Il popolo dâItalia non canta piĂš
Oh parvenu! Tu sei la rovina.
Marradi, settembre 1983. Il dĂŠpliant del Ristorante Albergo Lamone, dove alloggio da una settimana, dice: âAlbergo modernamente attrezzato. Cucina tradizionale e genuina. SpecialitĂ gastronomiche tosco-romagnole. Servizio accurato per matrimoni, banchetti, comitive ecc. Cacciagione, trote, funghi, pecorino marradese, torta di marroni. Vini tipici tosco-romagnoliâ. Le camere, distribuite su due piani, affacciano da un lato sullo scalo della stazione ferroviaria e dallâaltro su un viale dâippocastani intitolato a un tale Baccarini ma denominato, nellâuso, âviale della stazioneâ. In una di queste camere il poeta Dino Campana e la scrittrice Sibilla Aleramo trascorsero la notte di Natale dellâanno 1916: forse in questa stessa dove io ora mi trovo, forse in unâaltra. ChissĂ . Lâalbergo, rimaneggiato nei muri divisori ma intatto nella struttura, molto probabilmente è coetaneo della ferrovia Firenze-Faenza: che sâinaugurò nel 1893 con grandi feste popolari e con lâintervento di Sua Altezza il Duca di Genova in rappresentanza di Umberto I di Savoia, Re dâItalia âper grazia di Dio e per volontĂ della Nazioneâ.
Di Marradi le guide turistiche dicono poco: 328 metri sul livello del mare, cinquemila abitanti (ma allâinizio del secolo erano molti di piĂš, quasi il doppio), qualche santuario nei dintorni, qualche resto di torre medioevale⌠In pratica, un paese attraversato da una strada, senza particolari connotazioni culturali o linguistiche. Soltanto gli edifici di piazza Scalelle parlano ancora di unâepoca in cui Marradi fu la piccola capitale della âRomagna toscanaâ alla frontiera di due Stati: il Granducato e lo Stato della Chiesa. Il paesaggio, gradevole, non presenta scorci o caratteristiche di particolare rilievo. Il profilo dei monti è âdolceâ e insieme âseveroâ, come diceva Campana; il cielo è luminoso, la vegetazione è varia: ma ciò rientra nella generale bellezza del paesaggio appenninico e italiano. LâItalia è tutta un incanto.
Dalla finestra vedo i âmonti azzurriâ, le rocce âstrati su stratiâ, quasi profili di pagine del libro squinternato del mondo: e mi ricordo le parole di Dino, ciò che lui disse a Sibilla: âQuesto è un paese dove ho molto sofferto. Qualche traccia del mio sangue è rimasta tra le rocce, lassĂš.â Davvero, io non so che cosa sono venuto a cercare a Marradi. Qui non ci sono carte, documenti â tutto è andato distrutto durante lâultima guerra â e se anche trovassi qualche vecchio di centâanni in grado di ricordare e di parlare, cosa potrebbe dirmi di Dino Campana: che era lo scemo del paese? PerchĂŠ quella è lâunica veritĂ ; ma la veritĂ non si dice. Forse, penso, sono venuto fin qua soltanto per vedere i luoghi che lui amava, per cercare quel sangue tra le rocce; forse speravo di trovare la statua. Ma sĂŹ, la statua. Il monumento in scala uno a uno del Poeta Pazzo. In posa bacchica. Non dissimile, tranne che nellâaddobbo, dai monumenti al Milite Ignoto che si trovano un poâ dappertutto nei paesi e nelle piccole cittĂ , vicino alle stazioni ferroviarie oppure al centro di piazze dedicate appunto ai Caduti. Ai Partigiani. Agli Eroi. Ai Santi. Ai Poeti. Ai Navigatori. A Noi! (Come giustamente gridavano, trascinati dallâenfasi a disvelare invidiosi veri, i legionari di DâAnnunzio e gli squadristi del Duce.)
Il monumento a Campana non sâè ancor fatto. VerrĂ : ma, prima, bisogna dare tempo al tempo e retorica alla retorica. Da scemo del paese a eroe il passo è lungo. Per intanto gli sâè messa una lapide, gli sâè dedicata una strada, gli sâè fatto un premio letterario tutto per lui, col suo nome. Premio letterario Dino Campana. (Giudici Giorgio Saviane, Claudio Marabini, Aldo Rossi, Lorenzo Ricchi e altri illustri.) Può sembrar poco ma non è. Quando trentâanni fa un giornalista â Sergio Zavoli â venne a Marradi a cercar tracce di Campana la prima cosa che gli dissero a muso duro sulla piazza fu che ÂŤera un matto e bastaÂť. Ma Zavoli non abbandonò la ricerca. Nella sede civica intervistò il vicesindaco Leo Consolini e il cavalier Bucivini Capecchi, segretario a riposo del Comune, coetaneo di Dino. âZavoli: Cavalier Bucivini, qualcuno ha rimproverato il Comune di Marradi di non aver fatto molto per onorare la memoria di Dino Campana? Bucivini Capecchi: Difatti, in unâadunanza consigliare ci furono dei consiglieri che protestarono. Protestarono allâidea di onorare questo Dino Campana, perchĂŠ qualcuno di loro diceva che era un precursore del fascismo⌠Zavoli: Addirittura! Bucivini Capecchi: ⌠mentre noi coetanei possiamo dimostrare che lui assolutamente era estraneo, non si interessava a queste faccende! Leo Consolini: Del resto, le prove che il Comune di Marradi si è impegnato per le onoranze a Dino Campana sono queste, guardi: per due anni consecutivi, cioè nel 1952 e nel 1953, sono state stanziate in bilancio 500.000 lire. Però la Giunta provinciale amministrativa ritenne opportuno depennarle in quanto il bilancio di Marradi era deficitario! Dâaltra parte, per dimostrarle la volontĂ del Comune di onorare degnamente il poeta, ci si è preoccupati di avere, diciamo cosĂŹ, il giudizio di grandi personalitĂ : di Ardengo Soffici, del senatore Emilio Sereni, dellâAccademia della Crusca, dellâAccademia dei Lincei, della Deputazione di Storia Patria. Qui, in questo incartamento, ho le prove.â
Le risposte delle Accademie e delle grandi personalitĂ sono imbarazzate, compunte, favorevoli in via di principio ad ogni sorta di celebrazioni. Smentiscono che Campana fosse âun precursore del fascismoâ e assicurano che non ci sono pregiudiziali nei suoi confronti. âCaro compagnoâ scrive il senatore Emilio Sereni al sindaco comunista di Marradi che lâha interpellato in merito allâintitolazione di una strada, âpenso che sia giusto intitolare a Dino Campana una strada del vostro capoluogo.
Dino Campana è indubbiamente un nome autorevole della poesia moderna e ormai passato nella storia della letteratura.
Non câè nessun riserbo politico nei suoi confronti. Tanto piĂš che la sua pazzia toglieva ogni responsabilitĂ ad ogni sua posizione politica, nĂŠ, dâaltronde, ne ebbe mai dichiaratamente reazionarie.
Sarebbe bene fare inaugurare la via ad uno scrittore toscano. Vedete di scrivere a Romano Bilenchi a Firenze, se volesse lui parlare per lâoccasione. F/to: Sereni.â
Riordino gli scheletri nellâarmadio. âFannyâ Luti e Giovanni Campana: che volevano âsistemareâ il figlio (âper il suo beneâ dicevano) e si quetarono soltanto quando lo seppero rinchiuso in manicomio, per sempre. Lo zio Torquato, il tutore: che da âvalente umanistaâ qual era gli compose lâepigrafe e gliela fece scrivere sotto dettatura. Papini e Soffici, gli intellettuali alla moda: che gli insegnarono lâumiltĂ e le regole del gioco letterario. Gli âsciacalli urlantiâ di Marradi e gli âsciacalli del cupoloneâ cioè i letterati fiorentini che lo considerarono una macchietta, un elemento del folklore locale. La dannunziana Rina Faccio, Amorale anagrammata (Aleramo) in arte: che nellâestate del 1917, quando tutti i maschi italiani erano al fronte, faceva il conto dei mesi trascorsi âin stato di santitĂ â e ne incolpava Campana. Il critico Bino Binazzi, seriamente convinto che per essere famoso come poeta Dino dovesse anzitutto essere famoso come pazzo. Gli elettricisti-psichiatri che lo trasformarono nellâuomo elettrico âDino Edisonâ. Lâaltro psichiatra, il Pariani: che per scrivere un suo mediocrissimo libro sul rapporto genio-follia lo tormentò con estenuanti (e vani) interrogatori dal 1926 al 1930. Il critico Enrico Falqui, che amorevolmente ne imbalsamò la memoria e cristianamente ne censurò e ne corresse le lettere. (Per esempio: âOsteria della Musaâ anzichĂŠ âOsteria della Mussaâ.) Attilio Vallecchi, lâeditore che ripulĂŹ i Canti Orfici dâalcune scritte indecenti. E poi ancora gli affossatori senza nome, i mentitori senza scopo, i denigratori disinteressati⌠BasterĂ dire, con Dino, che âtutti sono coperti del sangue del fanciulloâ, âtracciati per riconoscerli nel giorno della giustiziaâ?
Torno a affacciarmi alla finestra. âIl pulviscolo dâoro che avvolgeva la cittĂ parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi sanguigni del tramonto credei mi portassero il suo saluto.â Sono quattordici anni che ricerco la veritĂ della vita di Dino Campana, che la ricompongo frammento dopo frammento, che tolgo ad ogni frammento le incrostazioni di menzogna dâuna leggenda a cui il trascorrere del tempo aveva giĂ conferito la patina dellâautentico⌠Ora la ricerca è finita e la vita di Dino è lĂŹ, tutta, in una valigia piena zeppa dâappunti e di fotocopie e appoggiata al termosifone di questa camera dâalbergo, forse la stessa camera del suo ultimo Natale a Marradi⌠Tutta la vita di un uomo che fu considerato dai contemporanei un prodotto anomalo della natura, uno che ânon aveva compreso nulla di quel che è il vivere comuneâ: ed era solo un poeta. (Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, âprimitivaâ, âbarbaraâ, da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dellâaraba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri.)
Campana Dino, Carlo, Giuseppe nasce alle 14,30 del 20 agosto 1885 a Marradi in provincia di Firenze da Giovanni maestro elementare e da Francesca Luti casalinga. Il suo segno zodiacale è il Leone con ascendente in Sagittario. Lâoroscopo che lo riguarda parla di coscienza del proprio valore, di fortissima aspirazione a eccellere, di volontĂ di dominio che si esprime in forme non violente, di scarsa o quanto meno limitata considerazione degli altri, di passioni intense ma effimere.
Padre e madre sono benestanti. Lui, Giovanni Campana, ha trentotto anni ed è nato a Marradi. Lei, Francesca detta âFannyâ, ha una quindicina dâanni meno del marito; viene da Comeana presso Firenze ed ha trascorso lâinfanzia e lâadolescenza in un collegio di suore. Come tante coetanee arrivate al matrimonio ed alla maternitĂ da unâesperienza di vita quasi monastica, âFannyâ stenta ad adattarsi alla sua nuova condizione ed anche appare insoddisfatta del marito che â per qualche ragione a noi ignota â non la soddisfa o non le piace. Ă unâEmma Bovary senza il coraggio dellâadulterio e forse senza lâopportunitĂ , che piano piano si ritira dentro un suo guscio di memorie di collegio, di funzioni religiose, di castitĂ difesa e giustificata con emicranie, malesseri, quaresime, penitenze, voti⌠à una donna che non ama lâambiente in cui vive nĂŠ le persone con cui vive ma che pensa di non potersene sottrarre e chiede di essere lasciata in pace: si occuperĂ della biancheria, della spesa, manterrĂ unita la famiglia sacrificandosi, in silenzio. StarĂ al suo posto: soltanto, non arriverĂ a fingere per il marito e per il figlio quei sentimenti che non provaâŚ
La crisi coniugale di âFannyâ Luti Campana matura durante la seconda gravidanza e si manifesta, dopo la nascita del secondogenito Manlio, con lâabbandono di Dino: che sostituisce e simboleggia lâabbandono del marito. A questi, âFannyâ si limita a negarsi: non vuole altre gravidanze e non ritiene leciti i rapporti coniugali se non per fini di procreazione, âper dare figli a Dioâ, come le hanno insegnato in collegio. (Forse, anzi probabilmente, non prova piacere nel sesso: ma chissĂ .) Ă per lâappunto in questi anni, piĂš o meno tra il 1890 e il 1895, che il maestro Giovanni Campana comincia ad accusare âdisturbi nevrasteniciâ di natura inequivocabile (irritabilitĂ , insonnia, sbalzi dâumore) ed a curarsi da sĂŠ, con le tisane e gli infusi del farmacista di Marradi. FinchĂŠ, eccessivo come sempre, una domenica prende il treno e va a consegnarsi al manicomio di Imola, nelle mani di quello stesso dottor Brugia a cui, una decina dâanni dopo, spedirĂ Dino: âGuardi di guarire mio figlio comâElla guarĂŹ meâŚâ.
Strenuo difensore del âprimato morale e civile degli italianiâ, Giovanni Campana è per molti versi un tipico rappresentante della sua generazione, formatasi nel clima delle retoriche e degli entusiasmi risorgimentali. Ă agnostico ma non ateo, come De Amicis; repubblicano ma devoto alla monarchia, come Crispi; materialista ma convinto assertore della genialitĂ , come Lombroso⌠A scuola, gli piace insegnare che lâuomo è lâintreccio di due macchine, una macchina a vapore che è il sistema respiratorio e una macchina idraulica che è il sistema circolatorio. ÂŤE lâanima, signor maestro?Âť ÂŤQuella è una terza, il sistema nervoso, macchina elettricaÂť. Dâindole mite e un poâ schiva, il maestro Campana ha tuttavia una sua caratteristica cui giĂ sâè accennato e che sarĂ determinante nella vita del figlio: dâessere, a fronte dei problemi, ultimativo e eccessivo; di non accontentarsi dâuna soluzione qualsiasi, come la maggior parte degli umani, ma dâinseguire tra tutte le soluzioni possibili quella definitiva e âfinaleâ⌠Altre persone di famiglia di cui si conserva il ricordo sono il nonno paterno e i due fratelli della madre (Lorenzo Luti, Egle Luti): che però ebbero scarso rilievo nella vita di Dino. Non cosĂŹ i fratelli del padre, ognuno dei quali occupa nella mia valigia un suo preciso scomparto. Questi furono, partendo dal piĂš giovane: lo zio Torquato, lo zio Francesco, lo zio Pazzo.
Incominciamo dallâultimo. Lâesistenza di uno zio Pazzo, probabilmente piĂš anziano degli altri, probabilmente primogenito, è stato il grande segreto della famiglia Campana: un segreto cosĂŹ ben custodito che dello zio Pazzo si è arrivati a far scomparire il nome, la memoria, tutto. Invece lui ci fu e fu la rappresentazione tangibile di uno spettro â quello dellâereditarietĂ â che incombeva sulla vita e sulle fortune di tutti i Campana, non solamente di Dino. Io lâho scoperto per caso nellâinverno del 1982 allâArchivio di Stato di Firenze, rovistando in quei contenitori di documenti giudiziari che con terribile metafora gli archivisti chiamano âfilze di dementiâ. Ho avuto la fortuna di trovare lâincartamento relativo ad una pratica dâammissione al manicomio di San Salvi (del 9 aprile 1909) di âCampana Dino di Giovanni di anni 23, celibe, nato e dom:to a Marradi, benestanteâ, e, dimenticata nellâincartamento, la cosiddetta âmodula informativaâ redatta dallâufficiale sanitario del Comune di origine. Che alla domanda circa le âcause fisiche e moraliâ della pazzia di Campana risponde: âEreditarietĂ â Alcolismoâ; e a fianco dellâaltra domanda, âse fra i parenti del malato vi sono o vi furono alienati, e qualiâ scrive queste otto parole, in cui la vita di un uomo trova il suo estremo riassunto: âUno zio del malato è morto in Manicomioâ.
Le âfilze di dementiâ⌠Contenitore dopo contenitore, incartamento dopo incartamento, polvere sopra polvere, il ricercatore sprofonda in un baratro al cui confronto una âcanticaâ dantesca o un âgiudizio finaleâ dellâOrcagna sembrano ed effettivamente sono piccole cose. Qui non ci sono âturbeâ o âgentiâ o âschiereâ come nellâInferno di Dante, non câè un astratto collettivo a far da sfondo e cornice a pochi drammi individuali. Ogni âdementeâ viene fuori con il suo nome, la sua storia, la sua specifica condanna: e son migliaia e decine di migliaia. Le diagnosi parlano di âdemenza apopletticaâ, di âfollia circolareâ, di âturbe periodicheâ (per le donne), di âmelanconiaâ o, piĂš frequentemente, di âmelanconia senileâ, di âparalisi progressivaâ, di âipocondriaâ, di âpsicosi dellâinvoluzioneâ, di âalcolismoâ, di âfollia epiletticaâ, di âdemenza precoceâ: soprattutto di âdemenza precoceâ. Le ordinanze dei Sindaci e dei Regi Pretori â a cui, dal 1904, è dato lâincarico di disporre lâammissione dei âdementiâ nei manicomi provinciali â accennano in modo sbrigativo ai motivi del provvedimento. Dicono che il demente âvociaâ, che âbeveâ, che âmolesta le femmine per viaâ; che è âinstabile negli umoriâ o ânegli affettiâ (si può finire in manicomio anche per adulterio, soprattutto se si è donne); che è âdisordinatoâ, âtrascuratoâ, âsmemoratoâ, âdepressoâ; che âletica in famigliaâ; che âsragionaâ. Una volta entrato in manicomio, il demente resta in osservazione per un periodo di tempo che secondo la legge 14 febbraio 1904, n. 36, ânon può eccedere in complesso un meseâ. Il rituale dellâammissione âin via definitivaâ o del rilascio per âinsufficienza di titoloâ si celebra nei Tribunali; ma i veri arbitri del destino dei sospettati di demenza sono poi solo gli psichiatri: chiamati a condannare o ad assolvere in base al pr...