Dove sono tutti quanti?
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Dove sono tutti quanti?

Un viaggio tra stelle e pianeti alla ricerca della vita

Amedeo Balbi

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Dove sono tutti quanti?

Un viaggio tra stelle e pianeti alla ricerca della vita

Amedeo Balbi

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"Siamo soli nell'universo?" è una domanda che lascia un senso di vertigine a chiunque. Amedeo Balbi, nato all'alba degli anni '70, se la pone fin da quando era bambino. All'epoca erano tanti gli stimoli che potevano suscitare questo genere di curiosità in una mente giovane ed entusiasta: il ricordo recente della corsa allo spazio culminata con lo sbarco sulla Luna nel 1969, ma anche la serie Spazio 1999 del '76, Guerre stellari del '77, Goldrake del '78… Oggi, a distanza di quarant'anni, Balbi è un astrofisico e, quando ammira il cielo stellato con stupore immutato, si pone sempre la medesima domanda. Che cosa potrebbe dire a quel ragazzino degli anni '70 per non deluderlo? Non c'è ancora una risposta definitiva: sì o no. Però, la scienza ha fatto formidabili balzi in avanti e oggi abbiamo molti elementi nuovi per orientarci in quel luogo pieno di mistero e meraviglia che è l'universo. Questo libro è un volo emozionante, con qualche deviazione tra filosofia e storia della scienza, alla scoperta di queste ultime acquisizioni: fra le altre cose, Balbi ci dà un'idea realistica - e da far scoppiare la testa! - delle distanze siderali, ci spiega in quali particolari condizioni possa fiorire la vita (magari finora non l'abbiamo cercata al posto giusto!) e ci elettrizza facendoci seguire le sonde nello spazio e rivelandoci l'esistenza di un numero incommensurabile di pianeti extrasolari. È una rara combinazione di rigore scientifico, chiarezza divulgativa e passione, Dove sono tutti quanti?, una lettura che ci porta lontanissimo nel cosmo ma anche ci fa riflettere su noi stessi. Perché scoprire se siamo soli nell'universo è un tassello fondamentale per capire chi siamo.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2016
ISBN
9788858684733

1

Un tremendo spreco di spazio

Potremmo partire da qui: l’universo è grande.
Più o meno nello stesso periodo in cui lessi per la prima volta Nel cosmo alla ricerca della vita, mi capitò di vedere un filmato che mi lasciò a bocca aperta. Iniziava così: un uomo e una donna, seduti su una tovaglia in mezzo a un prato, che facevano un picnic. Sulle prime sembrava un comunissimo quadretto di vita di coppia, anche un po’ noioso: sole, grandi sorrisi, vento tra i capelli, la donna ripone gli avanzi del pasto e prende un libro, l’uomo si prepara per la pennichella. Dopo qualche istante, però, il punto di vista cambiava improvvisamente: la stessa scena veniva ripresa dall’alto, con un’inquadratura fissa, e la cornice dell’immagine diventava quadrata, isolando un dettaglio da tutto il resto. Il lato della cornice, ci informava una voce fuori campo, misurava esattamente un metro. Dentro quell’inquadratura di una regione di spazio di un metro quadrato c’era posto più o meno per la metà superiore del corpo dell’uomo disteso sulla tovaglia.
A quel punto, la macchina da presa iniziava a muoversi all’indietro, salendo verso l’alto. Ogni 10 secondi, continuava a spiegare la voce fuori campo, il lato del quadrato ripreso nell’inquadratura diventava dieci volte più grande: 10 metri, 100 metri, 1000 metri, e così via. In pratica, dunque, ogni 10 secondi si aggiungeva uno zero alla misura del lato del quadrato. I secondi passavano, la tovaglia diventava un quadratino perso in un grande prato, il prato diventava una macchiolina di verde in mezzo a una città, la città diventava un puntino sulla superficie della Terra. In breve anche la Terra diventava solo un puntino, perso nel buio dello spazio. Trascorsi circa 4 minuti – dopo aver abbandonato il sistema solare, aver visto la nostra galassia con le sue centinaia di miliardi di stelle diventare prima un batuffolo e poi un puntino, quindi tutte le altre centinaia di miliardi di galassie trasformarsi in un pulviscolo a malapena visibile – la camera si soffermava per qualche istante su un quadrato completamente nero. Il lato dell’inquadratura, adesso, era grande 1.000.000.000.000.000.000.000.000 metri, ovvero 1 seguito da 24 zeri: eravamo arrivati a inglobare in una sola occhiata una regione di spazio grande quasi quanto l’intero universo osservabile. A quel punto, la macchina da presa faceva rapidamente il percorso all’indietro, tornando alle persone sul prato, per poi inabissarsi nel mondo microscopico degli atomi e delle particelle elementari.
Quel viaggio di meno di 10 minuti mi mise addosso un misto di esaltazione e terrore. Era una cosa semplicissima e allo stesso tempo assolutamente devastante. Ebbi per la prima volta l’esperienza quasi tangibile di un fatto che, tutt’ora, ritengo uno dei più importanti, forse addirittura il più importante, da tenere presente quando si parla dell’universo, e cioè, appunto: l’universo è grande. Grande in una maniera talmente al di là di qualunque immaginazione, di qualunque idea di grandezza di cui abbiamo esperienza diretta, che si può provare a visualizzarlo solo ricorrendo a espedienti ingegnosi. Quel filmato lo faceva in modo spettacolare: si chiamava Potenze di dieci (Powers of Ten) e lo avevano realizzato nel 1977 due designer, marito e moglie: Charles e Ray Eames. La voce narrante era quella di Philip Morrison, un fisico del MIT che diede una mano anche per la scrittura del testo. Era un progetto piuttosto ambizioso per i mezzi dell’epoca, e gli Eames ebbero bisogno del supporto dell’IBM per metterlo in atto. In seguito ne sono state fatte diverse altre versioni, ancora più sofisticate dal punto di vista grafico, ma l’idea è rimasta la stessa, cioè quella dello zoom all’indietro, del cambiamento di punto di vista. Guardare le cose da lontano, sempre più separati dal mondo in cui siamo nati e che ci sembra così accogliente e così importante, in cui si consumano le nostre piccole vicende personali e i grandi movimenti della storia, e in cui trovano comodo spazio tutti i nostri orizzonti.
Non è un’idea nuova. I coniugi Eames, in particolare, avevano avuto l’ispirazione per Potenze di dieci da un libro illustrato intitolato Cosmic View, pubblicato nel 1957 da un oscuro educatore olandese di nome Kees Boeke. Immaginare di osservare il mondo dalle distanze siderali, mettendo in prospettiva le nostre preoccupazioni quotidiane, rimpicciolendole fino a farle scomparire, era un esercizio mentale caro anche a molti pensatori antichi (per esempio, lo praticava abitualmente l’imperatore Marco Aurelio). Solo che questi pensatori antichi non avevano ancora un’idea precisa, quantitativa, delle vere dimensioni del cosmo, né della sua struttura complessiva e del posto che occupa il nostro pianeta al suo interno. Tutte questioni che la scienza ha messo a fuoco lentamente, nel corso di diversi secoli, arrivando a un quadro consolidato solo negli ultimi decenni.
Il cammino delle idee moderne di universo è iniziato verso la fine del XVI secolo, quando Copernico ha tolto la Terra dal centro del cosmo mettendola in orbita attorno al Sole e trasformandola in un pianeta come gli altri. (In realtà, va detto che il modello eliocentrico di sistema solare era già stato ipotizzato tre secoli prima di Cristo dal filosofo greco Aristarco di Samo.) Da lì in poi, ogni volta che la nostra capacità di osservare si è spinta un po’ oltre, anche la nostra idea del cosmo si è ampliata, e con essa la comprensione del posto che occupiamo al suo interno. Dunque, oggi sappiamo che il nostro pianeta, la Terra, orbita assieme ad altri sette pianeti e a un gran numero di corpi minori attorno a una stella di medie dimensioni, il Sole, e che il Sole occupa una posizione periferica in una grande galassia a forma di disco, chiamata Via Lattea, di cui fanno parte altre centinaia di miliardi di stelle. La Via Lattea, a sua volta, è solo una tra centinaia di miliardi di galassie esistenti nella regione finita di universo che possiamo osservare (che peraltro non coincide necessariamente con l’intero universo, se con questo termine intendiamo la totalità di tutto ciò che esiste). Nessuna di loro occupa un posto che possa essere ritenuto speciale: il cosmo non ha un centro, ogni posizione è in media equivalente a qualunque altra. Tutte queste galassie inoltre si allontanano tra loro, trascinate da una espansione dello spazio che va avanti da miliardi di anni, sicché l’universo, che è già enorme, diventa sempre più grande.
Siamo insomma abituati, o quantomeno dovremmo esserlo, a considerarci lontani da qualunque pretesa di occupare una posizione privilegiata nell’universo, a differenza di quanto facevano i pensatori antichi che ritenevano la Terra il centro materiale e simbolico di tutto quanto esisteva. Quello che non siamo abituati a fare, però, è valutare l’entità delle distanze coinvolte, le dimensioni del teatro cosmico in cui va in scena il nostro piccolo dramma. D’altra parte, noi esseri umani non ci siamo evoluti per comprendere questo tipo di vastità. La nostra esistenza si svolge quotidianamente in un raggio di qualche chilometro, e anche il viaggiatore più avventuroso non si allontanerà mai più di qualche migliaio di chilometri dal luogo in cui è nato. Persino gli astronauti, di norma, orbitano attorno al nostro pianeta a qualche centinaio di chilometri di quota, una distanza che potremmo coprire in macchina in qualche ora. I pochi esseri umani che si sono spinti oltre, fino alla Luna, hanno semplicemente messo per un attimo la punta del piede nell’oceano di vuoto che ci circonda.
Per questo è essenziale, credo, sforzarci di capire quanto è grande l’universo. Uno dei modi possibili è, appunto, quello usato da Potenze di dieci: moltiplicare per dieci, un’operazione che sa fare anche un bambino. Partendo dalla dimensione di un essere umano e ingrandendo l’inquadratura, aggiungendo uno zero alla volta, in meno di 30 passi finiamo per inglobare tutto quello che potremo mai sperare di conoscere direttamente. Il risultato è bellissimo da vedere, mozza il fiato, ma è anche un po’ fuorviante. Se volessimo metterlo in pratica nella realtà, la macchina da presa dovrebbe coprire distanze sempre maggiori nel suo percorso all’indietro, accelerando a velocità vertiginose verso la fine del filmato. E poi, diciamoci la verità, nessuno riesce ad afferrare in modo intuitivo la differenza che c’è, per dire, tra 1 milione e 1 miliardo di chilometri. Insomma, la cosa ci fa perdere un po’ di vista la grandezza relativa delle cose.
Una possibilità che mi piace di più, e mi sembra più efficace e concreta, è immaginare di costruire dei modelli, come facevamo da bambini.
C’è un semplice test che ho visto in un video su internet, alcuni anni fa. Un tizio andava in giro con un pallone da pallacanestro e una pallina da tennis, e fermava delle persone a caso, per strada. Spiegava al suo interlocutore di turno che tra il pallone e la pallina c’è lo stesso rapporto di dimensioni che esiste fra la Terra e la Luna, poi gli consegnava la pallina da tennis e, tenendo lui in mano il pallone, gli chiedeva di allontanarsi alla distanza giusta per riprodurre, in scala, la corretta distanza tra il nostro pianeta e il suo satellite. Voi quanto vi sareste allontanati?
Pensateci. Io faccio l’astrofisico, dovrei avere un’idea chiara delle distanze in gioco: ma a istinto, senza fare i calcoli mentalmente, forse avrei risposto come la maggior parte delle persone fermate per strada. Le quali, ci mostra il video, posizionano la pallina più o meno a 1 metro di distanza dal pallone, in alcuni casi anche meno. Be’, l’istinto spesso ci frega, bisogna fare i calcoli, misurare. La risposta giusta è circa 7 metri. Provate a visualizzare la cosa mentalmente, o meglio ancora a farla sul serio. Prendete un pallone da pallacanestro, immaginate che sia il nostro pianeta, poi prendete una pallina da tennis, allontanatevi di 7 passi, voltatevi indietro. La pallina da tennis che avete in mano è la Luna, e quella palla da basket laggiù è la Terra. Immaginateli fluttuare nel buio, separati dallo spazio vuoto. Poi provate a pensare che, per passare dal modello alla cosa reale, dovreste ingrandirlo 53 milioni di volte. La prossima volta che guarderete la Luna sarete un po’ più consapevoli di quello che avete di fronte. Se penso che degli esseri umani si sono fatti sparare laggiù a bordo di una capsula grande più o meno quanto un’utilitaria mi scoppia la testa.
Eppure, su scala cosmica, la distanza tra Terra e Luna è semplicemente ridicola. Se volessimo continuare con il nostro modello, infatti, il Sole sarebbe una sfera di circa 26 metri di diametro, più o meno l’altezza di un palazzo di nove piani. Per metterlo alla distanza giusta dalla Terra – ovvero dal nostro pallone – dovremmo piazzarlo a quasi 3 chilometri di distanza. Marte sarebbe una palla di 13 centimetri di diametro, a circa 4 chilometri dal Sole. Giove misurerebbe quasi 3 metri di diametro e si troverebbe tra 14 e 15 chilometri di distanza dal Sole. Se voleste includere anche Plutone (un tempo ritenuto il nono pianeta) dovreste piazzare una pallina di 4 centimetri di diametro a 110 chilometri di distanza. Insomma, il nostro modello di sistema solare non sarebbe molto maneggevole.
Potremmo rimpicciolirlo ancora un po’: che ne dite di usare il pallone da pallacanestro per rappresentare il Sole, invece della Terra? A questa scala, la Terra diventerebbe appena visibile: un granello di 2 millimetri di diametro, posizionato a 25 metri di distanza dal pallone. Gli unici pianeti che non rischierebbero di essere spazzati via da una ventata sarebbero Giove e Saturno, due biglie di un paio di centimetri di diametro. Peccato che rischieremmo di perderli di vista, dato che uno si troverebbe a oltre 100 metri di distanza dal nostro Sole in miniatura, l’altro a più di 200. Insegnanti, dite addio all’idea di fare un modello in scala del sistema solare con la vostra classe.
Ma siamo ancora all’inizio, nel piccolo recinto del nostro giardinetto. Volete sapere dove sarebbe, a questa scala, con la Terra come un granello, la stella più vicina al Sole, Proxima Centauri? Sarebbe a quasi 7000 chilometri: la distanza tra Roma e New York (misurata sulla superficie terrestre).
Quindi, se volessimo costruire un modello della nostra galassia, la Via Lattea, dovremmo rendere tutto ancora più piccolo. Vediamo: se facciamo diventare il Sole un granello di 1 millimetro, Proxima Centauri sarebbe ancora piuttosto distante, ben 30 chilometri. Dove le mettiamo tutte le altre stelle? Non funziona.
Trasformiamo il Sole in un granello di polvere, grande 1 centesimo di millimetro. Ci servirebbe una buona lente di ingrandimento per accorgercene, ma a questa scala Proxima Centauri sarebbe un altro granello di polvere a “soli” 200 metri dal Sole. Il centro della Via Lattea, però, sarebbe a quasi 2000 chilometri di distanza, più o meno la distanza in linea d’aria tra Roma e Stoccolma. L’intera galassia avrebbe un raggio circa doppio.
Proprio così. Tutta la nostra galassia sarebbe una nuvola fatta da centinaia di miliardi di minuscoli granelli di polvere, sparsi per un raggio di migliaia di chilometri e separati uno dall’altro da centinaia di metri di spazio vuoto. Prendiamo questa nuvola, rimpiccioliamola 1 milione di volte, in modo che entri in una stanza. Ora la Via Lattea è un disco di 1 metro di diametro, spesso un paio di centimetri, e il Sole è cento volte più piccolo di un atomo di idrogeno. La galassia M31 Andromeda, la più vicina alla nostra, è un’altra nuvola simile a una ventina di metri di distanza. Le galassie più lontane sono a centinaia di chilometri da qui.
Come dicevo: l’universo è grande.
L’evidenza di questa grandezza iniziò dunque a mostrarmisi con tutta la sua forza emotiva la prima volta che vidi Potenze di dieci, lasciandomi per metà esaltato dalla vastità della prospettiva e per metà abbattuto dall’abisso che si spalancava tra i possibili mondi esistenti nell’universo. Continuavo a costruirmi astronavi con gli scatoloni (ne prendevo uno abbastanza grande da potermici sedere dentro, piegavo a mo’ di ali due lembi opposti della chiusura, quelli del lato più lungo, un altro lo alzavo in verticale dietro la schiena, e l’ultimo lo ripiegavo sopra le gambe, per farci un quadro di comando su cui attaccavo lucine dell’albero di Natale e disegnavo schermi, bottoni e quadranti) e a sognare di viaggiarci nel cosmo, alla ricerca della vita. Ma in realtà una parte di me aveva iniziato a fare i conti con la realtà, a capire che le cose erano più complicate di come si presentavano nelle storie di fantasia che mi piacevano tanto.
In quegli anni, i mezzi di informazione avevano dato molto spazio alle straordinarie foto di Giove, di Saturno, e dei loro satelliti, inviate dalle sonde Voyager. Si trattava di due sonde gemelle, costruite dalla NASA e lanciate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, tra l’agosto e il settembre del 1977. Arrivarono nei pressi di Giove un paio di anni dopo, nel 1979, studiando il pianeta per qualche mese prima di continuare per Saturno, che raggiunsero tra il 1980 e il 1981. Prima di allora, solo le sonde Pioneer 10 e 11 si erano spinte così lontano dalla Terra: avevano raggiunto Giove tra il 1973 e il 1974, e la Pioneer 11 aveva preso le prime foto ravvicinate di Saturno nel settembre del 1979 (mi sembra molto probabile, vista la coincidenza temporale, che il mio sogno di visitare Saturno fosse stato ispirato proprio dalle notizie riguardanti la Pioneer 11).
Le sonde Voyager e Pioneer erano, all’epoca, quanto di meglio l’umanità potesse fare in materia di viaggi spaziali. Pur non avendo un equipaggio umano, era quindi naturale che diventassero per me un termine di raffronto reale rispetto alle astronavi dei film di fantascienza. Tutto sommato, mi sembrava straordinario (e lo era davvero) che si potesse raggiungere Giove in un paio di anni di viaggio: era un tempo lungo ma ragionevole, pressappoco lo stesso che impiegava la nave spaziale Discovery One di 2001: Odissea nello spazio (nel film, proprio a causa della lunghezza del viaggio, si immaginava che una parte dell’equipaggio viaggiasse in stato di ibernazione per risparmiare risorse). Poco più di quattro secoli e mezzo prima, Magellano ci aveva messo il doppio per circumnavigare per la prima volta la Terra (in realtà ci aveva lasciato le penne prima di completare il giro, ma insomma), un viaggio che nell’ultimo secolo si era ridotto a poche ore, grazie agli aeroplani. E, al confronto, la velocità delle sonde Voyager era incredibile, decine di migliaia di chilometri l’ora rispetto al Sole. Un normale aereo di linea, con una velocità di crociera intorno ai 900 chilometri all’ora, ci avrebbe messo un centinaio di anni a raggiungere Giove.
La cosa poi che mi aveva davvero entusiasmato era che le sonde trasportavano al loro interno anche un messaggio da parte dell’umanità, nel caso in cui fossero state intercettate, in futuro, da qualche forma di vita intelligente. Le Pioneer avevano a bordo una semplice targa metallica, su cui erano state incise le figure di un uomo e di una donna e altri simboli, tra cui uno schema del sistema solare e della posizione del nostro pianeta al suo interno. Sulle Voyager le cose erano state fatte in maniera più elaborata: c’era un disco a microsolco dorato, contenente una selezione di suoni naturali, saluti in cinquantanove lingue, novanta minuti di brani musicali da varie culture, e centoquindici immagini di vita sulla Terra. Tutto questo mi sembrava fantastico e mi incoraggiava a immaginare un futuro a portata di mano in cui noi esseri umani ci saremmo allontanati a grande velocità dal pianeta dove eravamo nati.
Tuttavia, oggi mi è chiaro (e naturalmente lo era anche alla NASA negli anni Settanta) che l’idea di lanciare quei messaggi era poco più che simbolica, e che le speranze che essi raggiungessero possibili destinatari erano infinitesimali. In effetti, seguire il percorso compiuto dalle sonde Voyager negli oltre trent’anni trascorsi dalla loro partenza può darci un’ulteriore idea delle distanze in gioco nell’universo. Dopo aver lasciato Saturno nel 1981, la Voyager 2 ha raggiunto il pianeta successivo, Urano, nel 1986. Nel 1989 ha superato Nettuno, l’ultimo pianeta lungo la sua rotta, e da lì ha proseguito verso lo spazio esterno. La Voyager 1 è ripartita con circa un anno di anticipo da Saturno rispetto alla Voyager 2 ma, avendo seguito una rotta leggermente diversa per poter studiare da vicino il satellite Titano, ha mancato l’incontro con i due pianeti più esterni. Nel 1998 ha sorpassato la Pioneer 10, diventando l’oggetto più lontano costruito dall’uomo, nonché il più veloce (attualmente viaggia a circa 61.000 chilometri all’ora rispetto al Sole).
Il 14 febbraio 1990, a una delle due fotocamere a bordo della Voyager 1 fu impartito l’ordine di guardare in direzione del nostro pianeta. Non c’era più la preoccupazione di danneggiare il sistema visivo puntandolo troppo vicino al Sole, visto che a quel punto la missione principale era terminata e di lì a poco le camere sarebbero state disattivate per risparmiare energia. Era il momento di scattare un’ultima foto, che avrebbe mostrato il nostro pianeta da una distanza di 6 miliardi di chilometri, il punto di osservazione più lontano mai raggiunto da una sonda spaziale. Quando l’immagine fu elaborata, la Terra apparve come un minuscolo puntino, a malapena visibile.
L’idea della foto era stata di Carl Sagan, un astronomo che, fra le altre cose, aveva guidato la commissione che aveva selezionato il contenuto del disco d’oro spedito a bordo delle Voyager. Sagan è stato uno dei pionieri della ricerca di vita nell’universo, ed è riuscito nell’impresa piuttosto rara di essere un ottimo scienziato, un eccezionale divulgatore e un intellettuale di peso. (Ciliegina sulla torta, non si è fatto mancare neanche l’esperienza di scrivere un romanzo di fantascienza, Contact, da cui è stato tratto un film di successo: guarda caso, il film si apre con uno zoom all’indietro, dalla Terra al cosmo, che ricorda quello di Potenze di dieci.) Nel nostro paese Sagan non è stato mai tanto popolare quanto negli Stati Uniti, ma per me è stato importantissimo: se il libro di Piero Angela aveva acceso per primo la mia passione per la scienza e per l’astrofisica, fu un libro di Sagan, trovato casualmente in uno scaffale della biblioteca del mio liceo, ad alimentarla quando si stava un po’ attenuando, negli anni adolescenziali. Dopo averlo letto, decisi una volta per tutte che dopo il liceo mi sarei iscritto a Fisica, e avrei provato a diventare un astrofisico. (Il libro si intitolava Cosmo e, accidentalmente, era tratto anch’esso da una serie televisiva, andata in onda negli Stati Uniti nel 1980. In Italia, fu trasmessa qualche anno più tardi all’interno di un altro programma dello stesso Angela, il mitico Quark.)
Comunque, la foto della Terra scattata dalla Voyager 1 è poi divenuta nota come “Pale blue dot”: il puntino azzurro chiaro. Non è una foto particolarmente bella o spettacolare: ma è straordinaria per ciò che rappresenta – per il fatto stesso di essere riusciti a farla, e per la sensazione di fragilità e solitudine che quel puntino comunica. Qualche anno più tardi, lo stesso Sagan la commentò con parole molto ispirate. L’immagine di quel granello di polvere perso nel buio dello spazio, diceva tra l’altro Sagan, era la migliore dimostrazione di quanto fosse folle la vanità umana.
Mentre le Voyager co...

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