Assedio
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Assedio

Fuoco su Trump

Michael Wolff

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Assedio

Fuoco su Trump

Michael Wolff

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Nel gennaio 2017, subito dopo l'insediamento di Donald Trump, Michael Wolff si era infilato nella Casa Bianca "come una mosca sul muro" per raccontare dall'interno, in quello che sarebbe diventato il bestseller mondiale Fuoco e furia, i primi mesi della presidenza americana più controversa del nostro tempo. Questo nuovo libro riparte da dove finiva il precedente: con Trump chiuso nella sua bolla in una Casa Bianca sotto assedio, mentre i suoi collaboratori più stretti o sperano di andarsene o sono sul punto di essere cacciati, il suo partito fa quadrato e allo stesso tempo cerca un'alternativa, il procuratore speciale Mueller conduce un'indagine sui contatti tra il suo comitato elettorale e la Russia, altri inquirenti federali potrebbero mettere a nudo i segreti dell'intera famiglia Trump e il mondo assiste sgomento alle oscillazioni della maggiore potenza mondiale alle prese con soggetti ben poco raccomandabili come Kim Jong-un, Vladimir Putin e il principe saudita Mohammad bin Salman. Grazie ai contatti di Wolff con membri dello staff della Casa Bianca, con i vecchi amici che ogni notte parlano per ore con il presidente, con l'anima nera Steve Bannon, l'ex capo stratega cacciato dall'amministrazione ma tuttora impegnato, per proprio conto, a "salvare la rivoluzione trumpiana", Assedio svela i retroscena delle vicende più sconcertanti della nostra epoca, in un dramma shakespeariano sempre in bilico fra la tragedia e la farsa.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2019
ISBN
9788858697597
1

Il bersaglio

Il presidente fece la sua solita faccia nauseata, poi agitò le mani come per scacciare un insetto molesto.
«Non voglio saperlo» disse. «Perché me ne state parlando?»
Era la fine di febbraio 2018, poco dopo l’anniversario del primo anno in carica, e il suo legale, John Dowd, stava cercando di spiegargli che, con ogni probabilità, gli inquirenti avrebbero emesso un mandato per acquisire parte dei documenti amministrativi della Trump Organization.
La reazione del presidente non sembrava riguardare tanto le implicazioni di uno scavo così approfondito nei suoi affari quanto il fastidio di doverne discutere. Ne scaturì una breve sfuriata. A farlo imbestialire non era che ci fosse gente decisa a rovinarlo – anche se questo era innegabile –, ma che nessuno si facesse avanti per difenderlo. Il problema era il campo amico. Primi tra tutti i suoi legali.
Trump si aspettava dai suoi avvocati che fossero dei «risolutori». «Non portatemi problemi» amava ripetere, rifacendosi a un luogo comune del gergo manageriale, «portatemi soluzioni.» Giudicava i suoi avvocati in base alla loro destrezza in sotterfugi o giochi di prestigio e li considerava responsabili di un problema quando si dimostravano incapaci di risolverlo. I suoi problemi, insomma, diventavano colpa loro. «Fallo sparire» era un suo ordine frequente, spesso ribadito tre volte di seguito: «Fallo sparire, fallo sparire, fallo sparire».
Il consigliere legale della Casa Bianca, Don McGahn – il cui compito è rappresentare la Casa Bianca più che il presidente, distinzione che Trump non è mai riuscito ad afferrare fino in fondo –, aveva dato scarsa prova di sé nel far sparire i problemi e si era trasformato nel bersaglio costante delle ire e delle invettive presidenziali. Capitava troppo spesso che la sua interpretazione delle prerogative legittime del ramo esecutivo contrastasse con la volontà del suo capo.
Per contro, Dowd e i suoi colleghi, Ty Cobb e Jay Sekulow – il trio di avvocati incaricati di offrire una guida al presidente nei suoi gineprai legali –, erano diventati più che abili a scansarne i malumori, in genere accompagnati da minacciosi attacchi personali, a stento controllati. Tutti e tre avevano capito che per restare avvocati di Donald Trump bisognava dirgli ciò che voleva sentire.
Trump coltiva un mito dell’avvocato ideale quasi completamente avulso dal reale esercizio della professione. Cita spessissimo Roy Cohn, il legale newyorkese suo vecchio amico e coriaceo mentore, e Robert Kennedy, il fratello di JFK. «Mi ammorbava sempre con Roy Cohn e Bobby Kennedy» ha raccontato Steve Bannon, lo stratega politico e forse principale responsabile della vittoria di Trump. «“Roy Cohn e Bobby Kennedy” diceva. “Perché non ho un Roy Cohn o un Bobby Kennedy?”» A vantaggio suo e della sua leggenda, era stato proprio Cohn a costruire il mito che Trump si ostinava ad abbracciare: l’idea che con gli agganci giusti e mostrando i muscoli è sempre possibile aggirare il sistema legale. Bobby Kennedy era stato ministro della Giustizia nell’amministrazione del fratello e suo braccio armato: aveva protetto JFK e trattato con i poteri occulti a beneficio della famiglia.
Per Trump è un tema ricorrente: sconfiggere il sistema. «Io sono un tipo che la fa sempre franca» ama vantarsi con gli amici di New York.
Al tempo stesso non gli interessa conoscere i dettagli. Ai suoi avvocati chiede solo la rassicurazione di successo. «Stiamo stravincendo, giusto? Questo voglio sapere. Questo voglio sapere. Perché se non stiamo stravincendo, allora è colpa vostra» sbraitò un pomeriggio contro i membri del suo staff legale.
Fin dall’inizio si era rivelata un’impresa trovare avvocati di alto profilo disposti a ricoprire quella che in passato era una delle cariche più ambite: rappresentare il presidente degli Stati Uniti. Un insigne avvocato di Washington specializzato in illeciti amministrativi aveva trasmesso a Trump un elenco di venti questioni che riteneva necessario affrontare subito qualora avesse ottenuto la nomina. Lui si era rifiutato di prenderne in considerazione anche una sola. Oltre una decina di eminenti studi legali avevano declinato l’incarico. Alla fine Trump si era dovuto accontentare di un gruppo raffazzonato di avvocati indipendenti e dunque privi dell’influenza e delle risorse di un grande studio. Ora, tredici mesi dopo l’insediamento, era alle prese con problemi legali personali gravi almeno quanto quelli di Richard Nixon e Bill Clinton, e li affrontava con una squadra che nella migliore delle ipotesi poteva essere considerata di serie B. Eppure pareva ignaro di quella vulnerabilità. Anzi, portando al massimo livello il suo rifiuto nei confronti delle minacce legali che incombevano su di lui, argomentò in tono spensierato: «Se mi facessi difendere da avvocati di grido, sembrerei colpevole».
A settantasette anni, Dowd aveva alle spalle una lunga e illustre carriera sia nel governo sia in diversi studi legali di Washington. Ma alle spalle, appunto. Al momento lavorava per conto suo, più che altro per rimandare il pensionamento. Sapeva per esperienza quanto è importante capire le esigenze del cliente, a maggior ragione se voleva conservare la sua posizione nel drappello degli avvocati di Trump. Così si era costretto a concordare con il giudizio del presidente riguardo l’inchiesta sui legami tra la sua campagna elettorale e gli interessi di Stato russi: non sarebbe mai arrivata a toccarlo. Muovendo da questa premessa, Dowd e gli altri membri della squadra legale avevano raccomandato a Trump di collaborare appieno con la commissione d’inchiesta di Mueller.
«Non sono io il bersaglio, giusto?» li incalzava continuamente.
Non era una domanda retorica. Trump esigeva una risposta, e una soltanto: «No, signor presidente, non è lei il bersaglio». All’inizio del suo mandato aveva preteso lo stesso genere di rassicurazioni dal direttore dell’FBI, James Comey. In una delle mosse più caratteristiche della sua presidenza, lo aveva licenziato, nel maggio 2017, anche perché non si riteneva soddisfatto delle sue risposte poco convincenti: agli occhi di Trump, era la prova che Comey stesse complottando contro di lui.
Se Trump fosse o no il bersaglio dell’inchiesta di Mueller – e per credere che non fosse al centro dell’indagine serviva un ribaltamento in stile Alice attraverso lo specchio – sembrava appartenere a un piano di realtà diverso rispetto al suo bisogno di essere rassicurato del contrario.
«Trump mi ha addestrato» disse Ty Cobb a Steve Bannon. «Anche quando le cose si mettono male, stanno andando alla grande.»
Trump restava convinto – e con una fede soprannaturale che nessuna evidenza poteva scalfire – che in un futuro molto prossimo il procuratore speciale lo avrebbe contattato di persona, inviandogli una lettera di completo proscioglimento, e con tanto di scuse.
«Allora? Quando cazzo arriva la mia lettera?» continuava a chiedere.
Il gran giurì selezionato dal procuratore speciale Mueller si riuniva ogni giovedì e venerdì presso la corte del distretto federale di Washington. I lavori si svolgevano al quinto piano di un anonimo edificio, al 333 di Constitution Avenue. La sala era un ambiente spoglio, più simile a un’aula scolastica che di tribunale, con gli inquirenti sullo scranno e i testimoni seduti a un tavolo davanti a loro. Il gran giurì contava più donne che uomini, più bianchi che neri, più anziani che giovani; tutti concentratissimi. Ascoltavano le udienze con «un’attenzione che faceva quasi paura, come se in realtà sapessero già tutto» disse uno dei testimoni.
Coloro che sono chiamati a deporre davanti a un gran giurì rientrano in tre categorie. Possono essere «persone informate dei fatti», cioè testimoni che secondo il procuratore dispongono di informazioni sul caso in esame; «soggetti di indagine», cioè sospettati di un coinvolgimento diretto con i reati al centro dell’inchiesta; oppure «bersagli», la categoria più inquietante, ovvero quelli che il gran giurì punta a rinviare a giudizio. Spesso le persone informate dei fatti diventano soggetti di indagine, e questi ultimi diventano bersagli.
All’inizio del 2018, grazie a l’elevato riserbo mantenuto dalla commissione d’inchiesta di Robert Mueller e dal gran giurì, nessuno alla Casa Bianca sapeva con certezza chi fosse cosa. O chi stesse dicendo cosa a chi. Il procuratore speciale poteva aver citato chiunque: tutti coloro che lavoravano per il presi-
dente, compresi i suoi più stretti collaboratori. Il codice del silenzio imposto dall’inchiesta aveva avvolto anche la West Wing. Nessuno sapeva, o era disposto a rivelare, chi stesse vuotando il sacco.
Quasi tutti i membri di vertice dello staff della Casa Bianca – la schiera di consiglieri che tratta direttamente con il presidente – avevano assunto un avvocato. Per la verità gli intricati trascorsi legali di Trump e la sua evidente noncuranza nei confronti della legge avevano angosciato i suoi collaboratori fin dai primi giorni dell’amministrazione. Quelli a lui più vicini avevano cominciato a cercarsi un patrocinio legale prima ancora di aver imparato a orientarsi nel labirinto di uffici e corridoi della West Wing.
Nel febbraio 2017, a poche settimane dall’insediamento e non molto dopo che l’FBI aveva sollevato i primi dubbi sul consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn, il capo di gabinetto Reince Priebus era entrato nell’ufficio di Steve Bannon e gli aveva detto: «Sto per farti un gran favore. Dammi la tua carta di credito. Non chiedermi perché, dammela e basta. Mi sarai grato per il resto della tua vita».
Bannon aveva preso dal portafogli la sua American Express e gliel’aveva consegnata. Al suo ritorno, poco dopo, Priebus gliel’aveva restituita annunciando: «Adesso hai un’assicurazione di tutela legale».
Nel corso dell’anno seguente, Bannon – persona informata dei fatti – avrebbe trascorso centinaia di ore con i suoi avvocati, per preparare la deposizione da rendere davanti al procuratore speciale e al Congresso. E i suoi avvocati, a loro volta, avrebbero passato un numero crescente di ore a parlare con la squadra di Mueller e con le commissioni d’inchiesta del Congresso. Alla fine di quei dodici mesi Bannon totalizzò 2 milioni di dollari in spese legali.
La prima raccomandazione di ogni avvocato al suo cliente era secca e inequivocabile: non parlare con nessuno o rischi di dover testimoniare in aula su ciò che hai detto. Nel giro di poco i membri di vertice dello staff di Trump avevano un obiettivo primario: sapere il meno possibile. Era un mondo alla rovescia: se «essere nella stanza» era stata da sempre la posizione più ambita, adesso nessuno voleva prendere parte alle riunioni. Se avevi cervello, evitavi di assistere alle conversazioni. E ti assicuravi che altri non potessero testimoniare che vi avevi assistito. Ovviamente, non ti fidavi di nessuno. Era impossibile sapere quale fosse la posizione di un collega nell’ambito dell’inchiesta, e dunque prevedere se si sarebbe trovato nelle condizioni di dover testimoniare sul conto di un altro – su di te, per esempio –, offrendo la sua collaborazione al procuratore speciale e usandoti come moneta di scambio per salvare se stesso. Tutti potevano vendere chiunque.
Presto quasi tutti quelli che ci lavoravano – e questo diventò un motivo in più per non lavorarci – dovettero ammettere l’evidenza: la Casa Bianca era al centro di un’indagine penale che rischiava di implicare chiunque ci si fosse mai anche solo avvicinato.
L’autentica depositaria dei segreti della campagna elettorale, della transizione e del primo anno di amministrazione era Hope Hicks. La direttrice della comunicazione della Casa Bianca era stata testimone di quasi tutto. Aveva visto ciò che aveva visto il presidente e, grazie agli incontrollati e incessanti monologhi di Trump, sapeva anche tutto ciò che sapeva lui.
Il 27 febbraio 2018, durante la sua deposizione davanti alla Commissione intelligence della Camera – era già stata ascoltata dal procuratore speciale –, le fu chiesto se avesse mai mentito per il presidente. Forse un esperto di comunicazione più smaliziato sarebbe riuscito a eludere la domanda, ma Hope Hicks, che praticamente aveva mosso i primi passi nel settore come portavoce di Donald Trump, incarico che consisteva perlopiù nel gestire la sua indifferenza nei confronti della verità empirica, si ritrovò in un improvviso e imprevisto baratro morale quando cercò di sminuire pubblicamente l’importanza delle menzogne del suo capo. Ammise di aver detto qualche «bugia innocente», lasciando intendere che si trattava di menzogne meno gravi di altre. L’ammissione la costrinse a richiedere un’interruzione di quasi venti minuti per consultarsi con i suoi legali, angosciati da ciò che la Hicks avrebbe potuto continuare a dire e dalle conseguenze della decostruzione delle costanti inversioni di rotta del presidente.
Non molto dopo quella deposizione, un altro testimone davanti al gran giurì di Mueller si sentì chiedere fino a che punto la direttrice della comunicazione della Casa Bianca sarebbe potuta arrivare a mentire per il presidente. La risposta fu: «Credo che in quanto “yes man” di Trump Hope Hicks sia disposta a qualsiasi cosa, ma non si prenderebbe una pallottola per lui». La dichiarazione poteva essere interpretata o come un ambiguo complimento o come un giudizio, non troppo lusinghiero, sulla lealtà dei collaboratori di Trump.
Si potrebbe sostenere che quasi nessuno nell’amministrazione avesse le competenze solitamente associate alla carica ricoperta. Ma, salvo forse il presidente stesso, l’esempio più lampante dell’infimo livello di preparazione ed esperienza della nuova Casa Bianca era proprio Hope Hicks. La direttrice della comunicazione di Trump non aveva un curriculum credibile né nel campo dei media né in quello politico, e tantomeno un carattere temprato da anni di incarichi di responsabilità e di abitudine a lavorare sotto pressione. Fasciata dalle immancabili minigonne che piacciono tanto a Trump, sembrava vivere in uno stato di smarrimento permanente. Il presidente la apprezzava non perché avesse competenze politiche utili a proteggerlo, ma per la sua docile sottomissione. Il suo lavoro consisteva nell’accudirlo e confortarlo.
Consapevole del costante bisogno di rassicurazione da parte di Trump e della sua quasi totale incapacità di parlare d’altro che di se stesso, Hope Hicks rivolgeva un consiglio standard agli interlocutori del presidente: «Quando gli parli, comincia con un parere positivo». La sua sollecitudine e la sua indole accondiscendente l’avevano portata, a soli ventinove anni, all’incarico di vertice nel team di comunicazione della Casa Bianca. E, dal punto di vista pratico, Hope Hicks si comportava come il capo di gabinetto de facto. Il presidente non voleva un’amministrazione di professionisti. Voleva essere circondato da gente disposta ad assecondarlo.
La Hicks – «Hope-y», per Trump – era al tempo stesso la guardiana del presidente e la sua coperta di Linus. Spesso diventava oggetto delle sue curiosità pruriginose: persino alla Casa Bianca Trump preferiva che i rapporti professionali fossero personali. «Chi si scopa Hope?» voleva sapere. L’argomento interessava anche suo figlio, Don Jr., che non di rado aveva manifestato l’intenzione di «farsi Hope». La figlia del presidente, Ivanka, e suo marito, Jared Kushner, entrambi consiglieri di vertice della Casa Bianca, erano più discreti, al riguardo; a volte le avevano addirittura suggerito uomini papabili.
Ma, dimostrando forse di aver compreso l’intrinseca insularità della galassia Trump, Hope Hicks aveva concentrato le sue frequentazioni esclusivamente all’interno della bolla, scegliendo i peggiori ragazzacci della cerchia: il direttore della campagna elettorale, Corey Lewandowski, prima delle elezioni, e il segretario dello staff e assistente del presidente, Rob Porter, dopo l’insediamento. Nell’autunno del 2017 essere al corrente della relazione tra la Hicks e Porter diventò il segno di riconoscimento dei veri insider, tutti peraltro ben attenti a non rivelarne gli sviluppi all’ultra-possessivo Trump. Oppure no: sapendo che la storia tra i due non avrebbe fatto per nulla piacere al presidente, alcuni furono tutt’altro che discreti.
Nel clima di intense ostilità che regnava sovrano nella Casa Bianca, Rob Porter era quasi riuscito a conquistarsi il titolo di persona più odiata in assoluto, tranne forse il presidente stesso. Con la mascella squadrata e l’aspetto molto anni Cinquanta, sarebbe stato perfetto per la pubblicità di una brillantina per capelli; in più, il suo personaggio era ammantato da un alone quasi comico di doppiezza e perfidia: se ancora non ti aveva pugnalato alle spalle, era solo perché ti considerava indegno persino del suo tradimento. Leccapiedi da sitcom – «un Eddie Haskell», lo aveva bollato Bannon, riferendosi all’icona della falsità e del servilismo del Carissimo Billy, serie di successo degli albori della televisione –, all’apparenza Porter si era schierato con il capo di gabinetto, John Kelly, mentre dietro le quinte seminava zizzania tra lui e il presidente. A sentirlo parlare delle alte responsabilità che gli erano state assegnate alla Casa Bianca, oltre ai vari incarichi di vertice che, sempre a detta sua, Trump aveva in serbo per lui, era come se l’intera amministrazione e la nazione stessa poggiassero esclusivamente sulle sue spalle.
A quarant’anni, Porter aveva già al suo attivo due ex mogli inviperite, almeno una delle quali aveva subito i suoi abusi fisici ed entrambe gli spudorati tradimenti. Durante un periodo come assistente di un senatore, pur essendo sposato Porter aveva allacciato una relazione con una stagista, cosa che gli era costata il posto. La fidanzata, Samantha Dravis, era andata a vivere con lui nell’estate del 2017 mentre, a sua insaputa, Porter frequentava Hope Hicks. «Ti ho tradita perché non sei abbastanza bella» disse in seguito alla Dravis.
Con una violazione di protocollo passibile di una condanna penale, Porter aveva avuto accesso ai documenti originali dell’FBI relativi alla sua security clearance – il nullaosta di sicurezza – e letto le dichiarazioni delle sue ex mogli. La seconda aveva persino pubblicato un blog sui presunti maltrattamenti dei quali, pur non citando mai Porter per nome, lo accusava in mani...

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