Troppo intelligenti per essere felici
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Troppo intelligenti per essere felici

Jeanne Siaud-Facchin

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Troppo intelligenti per essere felici

Jeanne Siaud-Facchin

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Come può un'intelligenza sopra la media essere un peso da portare anziché un dono di cui essere fieri? Com'è possibile che ostacoli, anziché favorire, la nostra felicità? E come invece possiamo sfruttare al massimo il nostro sentire fuori dal comune? L'autrice, celebre psicologa francese, studia da anni la plusdotazione intellettiva degli adulti: una condizione quasi impossibile da diagnosticare, e che riguarda in realtà un numero altissimo di persone. Caratteristica peculiare di questa condizione, oltre all'iperattività cerebrale, è l'ipersensibilità emotiva - e quindi nervosismo, tendenza alla depressione, empatia eccessiva, amplificata reattività emotiva. L'intelligenza è una grandissima forza, certo, ma anche un continuo, estenuante interrogarsi che può generare sofferenze, incomprensioni, derive esistenziali."Strani rapporti" - ha scritto Maurice Blanchot - "l'estremo pensiero e l'estrema sofferenza aprono forse il medesimo orizzonte? Forse soffrire è, in definitiva, pensare?"

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2016
ISBN
9788858686126

1

Cosa significa essere plusdotati?

1. La plusdotazione, un pianeta sconosciuto
Da qualche anno a questa parte si sente parlare sempre più spesso di plusdotazione: i cosiddetti supercervelli sono semplicemente un argomento alla moda o c’è qualcosa di più? In effetti, la risonanza mediatica del tema (in certi casi non immune da distorsioni sensazionalistiche) può indurre a pensare che si tratti di una categoria ombrello fabbricata di sana pianta da genitori in cerca di gratificazioni o da psicologi affascinati da questi «cervelloni», ipotesi corroborata dal fatto che l’attenzione rivolta a quella percentuale di individui che fino a poco tempo fa tutti consideravano dei privilegiati è relativamente recente.
Che cos’è successo? La ragione va ricercata in un concorso di fattori: l’incremento dei consulti psicologici nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza e il diffondersi delle perizie psicologiche. Queste ultime hanno messo in luce un dato allarmante: i bambini con un elevato quoziente intellettivo tendono ad avere serie difficoltà scolastiche e a manifestare problemi psicologici anche gravi. Alcuni sviluppano disturbi comportamentali e di socializzazione che incidono pesantemente sul loro percorso di apprendimento. Inoltre, oggi negli ambulatori fanno capolino anche gli adulti, sensibilizzati dal percorso intrapreso dai propri figli o semplicemente desiderosi di lavorare su se stessi.
Che cosa hanno in comune questi uomini sofferenti e assediati dai problemi? Molti di loro si rivelano a propria volta plusdotati e in crisi, persone superintelligenti in cerca di risposte al proprio malessere, con serie difficoltà a vivere, a integrarsi e a realizzarsi.
Oggi gli insegnanti sono più sensibili e informati riguardo al fenomeno, negli ultimi anni sono nati dei percorsi di ricerca universitaria e scientifica, e perfino qualche corso di formazione per psicoterapeuti; ma le misure e le proposte concrete volte ad accompagnare e sostenere adulti e bambini nella loro quotidianità lasciano molto a desiderare.
Non solo: tra gli studiosi, come nell’opinione pubblica, è ancora radicata la convinzione che avere un alto potenziale cognitivo garantisca una sorta di vantaggio sugli altri.
In effetti, non è facile capire e digerire il paradosso centrale che mina le sicurezze del plusdotato lungo il suo percorso di vita: lo stretto rapporto che esiste tra l’estrema intelligenza e la vulnerabilità psichica.
«Strani rapporti. L’estremo pensiero e l’estrema sofferenza aprono forse il medesimo orizzonte? Forse soffrire è, in definitiva, pensare?»1
MAURICE BLANCHOT
Tendiamo a confondere l’intelligenza con l’efficienza.
Siamo soliti mescolare competenze e successo personale.
È facile sovrapporre il potenziale alla produttività intellettuale.
Molte volte associamo un’intelligenza quantitativamente elevata (cioè superiore alla media) ma in grado di conformarsi alle esigenze dell’ambiente a una qualitativamente differente, il cui modo di funzionare può essere fonte di dolore e insuccesso (quella dei plusdotati, che sono diversamente intelligenti).
Spesso ci dimentichiamo che comprendere, analizzare, memorizzare qualcosa con rapidità non significa avere la scienza infusa.
È facile sottovalutare il fatto che un’intelligenza estrema è indissociabile da un’acuta sensibilità e da un’altrettanto estrema ricettività emotiva.
Normalmente si tace il fatto che la superintelligenza e l’ipersensibilità rendono più fragili e vulnerabili.
Pochi sanno che sentire e percepire con lucidità esacerbata tutte le componenti del mondo materiale e dei rapporti umani genera una reattività emotiva costante, fonte di un’ansia diffusa.
Il concetto d’intelligenza attiva una lunga serie di rappresentazioni paradossali. Prima di tutto ci interroghiamo sul suo significato: cosa vuol dire essere intelligenti? Poi sulle conseguenze: come si manifesta l’intelligenza? E infine sulle aspettative: come si mette a frutto? Se non riesco a fare una cosa, questo rimette in discussione la mia ipotetica intelligenza? La verità è che le idee, le credenze, le illusioni, le contraddizioni e le paure associate a questo concetto e ai suoi effetti sono dure a morire.
«È bello essere intelligenti, ma poi c’è sempre il rovescio della medaglia» mi spiega Aurore. «Sarei stata ben contenta di prendere solo l’intelligenza, perché quella può sempre tornarti utile. Ma tutto il resto è troppo difficile da vivere.»
Ricapitolando
Essere plusdotati è innanzitutto un modo diverso di essere intelligenti. L’intelletto di queste persone funziona in modo atipico e si basa sull’attivazione di risorse cognitive le cui basi cerebrali si discostano dalla norma e la cui organizzazione presenta scarti e lineamenti singolari.
Non si tratta di essere più intelligenti dal punto di vista quantitativo, ma di essere dotati di un’intelligenza diversa dal punto di vista qualitativo. C’è una bella differenza!
Una persona ad alto potenziale cognitivo riunisce in sé straordinarie risorse intellettuali: un cervello sopra la media, grande capacità di comprensione, di analisi, di memorizzazione e una sensibilità, un’emotività, una ricettività affettiva, un’acutezza dei sensi, una chiaroveggenza tanto intense e straripanti da inondare il campo del pensiero. Questi due aspetti sono sempre inestricabilmente legati.
Essere plusdotati è un modo di stare al mondo che colora la personalità nel suo insieme.
Significa avere costantemente l’emozione a fior di labbra e il pensiero ai confini dell’infinito.
Capire entrambi i lati del plusdotato: l’intellettuale e l’affettivo
Non tenere in debito conto le peculiarità del plusdotato nei due versanti – intellettuale e affettivo – destinati a plasmarne la personalità, a segnare ogni singola tappa del suo sviluppo e tutto il suo percorso di vita, equivale a relegare nel dimenticatoio un’intera categoria di persone in nome di convinzioni false e superate. La plusdotazione non è né una fortuna sfacciata né una benedizione del cielo; non è neppure un talento che apre chissà quali porte, o una forma d’intelligenza superiore particolarmente invidiabile. È un tipo di personalità ricco di risorse intellettuali e affettive, il cui potenziale potrà iscriversi come un punto di forza nel quadro psicologico generale soltanto se questa componente viene studiata, capita e riconosciuta come tale. Se la accetteranno, i plusdotati potranno costruirsi una vita felice e appagante, come ciascuno di noi tenta di fare. Se invece la ignoreranno o, peggio, le opporranno un meccanismo di rimozione, rischieranno di mancare l’appuntamento con se stessi, condannandosi a un profondo senso di privazione e di incompletezza che potrà sfociare, nella sua forma grave, in un doloroso disadattamento sociale o in severi disturbi psicologici.
«In fondo la felicità non è nient’altro che sfruttare le proprie capacità al cento per cento.»
MIHÁLY CSÍKSZENTMIHÁLYI
Suoniamo il campanello d’allarme!
► Oggi il bilancio clinico è preoccupante: i bambini ad alto potenziale cognitivo hanno un percorso scolastico spesso molto caotico, sono psicologicamente fragili, hanno fondamenti narcisistici incerti e patiscono di una consapevolezza dolorosa del mondo. Alcuni, grazie alla loro personalità, riusciranno a mettere in campo le difese e le risorse necessarie per trasformare questa particolarità in un punto di forza, in una dinamica di vita positiva. Ma nei bambini il cui sviluppo sarà segnato da una serie di problemi affettivi si manifesteranno disturbi psicologici. Durante l’adolescenza gli scompensi psicologici sono frequenti e si accompagnano a quadri clinici atipici, a processi terapeutici difficili e a una prognosi talvolta infausta.
La situazione sarà più o meno critica a seconda che il bambino abbia ricevuto una diagnosi oppure no e, in caso affermativo, in quale momento sia stata fatta. Un bimbo che cresce senza sapere chi è davvero rischia seriamente di sviluppare disturbi psicologici. In età adulta, avrà una personalità instabile e vacillante, costruita su ferite e rinunce, credenze erronee riguardo a se stesso e al mondo, oppure rigidi meccanismi attivati per proteggersi dalla propria vulnerabilità estrema. Caotico, accidentato, tortuoso, il percorso dell’adulto plusdotato è molto spesso disseminato di ostacoli. Naturalmente alcuni riusciranno a trovare un buon equilibrio esistenziale, a costruire progetti soddisfacenti e ad avere una vita felice. Ma non possiamo ignorare – anche se l’opinione comune vorrebbe farci credere che i plusdotati realizzati sono la stragrande maggioranza – tutti quegli uomini e quelle donne in crisi, che soffrono perché non sanno chi sono. ◄
La grande domanda: come chiamarli?
Può sembrare una questione di poco conto, ma in realtà è fondamentale sotto diversi aspetti. Ogni definizione contiene un senso implicito che rimanda a una rappresentazione parziale, erronea e in ogni caso insoddisfacente.
«Intellettualmente precoce» indica un anticipo dello sviluppo cognitivo durante l’infanzia, il che non traduce né la realtà (non è affatto detto che un bambino plusdotato sia precoce rispetto ai coetanei) né la specificità di questa condizione (non è il fatto di essere «più avanti degli altri» a renderli diversi). E che dire di quando, per abbreviare, si sente parlare di «bambini precoci»?
«Plusdotato» suggerisce l’idea di un individuo più dotato degli altri, ma implica anche un dono di natura. Il che presuppone che il soggetto in questione sia effettivamente dotato in qualcosa, altrimenti come riconoscersi in una definizione del genere? È difficile per un genitore sentirsi dire che suo figlio è plusdotato quando sia a casa sia a scuola va tutto a rotoli. Allo stesso modo, è complicato per un bambino sentirsi affibbiare un aggettivo che non corrisponde affatto a ciò che le persone pensano di lui o alla percezione che ha delle proprie possibilità. Il rischio è che questa nuova identità diventi un peso per lui e una fonte di imbarazzo per i suoi genitori, che spesso hanno qualche difficoltà a considerare il figlio un piccolo genio e quindi a parlarne in certi termini. All’improvviso è lo sguardo degli altri che fa paura: saranno in grado di capire? Come spiegare loro che «non è come credono»? Se esitano a usare quel termine, è perché non vogliono fare la figura di quelli che «incensano» il proprio bambino, o che «si vantano», come direbbero i più piccoli.
E se si tratta di un adulto? Come può considerarsi plusdotato chi vede la propria esistenza come una lunga serie di fallimenti e sofferenze? O semplicemente vuota? Anche in coloro che accettano la vita così com’è, con le sue difficoltà e i suoi piaceri, o che addirittura si sentono appagati, questa definizione suscita un certo turbamento: plusdotato, io? Che cosa c’entra con me? Se lo sono per davvero, non avrei dovuto avere un altro tipo di percorso?
A ogni modo, «plusdotato» è il termine scelto fin dalle origini dalla tradizione francese,2 quello che esprime una particolarità intrinseca della personalità. In mancanza di meglio, lo trovo più appropriato degli altri.
Oggi va molto di moda AP, che sta per «ad alto potenziale», oppure AQI, «ad alto quoziente intellettivo»; come se bastasse una sigla per cancellare tutto ciò che disturba, che sembra «di troppo» a proposito di questa condizione.
Sta di fatto che AP pone un ostacolo ulteriore: avere un potenziale elevato presuppone che uno debba fare grandi cose, avere successo nella vita. In caso contrario, vorrebbe dire che ha «sprecato» il suo potenziale. Ed è qui che scatta il senso di colpa...
Le «zebre speciali»
Ecco perché preferisco chiamarli «zebre», il termine che ho scelto per sgombrare il campo dalle rappresentazioni scomode; un animale più unico che raro, il solo equino che l’uomo non sia in grado di addomesticare, che nella savana si distingue nettamente grazie alle strisce che sfrutta per mimetizzarsi, che per vivere ha bisogno degli altri e si prende cura dei piccoli in modo particolare, che è al tempo stesso uguale e diverso. E poi, come le nostre impronte digitali, le strisce delle zebre sono uniche e permettono a questi animali di riconoscersi tra loro. Ogni zebra è diversa. Perciò non mi stancherò mai di ripetere che queste «zebre speciali» hanno bisogno di tutta la nostra attenzione per vivere in armonia in un mondo tanto esigente. Continuerò a difendere queste persone «a strisce», come se le zebrature rappresentassero anche i graffi che possono ricevere dalla vita. Continuerò a spiegare loro che le strisce sono formidabili particolarità in grado di salvarli da un mucchio di trappole e pericoli. Che sono magnifiche e possono andarne fieri in tutta serenità.
A Cogito’Z3 abbiamo preso l’abitudine di incollare un adesivo a forma di zebra sulle cartelle dei nostri pazienti plusdotati. Un sistema che ci permette di aggirare il problema della denominazione. Decidiamo tutti insieme se un dossier vada classificato come «zebra»: dopo la perizia psicologica, infatti, facciamo una riunione per stabilire se il bambino è zebrato o meno. Nel nostro gergo, le zebre diventano delle Z; nei nostri rapporti interni, per esempio, si può leggere Z++ quando la diagnosi è conclamata e le caratteristiche della zebra sono inequivocabili. Nella nostra banca dati amministrativa, quindi, il paziente con una valutazione di plusdotazione è indicato con la lettera Z. Z come «zebra», come «dalla A alla Z», o come «Zorro» che vuole fare giustizia sempre e ovunque. Ma le nostre zebre speciali sono anche emotive, inquiete, ribelli, solitarie, dimenticate... Dietro una Z, come vedete, possono nascondersi tante cose! Non trovate che questo nome calzi a pennello?
2. Che cosa sappiamo oggi della plusdotazione?
Negli ultimi anni numerose pubblicazioni, un rinnovato interesse in ambito accademico e una maggiore sensibilità politica hanno acceso i riflettori sul problema della plusdotazione.
Siamo diventati più coscienti del fatto che questa fetta di popolazione atipica merita un’attenzione particolare, consapevolezza che ha reso possibile una mobilitazione attiva e produttiva. Sono in continuo aumento in ambito accademico le équipe che lavorano su questa tematica; i medici, gli psicologi e gli psichiatri che si specializzano nella diagnosi e nella cura dei bambini plusdotati; le strutture scolastiche che tentano di mettere a punto soluzioni pedagogiche specifiche. Certo, il «pellegrinaggio» dei genitori continua a essere più simile a un calvario, e gli happy end sono ancora troppo rari. I professionisti e i centri specializzati rimangono delle eccezioni ma – ammettiamolo – finalmente le cose stanno iniziando a girare...
La grande rivoluzione è arrivata dalle neuroscienze. Oggi – soprattutto grazie alle ultime tecniche della diagnostica per immagini (imaging a risonanza magnetica, IRM) – siamo in grado di vedere il...

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