Pizzica amara (Nero Rizzoli)
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Pizzica amara (Nero Rizzoli)

Gabriella Genisi

  1. 368 pages
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Pizzica amara (Nero Rizzoli)

Gabriella Genisi

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NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Nel cimitero di un paesino vicino a Lecce, terra incantata battuta dal vento e incendiata dal sole, viene profanata la tomba di Tommaso Conte, un ragazzo morto qualche anno prima per un sospetto incidente. Poco tempo dopo, lì vicino, vengono trovati due cadaveri: una ragazza di origini balcaniche dall'identità sconosciuta e la liceale Federica Greco, figlia di un senatore. Annegata sulla spiaggia la prima e impiccata a un albero la seconda.
A indagare c'è il maresciallo Chicca Lopez, giovanissima salentina e carabiniera ribelle. Appassionata di moto e fidanzata con Flavia, una compagna piuttosto esigente che, come i più genuini mariti pugliesi, la aspetta a casa pretendendo la cena, Chicca ogni giorno lotta per farsi spazio in un ambiente di soli uomini come quello della caserma. Determinata, cocciuta, sfrontata, è alla ricerca della verità costi quel che costi, anche la vita.
Cosa lega quei cadaveri e la serie di inspiegabili sparizioni degli adolescenti della zona? E chi è quella donna che si dice possegga gli antichi poteri delle macare, le streghe del Salento?
Combattendo l'omertà di una comunità che non vuole incrinare l'immagine di terra da sogno, Chicca Lopez si troverà invischiata in una vicenda dai contorni sempre più inquietanti, tra rituali sanguinosi, magia e loschi traffici.
Gabriella Genisi, in un giallo sconvolgente e quanto mai attuale, ci racconta il Salento oscuro delle superstizioni e delle notti della taranta; a farci da guida una carabiniera indimenticabile, che rompe e ribalta tutti i canoni della scena noir.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2019
ISBN
9788858696477

Le notti come nere agnelle

Il telefono di Maria squillò a vuoto molte volte, poi si spense. Il maresciallo Lopez non era tipa da arrendersi davanti a un cellulare spento, quindi infilò il casco, diede gas al motore e partì in direzione del quartiere Santa Rosa.
Le strade erano deserte e le famiglie leccesi tutte riunite davanti alle tavole apparecchiate a festa. Dai balconi lasciati aperti arrivava il chiasso dei bambini e il vociare allegro dei convitati. A volte ci scappavano le bestemmie e gli stramorti, al culmine di un’accesa discussione. Il vino, si sa, accende gli animi.
Il balcone di Maria era chiuso, la serranda della cucina abbassata. Chicca provò a citofonare, inutilmente. Poi tentò con la signora del pianterreno, sempre quella. La donna si affacciò alle scale, il busto dentro, la faccia fuori dalla porta.
«Chi è?»
«Aprite. Un controllo.»
«Ah, siete di nuovo voi? Volete favorire? Ma che, pure a Pasqua lavorate? È successo un fatto grave?»
«No signora, stia tranquilla. La solita routine. Buona Pasqua.»
«Statevi bene, marescià.»
Bussò più volte, ma Maria non aprì. Dall’interno non filtrava nessun rumore a parte il miagolio di Devil. Chicca aprì la borsa, tirò fuori un coltellino svizzero e fece scattare la serratura. Spinse la porta ma incontrò resistenza. Dall’altra parte Maria spingeva per non farla entrare.
«Che cazzo vuoi ancora?» urlò, l’alito che puzzava di vino. «Ti ho già detto tutto.»
«Apri, sai che non è così. E sai anche che ci saremmo riviste.»
«Ho cambiato idea.»
«Te l’hanno fatta cambiare. Dimmi chi è stato.»
«Vattene, marescià, tu sei una rovina. Maledetto il giorno che ti ho incontrato.»
«Fammi entrare, Marì. O chiamo la pattuglia.»
«Chiamala dài, almeno la finiamo.»
Al maresciallo salì il sangue al cervello, e piccolina com’era inserì il piede tra le ante e spinse a corpo morto finché Maria cedette e la fece passare, lasciandosi cadere poi sul pavimento.
Il corridoio era semibuio, Chicca cercò l’interruttore e accese la luce. Soffocò un grido di sgomento, il volto di Maria era una maschera pesta di lividi. Il labbro superiore era spaccato e incrostato di sangue rappreso. Alla camicia di raso verde con i volant erano saltati un paio di bottoni e si intravedeva un reggiseno di pizzo viola scuro.
«Dio mio, che hai fatto? Chi è stato?»
La donna strinse i pugni, ricacciando le lacrime. «Chi vuoi che sia stato?»
«Salvatore? E perché?»
«Non lo so. Sembrava normale quando è venuto a prendermi, siamo andati alla masseria come al solito. Alle 3 di notte mi ha riportato a casa, ma prima mi ha crepato di botte per mezz’ora.»
«Ma perché, si riesce a capire?»
«Non lo so. Temo ti abbia vista andare via ieri sera, o è solo un caso.»
«È successo altre volte? Ti ha picchiata?»
Maria annuì. Tirò su col naso e leccò con la lingua le lacrime mischiate al muco che colavano sul viso. Chicca la guardò ipnotizzata dalla sensualità che quella donna sprigionava nonostante la situazione.
«Succede spesso, senza un vero motivo. Per spaventarmi e dimostrare chi è il più forte. E che non me ne posso andare.»
Chicca s’inginocchiò sul pavimento, l’abbracciò, le accarezzò i capelli, poi l’aiutò a sollevarsi e l’accompagnò in un piccolo bagno pieno di trucchi, profumi e biancheria sporca.
«Datti una sistemata e disinfetta la ferita al labbro. Se non ti dispiace vado in cucina a farmi un caffè e a vedere se c’è del ghiaccio.»
«Trovi tutto nello stipetto di fianco alla cucina. Ghiaccio niente però.»
«Grazie. Ah, e Martina?»
«Dorme.»
«Dorme? Ma che, l’hai drogata ancora?» chiese Chicca alzando il tono della voce.
«Che cazzo dici, maresciallo? Quale droga! Sono solo rimedi naturali, papaverina, erbe… Cose innocue che un tempo mettevano perfino nel biberon dei neonati.»
«Appunto, droghe» rispose il maresciallo. «Droghe naturali. E tu lo sai bene, Marì.»
«Uhhh marescià…» fece la macara di rimando. «Vai a fare ’sto caffè e metti fuori due tazzine.»
Chicca era stata allevata nell’odore del disinfettante e della candeggina che le suore gettavano a secchiate nei refettori e nelle camerate. Era abituata a un tipo di pulizia quasi punitiva, tesa a purificare l’anima, non solo il corpo, ed ecco perché entrare a casa di Maria, e immergersi nel disordine e nella sporcizia, la metteva a disagio. Alzò la tapparella, aprì le finestre, e vincendo lo schifo che saliva alla gola strofinò con energia la caffettiera incrostata e preparò il caffè.
Il gorgoglìo e l’aroma inconfondibile che riempirono la stanza ristabilirono un equilibrio.
La macara tornò dopo dieci minuti, avvolta in un asciugamano rosa, i capelli umidi che scendevano a boccoli sulle spalle, le labbra tumide e ferite nel volto livido e senza trucco, gli occhi tristi. “È bella anche così” pensò Chicca bevendo il suo caffè. “Di una bellezza sfrontata e dolorosa, di quelle che se ce l’hai tatuata addosso non hai scampo.”
«Chi sei tu Maria, da dove arrivi?» chiese Chicca con dolcezza sfiorandole una mano. Non sarebbe andata via da quella casa senza avere la verità tra le mani, ma voleva rassicurare la donna, proteggerla e riparare la violenza che le era stata usata poche ore prima.
«Da dove arriva la mia sventura, vuoi dire» sospirò lei, guardando il tramonto che filtrava attraverso i casermoni popolari del quartiere Santa Rosa e girando lo zucchero nella tazzina. «Da quella sventurata di mia madre, Rosalia la tarantata. La vedi quella foto e le altre che stanno appese nel corridoio?»
«Sì, mi hanno incuriosito moltissimo.»
«Le scattarono dei professori venuti da Roma a studiare le tarantate, anni prima che io nascessi. Perché mia madre è stata tarantata quasi tutta la vita, ma un tempo era una tabacchina. Il primo morso arrivò che non aveva ancora diciotto anni. Erano i giorni della raccolta del tabacco. Tu lo sai chi erano le tabacchine?»
Il maresciallo Lopez abbassò il capo, infastidita di essere impreparata sull’argomento. «Qualcosa credo di sapere. Racconta.»
Maria posò i gomiti sul tavolo e raccontò la storia delle tabacchine che furono le prime donne operaie di questa parte del Salento. Lavoravano le foglie di tabacco dentro enormi capannoni di lamiera surriscaldata, con turni massacranti sorvegliati da una mescia, una specie di kapò che puniva severamente. Ma quello rappresentava per molte di loro il primo vero lavoro e ne erano orgogliose. Era una forma di riscatto sociale rispetto alla fatica brutale e incerta della campagna o a quella domestica. Era un lavoro durissimo, monotono, fatto di gesti ripetuti, sempre uguali. Per alleviare il peso della fatica e non rischiare di addormentarsi le donne cominciarono a cantare. I canti che si erano portate dietro dalle campagne, dalle loro case. Quella cultura orale vecchia di secoli, tramandata dalle madri e dalle nonne, l’unica vera eredità mai ricevuta. E il fatto di cantare insieme condividendo la stessa fatica le faceva sentire sorelle, come mai era successo prima. Perché quello era un mondo al femminile, senza l’interferenza del potere dei maschi, mariti o padri che fossero, in cui per la prima volta si sentivano libere di esprimersi. Alle tabacchine sembrò di essere arrivate nel futuro, e in breve tempo svilupparono una coscienza politica e di classe, feroce e coraggiosa. In poco più di mezzo secolo di lotte per l’emancipazione delle lavoratrici, che coincidono con il tempo in cui durò l’industria del tabacco in Salento, fra i tanti drammatici episodi che scandirono l’epica delle tabacchine, se ne ricordano due. «Neanche questo sai, marescià?» insinuò Maria, divertita.
«Nòne» fece Chicca, pentita di essersi data la zappa sui piedi. «Vai avanti, mena.»
«Come vuoi, io conosco i fatti a memoria. Mia madre raccontava le stesse cose quasi ogni giorno, forse perché non dimenticassi. O perché era pazza, ce sacciu.»
«La strage di Tricase avvenuta nel 1935» continuò la donna «fu il culmine di una serie di scioperi e rivolte in pieno regime fascista scoppiate anni prima a Novoli, Trepuzzi, Poggiardo e Marittima. Le tabacchine si ribellarono al progetto di chiudere l’opificio di Tricase e i militari spararono sulla folla di donne, uccidendone cinque e ferendone decine. Dopo quel massacro, per timore e per rispetto delle compagne morte, le tabacchine smisero di cantare, ma non di lottare. Quasi trent’anni dopo arrivò la rivolta di Tiggiano del 1961, dove un intero paese per ventisette giorni fu tenuto in scacco dalla protesta delle tabacchine tiggianesi che erano state escluse dal lavoro in favore di operaie forestiere. Il palazzo baronale fu assaltato e la baronessa di Caprarica, concessionaria dei monopoli di Stato per la produzione di tabacco, costretta a fuggire scortata dai carabinieri. Dopo giorni di scontri violenti con le forze dell’ordine, se si riuscì a evitare una nuova strage fu unicamente perché, a sfidare i fucili dei soldati, si schierarono davanti alle barricate le mamme del luogo con i loro bambini. Dopo quasi un mese di sciopero e assedio, le donne vinsero la loro battaglia e furono assunte.»
«Dimmi di tua madre, e di come diventò tarantata.»
«Mammà andò sposa a sedici anni con un uomo del paese che, dopo appena due anni e senza neppure averla ingravidata, partì per andare a lavorare in Belgio. L’aveva lasciata a rotolarsi nella malinconia e nei sensi di colpa, con quei pochi soldi che le spediva a casa e che non bastavano nemmeno a sfamarla. Seguendo i consigli di sua zia, cominciò a lavorare nella raccolta del tabacco che iniziava alla fine di giugno, nel periodo della festa di San Paolo. Una volta raccolte, le foglie di tabacco venivano infilzate e cucite insieme su lunghi aghi, le cuceddhe, e poi stese a essiccare sui telai. Le giornate scorrevano fra la fatica del lavoro, le insidie del padrone che ne voleva fare la sua amante e l’attesa del marito e del calore delle sue carezze. Un giorno, mentre seduta per terra infilzava le foglie, lanciò un urlo acutissimo e cadde svenuta. Le compagne che la soccorsero si guardarono in faccia e capirono tutto. L’aveva pizzicata la tarantola. Così cominciò il suo calvario, o la sua salvezza. Chi lo sa.»
Chicca comprese dal racconto di Maria il senso di quelle parole. Fu salvata dalla sofferenza segreta e indicibile perché la sua “malattia” adesso aveva un nome, una causa e una cura. Ma al tempo stesso fu condannata alla solitudine e alla vergogna perché prima di ogni altra cosa era diventata una tarantata, una cosa sola con la sua malattia. Era rispettata ma temuta, quasi potesse essere contagiosa. La vergogna alla quale quelle donne erano condannate era l’altra faccia del loro tormento. Quando questo si placava per effetto della terapia, e si assopiva per settimane o anche mesi, l’altra esplodeva: perché il rito potesse funzionare doveva essere pubblico, era necessario che la comunità partecipasse mescolandosi a quella realtà magica. Il corpo nelle sue più grottesche mimiche e contorsioni animalesche, violente, lascive, doveva essere esposto allo sguardo di parenti, amici, vicini, curiosi, e di tutti quelli che riuscivano a entrare negli spazi angusti della casa dove si celebrava il rito. Gli altri si ammassavano fuori dalla porta, accontentandosi di seguire solo i suoni di quella rappresentazione, i lamenti e le urla della donna, quel grido acuto che sembrava un guaito disperato, le musiche del tamburo, del violino, prima incerte nella fase di “esplorazione”, quando i musicisti dovevano riconoscere la melodia giusta per risvegliare la tarantata dal suo sonno, poi sempre più incalzanti e ossessive, quando lei cominciava a reagire, a muoversi, a scazzicare. Si facevano previsioni circa il successo o il fallimento della cura e, poiché questa poteva durare anche giorni, con delle piccole interruzioni ...

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Genisi, Gabriella. (2019) 2019. Pizzica Amara (Nero Rizzoli). [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3303771/pizzica-amara-nero-rizzoli-pdf.

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Genisi, G. (2019) Pizzica amara (Nero Rizzoli). [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3303771/pizzica-amara-nero-rizzoli-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Genisi, Gabriella. Pizzica Amara (Nero Rizzoli). [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2019. Web. 15 Oct. 2022.