La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai
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La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai

Louis Frédéric

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La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai

Louis Frédéric

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Alla fine del XII secolo, l'Asia, così come l'Occidente, entra in un periodo di disordini politici e spirituali che porteranno profonde mutazioni nell'assetto geografico e sociale dei paesi medievali. In Giappone per quattro secoli si susseguono dinastie di Shogun, i dittatori militari, sullo sfondo dei conflitti tra uomini e idee contrastanti. "Gli aristocratici sulla via del declino continueranno a vegetare nella capitale, Kyoto, mentre il resto del paese vivrà tempi eroici, virili, movimentati", e saranno i Samurai, il cui primo dovere è sempre quello militare, a incarnare gli ideali generati dalle nuove concezioni sociali: l'amore per la propria terra, la fedeltà alla parola data, l'entusiasmo per le idee nobili, l'onore e l'avventura, l'accanimento nel lavoro e il disprezzo per la morte; ideali che creano nuove abitudini e dinamiche all'interno della società. Perché i guerrieri si truccavano e si presentavano profumati al nemico? Come mai le relazioni amorose erano spesso fragili e fugaci? In che modo si svolgevano i riti e gli incantesimi per guarire un malato? Nonostante la scarsa documentazione pervenutaci, grazie alla letteratura degli Emakimono, i famosi rotoli miniati nipponici, Louis Frédéric riesce a fornire un quadro del Giappone dell'epoca avvincente e dettagliato, rara occasione per esplorarne la vita quotidiana della gente comune più di quella dei famosi e dei potenti.

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Information

Publisher
RIZZOLI LIBRI
Year
2018
ISBN
9788858691915

II

L’uomo del Medioevo

La nascita

Per diventare uomo, in questo Giappone feudale, bisognava prima di tutto sopravvivere. Senza alcun dubbio, infatti, la selezione naturale faceva una scelta molto severa tra i neonati. Il rigore del clima e una totale mancanza d’igiene furono responsabili di stragi che sarebbe impossibile calcolare in cifre. Allora, come ancora oggi nelle province più arretrate del Giappone, le nascite si svolgevano privatamente, e nessuno sembrava sospettare che un parto avesse luogo nella casa vicina: le donne non gridavano quando erano in preda ai dolori,1 forse per non perdere la faccia o per paura di essere, in conseguenza, giudicate indecenti. Le nascite, tuttavia, erano assai comuni, perché le donne sposate, in pratica, erano incinte tutti gli anni. Ma era considerato disdicevole avvertire la famiglia e il villaggio prima che il bambino fosse sopravvissuto alla prova dell’entrata nel mondo, e forse anche questa è una ragione della segretezza che circondava le nascite. Il giorno prima del parto che, nelle famiglie agiate, doveva aver luogo in una stanza separata dal corpo principale della casa, le sorelle o le parenti strette della partoriente, venute per assistere all’avvenimento, mascheravano con tende bianche le aperture della stanza, e disponevano nel centro, sul pavimento, un semplice telo bianco o un tatami orlato di tessuto bianco, appositamente preparato per la circostanza. Venuto il momento, la partoriente, anche lei vestita di bianco, veniva condotta nella stanza così addobbata. Fuori, per tutto il tempo della durata del travaglio, un uomo, cacciatore o monaco-guerriero, secondo i casi, oppure sacerdote shintō, faceva vibrare la corda di un arco, nell’intento di tener lontani gli spiriti maligni e di attirare l’attenzione dei kami, o «spiriti divini»;2 talvolta, un monaco seduto davanti a una piccola tavola pieghevole sulla quale erano state disposte verticalmente sette strisce di carta o di tessuto bianco, simbolo dei kami, recitava preghiere di purificazione (harai). Nella camera, la partoriente stava accovacciata sul tessuto bianco o sul tatami protetto da una spessa coperta, e si appoggiava alle spalle di una o due delle donne che le stavano a fianco. In certi casi una miko (specie di sacerdotessa shintō), rannicchiata a poca distanza e con un rosario in mano, rivolgeva anche lei invocazioni ai kami, mentre le serve andavano e venivano, si davano da fare, portavano mastelli d’acqua calda e disponevano intorno un gran numero di fogli di carta sottile, che in quei tempi servivano come biancheria. Il bambino era raccolto in una stoffa bianca da una delle matrone che assistevano la partoriente, e il cordone ombelicale veniva subito tagliato con un coltello a lama di bambù. Poi si asciugava il neonato, mentre la madre si coricava, e le domestiche e le assistenti pulivano e mettevano un po’ d’ordine nella stanza;3 a questo punto, si appendeva all’esterno del locale un segno indicante il tabù (generalmente un ramo di salice, dal potente potere profilattico)4 con il quale si indicava che nessun visitatore poteva essere ammesso, in quanto la donna che aveva appena partorito era considerata ritualmente impura, allo stesso modo di tutti coloro che l’avevano avvicinata. Per questa ragione il parto doveva avvenire, possibilmente, in una camera separata dal corpo principale della casa.5
È probabile che il procedimento fosse pressappoco uguale nelle famiglie più povere. Se si escludono gli indumenti bianchi, il tatami, le serve e i sacerdoti. In queste circostanze era il padre stesso che aveva la funzione di cacciare i demoni, facendo risuonare la corda del suo arco. Ben inteso, i vicini erano al corrente di quanto stava succedendo, ma fingevano di ignorarlo, finché la notizia non era annunciata loro ufficialmente. Al neonato non si faceva quasi mai un bagno subito dopo la nascita, ma ci si limitava ad asciugarlo. Il primo bagno (ubuyu), che, negli ambienti aristocratici assumeva il valore di un rito, gli veniva fatto soltanto qualche giorno dopo. Nell’acqua si immergevano gioielli, garanzia della futura prosperità del bambino, e sopra la sua superficie, in maniera che potesse riflettervisi dentro, si teneva una piccola effigie di un cane o di una tigre, animali che erano ritenuti dotati di virtù profilattiche e del potere di proteggere la salute dei bambini. Terminato il bagno, al neonato si infilavano i primi vestiti.6 Fino a quel momento, era stato lasciato nudo, a contatto diretto con il seno materno. Nelle famiglie più povere, il primo bagno era accompagnato semplicemente dalla vibrazione della corda di un arco.
Gli antichi giapponesi pensavano che, a partire dalla nascita e per trenta giorni, l’anima del bambino non fosse saldamente fissata al corpo; si prendevano quindi le massime precauzioni, e in quel lasso di tempo né il bambino né la madre dovevano uscire. Nei primi due giorni, il neonato era tenuto a digiuno. Il terzo giorno, quando la madre gli dava il seno, una piccola cerimonia intima che aveva come scopo la scelta del nome da dare al bambino,7 riuniva la matrona e la stretta parentela. Il segno dei tabù veniva tolto, tranne che dall’esterno della stanza in cui si trovavano la madre e il bambino. Dopo essersi purificato (attraverso l’intervento di un sacerdote shintō, nelle famiglie ricche, o con un semplice bagno, nelle altre), il padre del neonato riceveva i suoi invitati e offriva loro un leggero pasto, accompagnato da sake (vino di riso). Poi si sceglieva un nome per l’infanzia del neonato. Se si trattava di un maschio, generalmente il nome doveva terminare con -maru o -maro. Se era il primo figlio della coppia, il matrimonio era considerato da quel momento come definitivamente sigillato. Si procedeva allora (ma talvolta questo si faceva anche più tardi) al primo taglio di capelli del neonato, con un paio di forbici. Le piccole ciocche erano poi chiuse in una scatola, che veniva seppellita nel santuario del villaggio, per indicare al kami (ujigami) che il bambino era affidato alla sua custodia.8
In generale, la nascita di gemelli non era benvista: la madre si vergognava un poco di aver partorito «come gli animali», e la credenza popolare voleva che una sorte infelice incombesse sui bambini nati in questo modo per l’intera durata della loro vita. Quindi, nell’intento di scongiurare gli influssi malefici, ai gemelli si davano nomi particolarmente allegri.9
Sebbene la nascita fosse circondata da un certo mistero, le emozioni che non mancava di suscitare nei futuri genitori sono spesso descritte nei romanzi dell’epoca. E nel Gikeiti, un’opera che narra le peripezie della fuga dello sfortunato Yoshitsune nel Nord del Paese, il narratore ci fa addirittura assistere alla nascita, nella foresta, del figlio del proscritto:
Anche Hitachibō giunse le mani in preghiera, mentre Kanefusa emetteva grandi sospiri. Yoshitsune riposava, come fosse annientato, accanto a sua moglie. «Ah, quanto fa male!» esclamò la dama, aggrappandosi con forza al braccio di Yoshitsune nel riprendere i sensi (perché era svenuta pochi momenti prima mentre Benkei, il fedele servitore di Yoshitsune, era sceso in fondo alla collina, per andar a prendere un po’ d’acqua). Benkei si sforzò di massaggiarle le reni, e il bambino nacque senza altre complicazioni. Benkei avvolse il piccolo che vagiva nella sua tonaca di monaco, poi lo lavò con l’acqua della giara, dopo aver tagliato goffamente il cordone ombelicale.
«Diamogli immediatamente un nome. Siamo tra le montagne di Kamewari. Poiché kame significa tartaruga, e si reputa che la tartaruga viva a lungo, accoppiamo il suo nome a quello di tsuru, gru, che a quanto si dice vive mille anni, e chiamiamolo Kametsuru!» propose egli.
«Povero piccolo mendicante! Riuscirà mai a crescere?» si lamentò Yoshitsune. «Se il mio avvenire fosse più brillante, andrebbe benissimo. Sarebbe meglio abbandonarlo su queste montagne, quando è ancora troppo piccolo per rendersene conto.»
Ma sua moglie, dimenticando le sue recenti sofferenze, si mise a gridare: «Che vergogna, dire una cosa simile! Adesso che è stato così fortunato da entrare nel mondo degli uomini, come osate parlare di ucciderlo, ancor prima che abbia avuto il tempo di scorgere la luna e il sole? Kanefusa, prendete il piccolo, se Sua Signoria è scontento! Egli non deve morire, anche se voi e io dovremo ritornare nella capitale con lui...».10
In tutte le famiglie, anche se spesso si evitava di darlo a vedere, una nascita era sempre considerata come un evento gioioso, e i primi a rallegrarsene erano evidentemente i genitori. A corte, tuttavia, le bambine erano desiderate più ardentemente dei maschietti, perché esse potevano sempre sperare in un matrimonio al di sopra delle loro condizioni. Quando una giovane donna fu elevata a un altissimo rango, il Taiheiki, che ci riferisce questa storia, commenta il fatto aggiungendo: «Sulla sua famiglia discese la gloria, in maniera piuttosto strana, del resto, e in modo tale che la gente del paese non ebbe più che disprezzo per i ragazzi, e sognava di avere soltanto bambine».11 Anche un maschio, però, arrecava grandissima gioia, perché la sua nascita era un avvenimento di cui si poteva andar fieri, soprattutto se si trattava di un primogenito. Dopo la nascita del figlio di Genji, l’imperatore dimostrò un’impazienza di vedere il bambino di Fujitsubo pari a quella del padre stesso. Pertanto Genji si recò al palazzo della sua sposa in un momento in cui c’era ancora poca gente, e le fece portare un biglietto nel quale la pregava di tener conto dello stato d’impazienza dell’imperatore e del fatto che l’etichetta gli vietava di venire di persona prima di parecchie settimane, e di aver quindi la bontà di lasciargli vedere il bambino, perché lui stesso lo potesse descrivere all’imperatore.12 Il trentunesimo giorno per i maschi, e il trentatreesimo per le femmine, la madre, scortata da qualche parente, usciva per la prima volta e si recava con il bambino al santuario shintō. Dopo la presentazione al sacerdote, la madre batteva le mani per richiamare l’attenzione del kami locale, e accendeva una lampada.13 Poi, nella casa, si preparava un pasto, al quale erano invitate le persone presenti il giorno della nascita e gli amici intimi. Da quel momento si considerava che il bambino facesse ufficialmente parte della società. Tutti i tabù erano tolti definitivamente, e il padre poteva avvicinare di nuovo sua moglie. Da quel giorno il piccolo (almeno presso la gente comune) lasciava le braccia della madre, per andare a collocarsi sulla sua schiena. Di solito, lo svezzamento era molto tardivo, perché i genitori indietreggiavano istintivamente davanti a questa fase della crescita, giudicata a quei tempi pericolosa per la vita del bambino. In questa circostanza, si incominciava a dargli un po’ d’acqua in cui era stato bollito del riso, poi una poltiglia di riso o di altri cereali.
Verso il centoventesimo giorno dopo la nascita, i genitori avevano l’usanza d’invitare la famiglia e qualche amico, e per l’occasione il piccolo riceveva il suo primo nutrimento solido. La cerimonia si chiamava Tabezome. Si preparava per il bambino una piccola tavola apparecchiata con utensili (scodelle, bastoncini), neri per un maschio, neri e rossi per una bambina.
Dopo aver ringraziato gli invitati dell’interesse che dimostravano per la salute del bambino, la madre se lo prendeva sulle ginocchia e sedendosi davanti al tavolino, gli introduceva in bocca, con l’aiuto dei bastoncini, un grano di riso.14 Tutti allora pronunciavano voti per la salute del piccolo. Infine, veniva il giorno tanto temuto dello svezzamento completo, a partire dal quale il bambino veniva nutrito soltanto con pappe di cereali. Finché i bambini erano molto piccoli si faceva poca differenza tra loro, sebbene il sentimento del diritto di anzianità fosse inculcato molto presto nel maschio primogenito, sempre servito per primo e in qualche modo favorito rispetto ai suoi fratelli più giovani.

Il mondo dell’infanzia

Il primo anniversario (tanjōbi) era, sia nella vita del bambino sia in quella dei genitori, un’occasione di grande allegrezza, anche negli ambienti più poveri. Gli amici della famiglia offrivano al bambino i suoi primi giocattoli, generalmente bambole di legno o di pezza, o cagnolini in terracotta dipinta. L’età era calcolata nella seguente maniera: si riteneva che il bambino, alla nascita, fosse già vissuto per un anno (il periodo di gestazione era contato un anno); poi, all’inizio dell’anno successivo a quello della nascita, gli veniva attribuito un altro anno. Così un bambino nato nell’ultimo giorno di un anno, aveva, fin dal giorno dopo, l’età di due anni...
Quando il bambino cominciava a parlare discretamente – generalmente verso i cinque anni, nei maschi, e verso i quattro nelle bambine – aveva luogo la cerimonia del taglio dei capelli, chiamata Kamisogi.15 Il bambino era messo in piedi su uno scacchiere del gioco di igo, poi si procedeva all’operazione con le forbici. In generale, ci si accontentava di accorciargli i capelli, e le ciocche tagliate erano messe su un vassoio. Quest’usanza, tuttavia, non era seguita dappertutto, e nella maggioranza dei casi, soprattutto presso la gente di campagna, i bambini conservavano capelli tagliati sommariamente, o qualche volta non tagliati affatto. Le loro teste venivano rasate, quando avevano troppe pulci. Alle bambine, di solito, si lasciava la capigliatura intera; le ragazze dovevano tagliarsela soltanto se rinunciavano al mondo o se, rimaste vedove, non avevano intenzione di risposarsi.
I giochi dei piccoli giapponesi erano uguali a quelli di tutti i bambini del resto del mondo. Da piccolissimi, si divertivano con bambole di legno, di pezza o di paglia, con figurine di terracotta dipinta che, essendo talvolta montate su ruote, i bambini si trascinavano dietro.16 I maschietti giocavano alla guerra, con archi e sciabole di legno di loro fabbricazione, oppure stuzzicavano i cani, numerosi nelle corti di tutte le abitazioni. Durante l’estate i ragazzini giravano completamente nudi, soprattutto quelli del popolo. A partire da una certa età, erano vestiti con una specie di kimono cortissimo fissato alla vita da una cintura di stoffa cucita all’abito, e appena suffici...

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