, ma Shushanig non vede nessuno: piange come Niobe, immobile, senza muovere il viso, ghiacciata, inarrestabile. Allora è Azniv che si scuote, Azniv maturata in un’ora, che conta febbrilmente i superstiti, che qualcuno non sia rimasto dentro la villa: e scopre dietro Henriette singhiozzante, orrendamente impiastrata di sangue, il visetto attonito di Nubar-vestito-da-donna, con il suo abitino di seta frusciante, la bambina graziosa che è l’unico maschio sopravvissuto. Azniv giura a se stessa che lui, lo farà sopravvivere; ci riuscirà, con quell’energia che scopre vibrare dentro di sé, e tendersi inflessibile, indomabile.
Prende le redini del cavallino, si guarda intorno. In quel momento, vede Ismene vicina al calesse di suo nipote Georghios, con cui è arrivata. «Entra in carrozza, consola Shushanig» le ordina Azniv, e Ismene, che ha capito al volo, risponde con rispetto: «Subito. Ma prima lasciami mandare dentro le donne. I vostri poveri cari devono avere una sepoltura cristiana, o io non sono più Ismene».
Contente di essere impiegate, le vecchie dei cimiteri e le lamentatrici iniziano la loro lugubre nenia, e si avviano in fila indiana verso l’ingresso della Masseria. Nel crepuscolo che si offusca di colori notturni, esse accendono le loro lampade antiche e sfilano, cantando imparziali per tutti i membri dell’oscura razza umana.
Un gruppo di luci circonda Hrant il suonatore, che giace sull’erba, un altro, Levon il postino-fotografo: i corpi vengono ricomposti, gli occhi chiusi; poi, con efficienza e brusca familiarità sono portati in casa e allineati insieme agli altri sul bordo della buca del lawn-tennis.
Là le donne circondano i massacrati, ognuna con la sua lampada, si prendono per mano e cominciano solennemente il rito intangibile. Ancora per questa volta: Sempad e i suoi avranno sepoltura cristiana. A tutti gli altri armeni che perderanno la vita in quei mesi funesti, trucidati, torturati, morti di sete e di fame lungo le strade anatoliche, con scherno coerente sarà negato anche ogni funebre rito. O meglio: non ce ne sarà bisogno. Un singolo morto era prima un essere che respirava, era vivo, e la sua spoglia è un cadavere che può essere onorato: centomila morti sono un mucchio di carne in putrefazione, un cumulo di letame, più nulla del nulla, un’immonda realtà negativa di cui disfarsi.
Ma là, alla Masseria, fa presto Ismene ad accorgersi con la coda dell’occhio di un’ombra che scivola negli angoli oscuri della terrazza, e va a colpo sicuro: «Vieni fuori, prete Isacco. Come mai tu sei vivo?» lo apostrofa bruscamente.
E Isacco folgorato risponde: «Mi ha salvato il dottore, Krikor. Ha detto che non ero armeno». Poi la vergogna lo accascia in ginocchio.
Ismene non ha tempo per i suoi turbamenti: «Sei vivo, sei prete. Cosa aspetti?» prorompe; e poi lo guarda negli occhi ciechi, pieni di miseria e di sottomissione, e lo prende per la mano, facendolo rialzare: «Vai dentro, Isacco. Dio ci vede tutti; ma tu sei prete, e li devi benedire. Che almeno siano sepolti in pace, e le loro anime benedicano noi. Il colonnello ti aspetta».
Racconsolato, Isacco si unisce alle lamentatrici, e la sua bella voce presto si innalza, forte e sicura, nella liturgia dei defunti: «Che siano benedetti coloro che ritornano a Te con le anime purificate, attraverso il rosso velo del martirio... coloro che hai creato con mani immacolate... Gustate e vedete che il Signore è soave... benedite il Signore nei cieli, voi che ora lo vedete, voi che Egli ha creato con mani immacolate...».
Il controcanto delle donne riempie la notte di strida e urla laceranti, che man mano si acquietano di fronte alla melodia ritmica, ipnotica della voce di Isacco, fino ad armonizzarsi in quel possente mormorio scandito che da sempre avverte tutti in città del sopraggiungere del corteo delle lamentatrici.
Ma qui solo la notte ascolta; e le luttuose creature che si stringono nelle carrozze, come un blocco di carne tremante che dà e riceve quel po’ di calore per riuscire a sopravvivere. Al centro, murata fra i corpi caldi che la circondano, Shushanig continua a lacrimare immobile, emanando gelo. Nell’angolo, Henriette è dimenticata – e dimentica. Il suo piccolo cuore inondato di sangue si è perso nel buio.
Ora Ismene arriva. Il colonnello le ha ben volentieri affidato le incombenze funebri, e ha lasciato due soldati per seppellire i morti, al più presto, nella buca del lawn-tennis appena scavata, che sembra fatta apposta. Il prete Isacco, che è greco e non armeno, ma che sempre cristiano è, viene giusto al caso, e frettolosamente si è deciso che può lui stesso benedire la terra, e farla diventare terra consacrata, e occuparsi dei corpi.
Perché tutti hanno fretta di andarsene. Il colonnello vuole usare la sua autorità, finché ce l’ha, e processare il tenente, o almeno allontanarlo. Ma che fare con il gruppetto che l’ha accompagnato? Quelli sono soldati suoi, non conviene metterseli contro, bisognerà perdonarli e far finta di niente; impiccarli, come si dovrebbe, è fuori discussione.
Ismene vuole salvare ciò che resta della famiglia. Febbrilmente, fa e disfa piani chimerici, sempre più consapevole che l’ora dei cristiani di Turchia, non solo degli armeni, è suonata. Intanto, monta a cassetta sulla carrozza grande, Azniv sull’altra, e lentamente ritornano in città.
Nel quartiere, sussurri e sussurri. Gli uomini non sono ancora tornati; qualcuna delle vecchie ha detto che sono stati visti, in colonna, e accompagnati da soldati con le baionette inastate, davanti alla porta del Magazzino del Sale, un vecchio edificio vuoto da tanti anni. L’arrivo delle carrozze non desta particolare curiosità, ma subito qualcuno arriva a cercare Shushanig, per consigliarsi, e viene informato. La rete di sussurri e di orrore si infittisce, e scuote tutto il quartiere: ma nessuno sa bene cosa fare.
Senza i loro uomini, con il peso dei vecchi e dei bambini, le donne inclinano al panico, ma sono pronte a credere a qualsiasi voce rassicurante, e soprattutto a non cedere alla disperata verità – se pure gli venisse in mente.
È per questo che il piano procede senza intoppi, senza vere ribellioni da parte di questo popolo così docilmente sciocco. A tarda sera appaiono le solite guardie, in compagnia di un banditore che proclama che le famiglie armene hanno trentasei ore per lasciare la città e i loro beni, con tutti i membri delle loro famiglie, senza eccezione. «Il governo vi sposta per proteggervi meglio; le vostre case, i vostri negozi saranno affidati all’esercito.»
«E gli uomini? Dove sono gli uomini?» grida un gruppo di donne affannate (e già si pentono del tono minaccioso). «Buone, buone; vi raggiungeranno fuori città, perché se foste insieme, furbi come siete voi armeni, potreste tentare di imbrogliarci, di nascondere i vostri soldi invece di affidarli al padre di noi tutti, il kaymakam.»
Questo è infatti precisamente quello che ogni famiglia si mette a fare. I soldi possono essere la salvezza, sono sempre salvezza. In ogni casa, in ogni cucina, dalle scatole di latta, dai vecchi portafogli, da tasche segrete escono biglietti di banca, monete d’oro e d’argento, talleri di Maria Teresa e sterline di Vittoria Regina, perfino antichi fiorini e rari, rotondi zecchini veneziani; escono pietre preziose di tutti i colori, sassolini luminosi che riscaldano, illuminano un po’ le affaticate mani femminili che li maneggiano.
In quella frenetica nottata i bambini – che vedono per la prima volta gli adulti persi, confusi, agitati, tanto che discutono di cose importanti senza mandarli via – contemplano attoniti lo scintillio delle pietre, dell’oro, dell’argento, e capiscono, di colpo, mentre una sorda paura gli stringe il cuore. Vorrebbero parlarne con i loro padri.
Ma i padri non tornano. È notte fonda ormai, e nessuno pensa a dormire. Svogliatamente i bambini vengono messi a letto; ma, tranne i più piccoli, si alzano subito di nuovo, silenziosi, senza piangere, per stare vicini alle madri, alle nonne, di cui percepiscono lo sgomento, la disperazione. Svelte mani femminili cuciono tasche segrete, sacchetti misteriosi, dove sprofondano le pietre luminose, gli zecchini dorati. Altre mani impastano, scelgono, radunano cibo e pane, mele rotonde e pere secche, fichi e biscotti; ma non c’è niente di allegro in questo affaccendarsi, e i bambini non si ingannano, fiutano la paura, la minaccia, la morte.
Azniv prende il comando. Loro non aspettano nessuno, i loro uomini se ne sono già andati. Shushanig e Veron, abbracciate, siedono inerti di fronte al fuoco, fissando nelle fiamme i volti vivi dei loro amati, e cercando riposo per le menti disperate.
Azniv sorride di se stessa e del tenente Djelal che l’amava, e che è scomparso così improvvisamente; adesso capisce i discorsi di lui, la frenesia di portarla lontano. Ora, provvida, combattiva, dispone per il piccolo gruppo dei familiari viventi. Non c’è che la cuoca, Araxy, per aiutarla; e Madame Nevart che piagnucola sottovoce in un angolo. Le fiamme danzano nel suo cuore, che diventa più forte a ogni minuto che passa, nutrendosi della debolezza degli altri. Si sente la figlia d’Armenia, l’eroina delle leggende. Lei li salverà, ha la forza e il coraggio per farlo.
Ora tu, ragazza Azniv, tu lascerai le tue ossa danzare al vento dei morti per salvare i bambini, e Shushanig; tu ti offrirai al soldato, e al cavaliere curdo, tu riderai follemente, drappeggiata nella pezza di seta rossa con le rose di velluto e fili d’oro zecchino, quella che ti mandò Zareh per la festa di Pasqua... tu eroica, generosa creatura che ti lascerai infine morire, contaminata, ad Aleppo, con la pesante treccia ancora viva giù per le spalle, avendo compiuto la tua missione...
La notte è passata, e degli uomini non c’è traccia. Nessuna famiglia li rivedrà più. Molti anni dopo, finita la passione degli armeni e la guerra mondiale, nella Turchia disfatta dalla sconfitta sarà scoperto il loro destino: fatti uscire di notte dal Magazzino del Sale, dove qualche donna si era avventurata a portare del pane, ed era tornata tranquillizzata, vennero uccisi l’uno sull’altro nella Valle delle Cascate, dove i cadaveri insepolti rimasero a fissare il cielo con le orbite vuote, nudi e privati di tutto, anche della maestà della morte.
E così l’indomani mattina il Magazzino era vuoto, come constatò Ismene che era corsa là all’alba, dopo aver perlustrato tutto il quartiere e sguinzagliato le sue donne dappertutto. Solo, infilato su un paletto di legno che serviva anticamente per agganciare i carri del sale, un foglietto intestato alla ditta Andonian Frères. Robinetteries et Pompes oscillava nell’aria, e quasi Ismene non se n’accorgeva, finché un refolo di vento lo sollevò gentilmente e lo depose proprio ai suoi piedi. Là, frettolosamente vergato a matita, il messaggio: “Sono venuti a prenderci. È notte buia. Ci portano a morire. Chi trova questo foglio, in nome di Dio Misericordioso, avverta le nostre famiglie e preghi per le nostre anime”.
Ma Ismene non leggeva l’armeno; si infilò il foglietto in tasca per farlo vedere ad Azniv, e poi se ne dimenticò. Ismene non era donna da parola scritta. E tuttavia subito seppe, anche senza leggere, che tutti gli uomini erano scomparsi: e decise di non parlarne con nessuno, e di tornare da Shushanig. Nel Magazzino l’aria era livida, e aveva l’odore acido della paura mortale.
Con l’arrivo dell’alba livida e sanguigna, pare per un poco che nelle case del quartiere armeno subentri una torpida apatia. Monete e gioielli sono scomparsi col finir della notte, occultati in mille ingegnose patetiche forme: cuciti come bottoni sui vestiti, divisi e suddivisi in modo che la scoperta di parte del gruzzolo non implichi perderlo tutto, fissati dentro l’orlo delle vestine dei bambini o in sacchettini nelle folte trecce delle bambine.
Intanto, bambini e bambine si sono appisolati, stanchi, dove capitava; e gli adulti si riposano un momento, si riuniscono a prendere un caffè e un bicchiere di dolce-del-cucchiaio, scambiano opinioni e cercano di combattere il panico organizzando le carovane. Molto ascoltati sono i vecchi, che dovranno partire anche loro («senza eccezione» ha detto il banditore) e che possono dare testimonianza sui massacri del 1894-96, aiutare coi ricordi, limitare lo spaventoso vuoto che circonda il futuro, dare consigli, suggerire norme; tutti pensano ancora che la tradizionale cortesia ottomana verso la saggezza degli anziani li risparmierà, magari saranno loro che potranno impetrare rispetto e conforto per donne e bambini, finché le famiglie non si riuniranno con i loro uomini, giù verso Aleppo. Una meta.
Ci si divide i compiti, si fanno inventari di risorse. Una giornata fa presto a passare, domattina dobbiamo essere pronti per partire all’alba. E allora, una frenesia di formiche: contare e riunire tutti i mezzi di trasporto, sistemare sui carri materassi e coperte, le suppellettili, il cibo, i vestiti; non dimenticare nulla, provvedersi di disinfettante e di medicine... Ma i medici non ci sono più, e la vecchia Serpuhi l’ostetrica fa quello che può.
Sentendo la sua voce in cucina, che parla con Azniv, Shushanig improvvisamente si raddrizza. Si scioglie gentilmente dall’abbraccio molle di Veron, le liscia i capelli, poi si alza in piedi, si fa il segno della croce, e dice: «Sono qui. Mettiamoci al lavoro. Dov’è Ismene? Date da mangiare ai bambini. A che ora dobbiamo partire? Intanto, io vado a cambiarmi».
Prende Henriette per mano, la sua bambina che ha condiviso con lei l’orrenda esperienza del sangue di Sempad, e le cambia i vestiti, delicatamente, toccandola per rassicurarla. Henriette lascia fare, inerte come una bambola. Shushanig sospira, e la bacia in fronte; poi fa un mucchio dei loro vestiti e li va a gettare nella capace stufa del pianterreno, che accende con composta lentezza. Un odore acre e dolciastro si diffonde, lugubre, per l’intera casa.
Tutti annusano l’aria, capiscono e si segnano in fretta. Questo fu il commiato di Sempad e del suo semplice cuore dalla casa che amava: un filo di fumo denso nell’aria, diritto come un dito a indicare l’antica patria perduta, un odore a cui non si poteva sfuggire, che si attaccava alle pareti e rendeva disgustoso il respiro, un ricordo da allontanare per sopravvivere.
Si affaccia in quel momento alla porta, ormai lasciata incustodita, violata, Nazim lo zoppo, il mendicante spia del kaymakam, che è stato appena reclutato da Ismene per fare il doppio gioco. Non è facile entrare nei suoi pensieri. «Saper parlare a tempo è la virtù dei mendicanti e dei re» ama ripetere sentenziosamente, tabaccando dalla logora scatoletta di cuoio che gli ha regalato Sempad tanto tempo fa.
“Era quasi nuova” ricorda improvvisamente Nazim; e sente vacillare il suo mondo, pensando che Sempad non c’è più. Così, nella sua vecchia mente ossessiva, al calore nel fondo della tasca della brillante pietra colorata che gli ha dato Ismene, promettendogliene altre, si aggiunge la sorda paura di aver perso alcuni dei suoi protettori più assidui, e di non essere più libero come l’aria, con questo segreto degli armeni addosso, con questo odore appiccicoso dappertutto.
Ismene gli ha parlato a tempo. Ora Nazim, a modo suo, prima di andare dal colonnello e in giro a fiutar l’aria, è venuto a vedere Shushanig, la padrona: e la trova infatti in cucina, che dà ordini. Tutta la casa risponde alla sua voce imperiosa.
«Nazim, che Dio sia con te, eccoti del pane» dice Shushanig appena lo vede; e il cuore disseccato di Nazim dà un balzo improvviso, gli pare che Dio sia davvero vicino a lui in quel momento; prende la mano fredda di lei e se la porta alla fronte, alle labbra, al cuore, e scandisce lentamente: «Da ora in poi sono il tuo servo, Validé Hanum. Io sono polvere della strada, ma spero di essere su quella strada che tu dovrai percorrere, e di rendertela più lieve».
Nazim sa tutto del programma di sterminio; non è facile vederlo quando ascolta. Ma in questo momento si sente cavaliere di Harun-al-Rashid, leale combattente sotto le mura di Gerusalemme; si raddrizza e sorride ampiamente dalla bocca sdentata.
Ah Shushanig, dolce parente, se tu gli avessi chiesto in prestito la sua capanna! (così si salvò il bambino Nishan, il minore dei Tachdjian). Ah Veron, ragazza d’oro dal cappellino buffo, se ti fossi nascosta fra le sue mogli! (perché Nazim aveva due mogli, grasse, sudice e indolenti, e una capanna). Azniv, bruna bellezza, se tu fossi fuggita col tuo Djelal... (ma Djelal è al quartier generale di Djemal Pascià, ad Aleppo, e si diverte parecchio).
Intanto Nazim fruga ...

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