Il Dittatore
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Il Dittatore

Giampaolo Pansa

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Il Dittatore

Giampaolo Pansa

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Chi l'avrebbe mai detto? Matteo Salvini ci sembrava un politico di terza o quarta fila. Per di più cresciuto in una parrocchia da poco, la Lega Nord di Umberto Bossi. Il suo padrino appariva destinato a una misera fine. Un incidente cardiaco l'aveva portato sull'orlo della morte. Salvato per un pelo, non sapeva più parlare come un tempo. Tutti lo consideravano il più anziano handicappato di Montecitorio. Che futuro poteva avere quel milanesone massiccio, senza arte né parte, che non aveva neppure saputo prendere una laurea in Storia, una delle più facili, diventando un fuoricorso professionale? Ma la politica, almeno quella italiana, è un congegno magico che riserva mille sorprese. E così, anno dopo anno, il Sal-vini ha scalato il sesto grado del potere pubblico. E adesso, nella primavera del 2019, è diventato il primo dei nostri padroni politici. Nelle elezioni europee di maggio ha conquistato il 34 per cento dei voti. E ha subito iniziato a governare, pur non avendo il titolo costituzionale per farlo. Ma da semplice ministro dell'Interno ha cominciato a vendicarsi su quanti l'avevano osteggiato o si erano rifiutati di inchinarsi. Non sono pochi quelli che l'hanno aiutato. Per prima la sinistra italiana, con un Partito democratico che continua a suicidarsi. Poi i direttori di tanti media stampati e televisivi che non hanno saputo sottrarsi all'antica abitudine di sottomettersi al potere. Eppure questi signori avrebbero dovuto intuire che l'ascesa di Salvini non si fermerà se non quando lui sarà diventato il padrone assoluto del nostro Paese. Il titolo di questo nuovo libro è secco e duro come un colpo di fucile: il Dittatore. Ecco che cosa è diventato il capitano leghista. Le sue prime scelte lo confermano. Vorremmo sbagliarci. Ma siamo appena all'inizio di una storiaccia che durerà anni.

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Information

1

Come nasce un dittatore

Prima di raccontare le avventure autoritarie di Matteo Salvini, il Capitano della Lega, fermiamoci un momento per domandarci come nasce un dittatore. Garantisco ai lettori di questo libro che la risposta non sarà un’introduzione noiosa alle pagine che stanno per leggere. Infatti non presenterò un saggio di politologia, per la semplice ragione che non sono un politologo e non mi sono mai vantato di esserlo. Mi affiderò soltanto alla mia specialità, quella di narrare le vicende di cui mi sono occupato lavorando per anni in tanti giornali. Dunque questo capitolo risulterà dettato anche da molte esperienze personali.
La storia dell’Europa nel Novecento ci ha già spiegato che esistono circostanze politiche valide in tutte le epoche e per tutte le nazioni. Quindi ci aiutano a comprendere come nell’Italia del Duemila sia stata possibile la scalata al potere di un personaggio come Salvini. Avverto i lettori che quello che hanno tra le mani non è un testo elogiativo del Capitano leghista, bensì un racconto antipatizzante nei suoi confronti. Un motivo di più per leggerlo, dal momento che nel giornalismo e nell’editoria libraria italiana si stanno moltiplicando i testi che ne tessono le lodi. Ecco un peccato nel quale non cadrò mai. Del resto a testimoniarlo c’è la mia carriera di cronista ottantenne, cresciuto in tanti giornali, senza aver aderito a nessun partito politico o movimento. Però non mi sono mai vantato di possedere la verità.
Quando era di moda inginocchiarsi dinanzi alla potenza della Democrazia cristiana, le mie critiche alla Balena bianca divennero sempre più corrosive. Lo stesso accadde con il Partito comunista italiano. Quando il segretario era Enrico Berlinguer mi proposero di diventare uno dei loro parlamentari, ma rifiutai. La stessa proposta mi arrivò da Bettino Craxi. Lo criticai spesso, soprattutto durante il sequestro di Aldo Moro, ma lui aveva rispetto della mia indipendenza. Del resto ci eravamo conosciuti da studenti universitari. Allora militavamo nell’Unione goliardica italiana. E rammento Bettino con i capelli lunghi e i pantaloni alla zuava.
Ma ritorniamo al tema di questo capitolo iniziale: come nasce un dittatore. A mio avviso, tutta la faccenda ha origine da un fatto avvenuto nell’autunno del 1993. Un italiano pieno di soldi guadagnati con il media più lucroso, la televisione privata, decide di gettarsi nella battaglia politica. Il primo passo è quello di fondare un partito personale. Con quale scopo? Tutelare i propri interessi, a cominciare da quelli del suo gruppo televisivo. Chi legge avrà già compreso che sto parlando di Silvio Berlusconi e di Forza Italia, che in seguito darà vita a un gruppo politico più vasto, il Popolo della Libertà.
Qualche lettore se ne ricorderà: eravamo nel passaggio tra il 1993 e il 1994. E stavamo alla vigilia di nuove elezioni parlamentari italiane. In quel momento io lavoravo a «Repubblica» e scrivevo la rubrica del Bestiario sull’«Espresso». Entrambe le testate erano scese in guerra contro Berlusconi, dando origine a un conflitto che sarebbe durato anni, alimentato e guidato da un comandante che si chiamava Eugenio Scalfari, un signore dal carattere forte che non poteva soffrire Berlusconi. In molti ci accusavano di essere eccessivi nel nostro duello con il Cavaliere. E qualche volta l’ho pensato anch’io. Ma oggi devo ammettere che avremmo dovuto essere ancora più accaniti nello scontro con lui.
Perché mai? Perché avremmo dovuto intuire che la scelta compiuta da Berlusconi introduceva nella politica italiana una novità assoluta e molto pericolosa: quella del partito personale, molto ricco, molto autoritario, molto insofferente di una regola fondamentale propria di tutte le democrazie. All’inizio del Duemila si ripeteva una storia che avevamo già visto all’inizio del Novecento, dopo la Prima guerra mondiale: la nascita di un altro partito personale. Sto parlando di quello fascista, guidato da un leader politico spregiudicato e per niente democratico: Benito Mussolini.
Qualche lettore adesso penserà che mi preparo a cantare la solita canzone. Quella che dice: Silvio era un facsimile di Benito. I lettori si sbagliano. Mi sono comportato molte volte da fazioso, ma non sono mai arrivato a tanto. Tuttavia, nel fondare Forza Italia, il Cavaliere, a mio parere senza nemmeno rendersene conto, stava introducendo nel nostro paese una quantità di virus che in seguito hanno reso più fragile la Repubblica italiana.
Nelle intenzioni dei costituenti, il nostro Stato avrebbe dovuto reggersi su una serie di partiti differenti tra loro e su un Parlamento espresso da tante fazioni diverse. Il ricordo di una dittatura era ancora troppo vicino e ci obbligava a stare in guardia e a essere cauti. Anche se Berlusconi poteva apparire un Mussolini da barzelletta.
Invece accadde tutto il contrario. I decenni successivi alla sua discesa in campo furono il regno di Berlusconi e dei suoi alleati. Il Cavaliere conquistò anche il gruppo Mondadori e cercò di mettere al suo servizio testate di quotidiani e di settimanali, direttori e giornalisti. Se fosse riuscito nel suo intento, la stampa italiana sarebbe diventata il regno di un uomo solo, con effetti disastrosi sulla libertà di ciascuno di noi.
Chi poteva impedirlo? Soltanto la politica che non amava avere come avversario un magnate troppo potente. Un signore che vedeva al proprio servizio l’intero sistema dell’informazione italiana, a cominciare dalla carta stampata e dalle tivù di proprietà, un binomio considerato molto pericoloso in tutte le nazioni.
Fu un partito politico, la Democrazia cristiana, a mandare al tappeto le velleità imperiali del Berlusca. Contro di lui si mosse Giulio Andreotti che impose quella che venne definita la spartizione. Il Cavaliere perse anche perché il leader socialista dell’epoca, Bettino Craxi, non lo appoggiò con la decisione che Silvio si aspettava. La cosiddetta guerra di Segrate, chiamata così dal nome della località milanese dove ha sede la Mondadori, lasciò a Berlusconi soltanto una parte del bottino che puntava a conquistare.
In quella battaglia, che ho vissuto in prima persona dalla trincea di «Repubblica», non vidi mai nessuno della Lega Nord al nostro fianco. Umberto Bossi, il primo leader leghista, stava sul campo da tempo, ma nutriva soltanto un sogno irrealizzabile: l’autonomia dell’Italia settentrionale. La tanto acclamata Padania. Matteo Salvini era poco più di un apprendista stregone. I sottocapi leghisti non contavano nulla, a cominciare da Roberto Maroni, allora un semplice deputato di Varese che si dilettava in giochi di parole: «Noi siamo per il cambiamento perché siamo il cambiamento stesso». E nel tempo libero suonava in un complesso musicale.
Sulle velleità di Bossi non ci avrebbe scommesso nessuno, perché quasi nessuno si rendeva conto che sulla scena politica italiana l’Umberto e la sua piccola Lega potevano contare su un alleato imprevisto: la sinistra e i partiti che la componevano. Oggi, e parlo della tarda primavera del 2019, la sinistra non esiste quasi più, come avrò modo di ricordare. Non l’ha uccisa nessuno. La sua scomparsa quasi totale è la conseguenza di una serie di scelte sbagliate che l’hanno fatta precipitare nella tomba. Dubito che potrà risollevarsi tanto presto. I risultati del 26 maggio, al momento, mi sembrano un fuoco di paglia.
Ai giorni nostri i protagonisti della vita pubblica italiana sono soltanto tre: il Movimento 5 Stelle, la Lega di Matteo Salvini e quel che resta di Forza Italia. Il capo politico degli stellati è Luigi Di Maio, un trentenne uscito dalla covata di Beppe Grillo, un personaggio che in questa stagione non conta più nulla.
Proviamo a confrontare Salvini e Berlusconi. L’inventore di Forza Italia è un signore ottantenne con gli acciacchi di tutti i suoi coetanei. Nella primavera del 2019 ha subito una delicata operazione per sua fortuna riuscita. Ma il suo ciclo politico è finito. Davanti a sé, e ormai da tempo, ha soltanto un tramonto senza speranze. A salvare il suo futuro non basteranno certo le belle parlamentari forziste, a cominciare da Mara Carfagna, che senza nessuna colpa provocò la prima crisi matrimoniale di Silvio.
Paragonato a Berlusconi, Matteo Salvini appare senza dubbio il più forte. Ha molti anni in meno del Cavaliere. Non possiede i milioni di euro di Silvio, ma potrebbe aver imparato come si possono raccogliere con sistemi sofisticati e senza insospettire i magistrati. Ha una struttura fisica che pochi suoi coetanei possono vantare. E soprattutto si è dato una missione: diventare il leader della politica italiana. Il suo è un progetto esistenziale che autorizza l’uso di qualsiasi mezzo per riuscire a realizzarlo.
Prima di Salvini in Italia ci ha provato un uomo solo: Benito Mussolini, il Duce del fascismo che oggi sta ritornando di moda e viene osannato su tante piazze. Ma il figlio del fabbro di Predappio possedeva un vantaggio rispetto al capo leghista: aveva subito fatto la scelta della violenza fisica contro i suoi oppositori. Gli squadristi in camicia nera, armati del santo manganello e di dosi infinite di olio di ricino, furono decisivi per la conquista del potere. Almeno quanto la complicità della monarchia dei Savoia, guidata da un re fellone come Vittorio Emanuele III.
Sino a oggi, e parlo della primavera 2019, Salvini non può contare su squadre d’azione, e soprattutto si guarda bene dal dichiarare di voler diventare il padrone della politica italiana e meno che mai un dittatore.
Ma il futuro dell’Italia e del leader leghista è ancora tutto da scrivere. Nessuno lo conosce. E nessuno sa dire se a salvarci da una dittatura saranno i 5 Stelle o qualcun altro che non sappiamo chi sia. Tanti anni fa Leo Longanesi si era domandato: «Ci salveranno le vecchie zie?». Oggi ci domandiamo: «Ci salveranno gli eredi di Beppe Grillo? O i vecchi comunisti?».
2

Bossi, il Senatur

Sul conto di Umberto Bossi, il fondatore e il primo leader della Lega, avevo già intuito tutto molti anni fa. Quando mi capitò di confrontare le facce di due politici che allora contavano molto in Italia. Silvio Berlusconi, ripreso dalla tivù mentre si aggrappava al presidente americano Barack Obama e gli parlava della dittatura giudiziaria che a sentir lui soffocava l’Italia, aveva il volto dell’uomo disperato. Dalle mie parti si dice «sfilusumià», uno che ha perso il suo aspetto abituale. Gli occhi erano due fessure, gli zigomi sporgevano come gelidi speroni, le labbra quasi non si vedevano, il colorito era terreo.
Il Cavaliere presentava al G8 del 2011 a Deauville in Francia la maschera della persona angosciata, travolta dalla convinzione di essere vittima di una congiura allestita dai pubblici ministeri, dai media avversari e dalle sinistre. Temeva di essere spinto a terra. E ferito anche nel patrimonio personale per il risarcimento astronomico che forse avrebbe dovuto versare al suo nemico di sempre, l’ingegner Carlo De Benedetti. Mi avevano colpito le parole del ministro degli Esteri, Franco Frattini: il premier è un uomo straziato da una profonda sofferenza.
Berlusconi aveva tutte le debolezze dell’imprenditore diventato ricco grazie al suo lavoro. La ricchezza era la misura della sua esistenza. Per cominciare gli consentiva di godersi delle amanti molto giovani. E di poterle cambiare con una frequenza che per i comuni mortali è una chimera. Anche per questo motivo il sesso aveva un ruolo dominante nelle sue giornate. Non poteva farne a meno e non si tratteneva dall’esibirlo in pubblico, nel senso di mostrare anche agli estranei la sua potenza in camera da letto. Era quasi un obbligo sociale che finì con il procurargli un’infinità di guai.
Umberto Bossi, invece, aveva la faccia di uno che ha visto la morte da vicino ed è riuscito a sconfiggerla. I capelli parevano una selva ribelle, gli occhi due fari dilatati, mentre la bocca andava per conto suo. Le parole gli uscivano a stento, pronunciate da una voce rauca. Le mosse del corpo risultavano rallentate. Ma la debolezza fisica non attenuava la sua forza.
Se lo osservavi bene, e se lo ascoltavi quando tentava di parlare come gli riusciva un tempo, ti accorgevi di avere di fronte un leader politico che se ne infischiava di tutto e di tutti, a cominciare dall’amico Silvio. E che si preparava a mollarlo per andare da solo verso l’ignoto. Del resto, Bossi l’aveva detto in anticipo: la Lega non affonderà insieme a Berlusconi, lui può annegare, ma noi ci salveremo.
Nel settembre del 2011 il capo della Lega avrebbe compiuto settant’anni. Ma, a parte l’aspetto fisico, era sempre uguale a se stesso. La prima volta che l’avevo intervistato, nel febbraio del 1992, alla vigilia dell’ultima campagna elettorale della Prima Repubblica, esibiva già la grinta del leader sicuro di sé. Insieme alla certezza di uscirne vincitore, dal punto di vista personale e politico.
Nel dicembre dell’anno precedente era incappato in un piccolo incidente cardiaco, ma lo avevano afferrato in tempo e tratto a riva. Mi confessò: «Adesso sto bene. Mi hanno anche ridato il permesso di fumare. Posso permettermi sessanta sigarette in sei mesi, invece che in un giorno, quelle che mi fumavo prima. Eccomi qui, pronto per la guerra elettorale. Non sarà una battaglia facile perché contro di noi è stata montata una vera congiura!».
Può sembrare strano, ma ben prima di Berlusconi era il Bossi a vedersi circondato da un complotto: «So di essere nel mirino di tutti i partiti. E ho già sentito i loro colpi. Hanno cominciato a darsi da fare allargando i cordoni della borsa per comprare gente nostra. Il tentativo era quello di sgretolarci, inventando una Lega numero due. Non ci sono riusciti. Così adesso dovranno provarci con un altro sistema che io ho scoperto».
Gli chiesi quale fosse. E l’Umberto me lo rivelò: «È la Falange armata. Ne ha sentito parlare? Secondo me, è la P2 moderna. È uno dei gironi infernali che stanno in agguato sotto lo Stato italiano. Hanno fatto girare la voce che mi accopperanno. Ma io sono tranquillo. Non giro scortato. Non possiedo auto blindate. E per fortuna ho una moglie d’aspetto fragile, però molto forte».
In realtà, al contrario di quel che credeva Bossi, non esisteva nessuna Falange armata. C’era invece l’ostilità di molti ras politici, a cominciare da quelli socialisti. Gli ufficiali di Bettino Craxi erano convinti che la Lega fosse un’armata Brancaleone di falliti. A Torino un cantante da quattro soldi: Gipo Farassino. In altre città l’avvocato fallito, l’attore fallito, il politico fallito. Il deputato socialista di Genova Mauro Sanguineti si avventurò nella profezia più balorda: «Chi vota Lega non vota un partito. Vota una scheda bianca con più forza. Per questo credo che il leghismo sarà un fenomeno passeggero!».
Bossi era già stato eletto al Senato il 15 giugno 1987. Insieme all’unico leghista entrato alla Camera. Allora la Lega lombarda risultava un partito da niente: 186.000 voti in Italia, lo 0,5 per cento. A Palazzo Madama, l’Umberto stava in un bugigattolo a mezzadria con il Partito sardo d’azione. Ma era convinto che presto non sarebbe più rimasto da solo.
Mi colpì la sua previsione sull’esito del nuovo voto: «Dopo il 5 aprile avremo in Parlamento 60 deputati e quasi 30 senatori. Se devo essere cauto, dirò un totale di 70-80 parlamentari». Bossi azzeccò la schedina. Il bottino della partita giocata il 5 aprile 1992 fu di 55 deputati e di 25 senatori, in totale 80 eletti. Strappati a chi?
L’Umberto mi aveva spiegato in anticipo anche questo, il giorno dell’intervista: «Porteremo via voti un po’ a tutti. A Craxi perché l’onda lunga socialista è finita ed è rimasta soltanto l’onda lunghissima dei debiti dello Stato. E poi li porteremo via a quel disastro che è l’ex Pci. Sarà meno facile erodere la Dc. La Balena bianca è strapotente e offre conservazione unita alla stabilità. Sarà un osso duro. Ma le nostre fanterie attaccheranno anche la Dc. E le ruberemo molti voti».
Bossi continuò a vincere pure dopo il 5 aprile. Nel bugigattolo al Senato mi aveva detto: «Noi siamo l’annuncio di morte della partitocrazia. E non faremo da puntello a questo regime. Visto che la sua intervista si sta concludendo, le regalo una notizia: il sistema non tiene più, dopo le elezioni i partiti si spaccheranno, vedremo un grande blocco disintegrarsi in migliaia di schegge».
Il capo della Lega fu un buon profeta. In quel momento Mani pulite era soltanto un’aspirazione vaga. E il dottor Antonio Di Pietro un illustre sconosciuto. Ma quando scoppiò, Tangentopoli rafforzò il leghismo. Tutti si resero conto che lo slogan musicale della campagna elettorale 1992 non era una fanfaronata. In stile Lega-reggae faceva così: «Mi sun lumbàrd e al lumbàrd ghe giran i ball. Ma ariva il Boss e ve spaca gli oss!».
E come spaccaossa verbale, l’Umberto si rivelò imbattibile. Vincev...

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