Le radici dell'odio (VINTAGE)
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Le radici dell'odio (VINTAGE)

La mia verità sull'Islam

Oriana Fallaci

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Le radici dell'odio (VINTAGE)

La mia verità sull'Islam

Oriana Fallaci

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"Abbiamo paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l'esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio." Oriana Fallaci ha pronunciato queste parole nel 2005 quando decise di raccontare il suo "diritto all'odio". Sono riflessioni che ancora oggi, a distanza di dieci anni, risultano drammaticamente attuali, così come molti suoi brani finora inediti in cui affronta il conflitto con l'Islam senza mezzi termini né concessioni. "Ho visto le mussulmane la cui vita vale meno di una vacca o un cammello" scrive una giovanissima Oriana nel suo primo reportage sulla condizione delle donne nei paesi islamici. "Vi sono donne nel mondo che ancora oggi vivono dietro la nebbia fitta di un velo come attraverso le sbarre di una prigione." Una prigione che si estende dall'oceano Atlantico all'oceano Indiano percorrendo il Marocco, l'Algeria, la Nigeria, la Libia, l'Egitto, la Siria, il Libano, l'Iraq, l'Iran, la Giordania, l'Arabia Saudita, l'Afghanistan, il Pakistan, l'Indonesia: è il mondo dell'Islam, dove nonostante i "fermenti di ribellione" le regole riservate alle donne sono immote da secoli. Prefazione di Lucia Annunziata.

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SECONDA PARTE

I profeti del terrore

Se uccidi i miei figli io ucciderò i tuoi figli

Partimmo di notte, da Amman. La notte era limpida e fredda, ottima pei bombardamenti, l’aria tremava di mille minacce. Abu George mormorò: «Sei certa di volerci andare? Tempo fa un giornalista mi mandò pazzo perché ce lo portassi ma quando venne il momento rifiutò di seguirmi. Sei certa di volerci andare?». «Sì. Abu George.» «Non hai paura?» «Ne ho molta. Abu George.» «Ne avrai di più all’alba, il peggio viene con l’alba. È allora che arrivano gli aeroplani o che tirano con l’artiglieria.» «Lo so, Abu George.» «E va bene.» Abu Abed invece non disse nulla, s’era chiuso in mutismo e si mordeva le unghie. Partimmo con una vecchia automobile: Abu George stava al volante e Abu Abed accanto a lui. Tra i sedili tenevano un mitra e ogniqualvolta capitava un sasso o una buca il mitra rimbalzava sordo, la canna si abbassava verso me e Moroldo. Moroldo la tirava su brontolando: «Badiamo di farci arrivare vivi, eh?». Il primo posto di blocco lo trovammo appena usciti da Amman. A fermarci fu la polizia giordana che ci lasciò proseguire senza difficoltà ma avevamo percorso pochissimi metri che due fidayn con la tuta mimetizzata e il volto coperto dal kassiah balzaron dal buio puntandoci addosso i kalashnikov. Abu George avvertì: «Fatah!». Ma la parola, che di giorno era un magico lasciapassare, di notte non bastava più. Fu necessario esibire i fogli timbrati, firmati, spiegar dove andavamo e perché. Infine fummo davvero in viaggio lungo quella strada che con un po’ di sfortuna avrebbe potuto portarci a morire, e Moroldo chiese: «Tutto a posto?». Io gli risposi: «No, grazie». Così lui aggiunse: «Neanch’io. Ma l’abbiamo già fatto, siamo stati in Vietnam». «Dalla parte degli americani, Moroldo. Ora è come se ci tornassimo dalla parte dei vietcong.» Abu Abed e Abu George si scambiarono un’occhiata scontenta. Non gli piaceva sentirci parlare italiano. Ci conoscevamo da cinque giorni e non si fidavan di noi. Né noi, a conti fatti, di loro. Ci avevano dato quei nomi, Abu George e Abu Abed, ma George non si chiamava George e Abed non si chiamava Abed. Di vero non c’era che Abu, l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano invece di camerata, compagno. Significa Padre. Di Abu George, un ventiseienne dai capelli castani e gli occhi colmi di rancore, sapevamo soltanto che era un ex-studente di farmacia: rientrato da San Francisco dove frequentava con una borsa di studio la California University. Di Abu Abed, un trentacinquenne dal corpo tozzo e il viso ingrugnito, sapevamo che era ingegnere: specializzato nella costruzione di dighe e innamorato troppo della moglie. La moglie era italiana e di lei ci parlava continuamente, fino a ossessionarci, una sera ce l’aveva fatta perfino conoscere: una ragazza intelligente e graziosa, con due bambini in braccio e una gran pazienza in cuore. Come George, egli era entrato nella Resistenza da poco e lo capivi dalla scarsa freddezza che distingue i combattenti non provati. Come George apparteneva a El Fatah che significa Movimento nazionale di liberazione palestinese, Harakat Al Tahrir Al Falastini, e deriva dalle iniziali di queste parole ma rovesciate. Hataf, in arabo, significa Morte; Fatah, invece, vuol dire Vittoria. Come George si occupava dei giornalisti ed ora ci stava portando nelle basi segrete dei fidayn. Quelle dove i fidayn si nascondono per condurre la loro guerra a Israele, quelle da cui i fidayn partono per attaccare Israele al di là degli sbarramenti fotoelettrici e i campi di mine. «Sono basi dove nessun giornalista è mai stato, nessuno straniero.» «Sì, Abu Abed.» «Non dovrete chiederci di localizzare il punto preciso, se lo capite non dovrete mai rivelarlo.» «Sì, Abu George.» «Non potrete allontanarvi, né abbandonarvi a imprudenze che comprometterebbero la sicurezza dei fidayn e la nostra.» «Certo. Abu Abed. Non esser nervoso, Abu Abed.»
Gli avevo detto a quel modo ma ora anch’io ero nervosa, sia pure per motivi diversi. Lo ero per la responsabilità che il mestiere di informare gli altri comporta, per il dramma che sempre mi costa e stavolta era doppio perché coinvolgeva la mia coscienza, i miei dubbi. A questa guerra, pensavo, hai guardato finoggi con voluto distacco o perdendoti in labirinti di scuse: Cina, America, Russia, Mediterraneo, Petrolio, Comunismo, Sionismo. Ma sai bene che, quando tocchi con dito, il distacco è impossibile; sai bene che la realtà umana è più onesta dei labirinti. Qui si riassume così: da una parte ci sono gli arabi e dall’altra gli ebrei, sia gli uni che i secondi combattono per non finire. Se vincono gli arabi, sono finiti gli ebrei; se vincono gli ebrei, sono finiti gli arabi. Dunque chi ha ragione, chi ha torto, chi scegli? Gli ebrei li conosci. Perché hai sofferto per loro, con loro, fin da bambina, li hai visti braccare arrestare massacrare a migliaia a milioni. Li hai difesi, li hai aiutati, li hai amati. Hai sperato che avessero un posto per stare, difendersi, ti è piaciuto che approdassero infine alla Terra Promessa: un paese chiamato Palestina. Non ti sei chiesta nemmeno se ci fossero giunti in modo giusto o ingiusto, se giungendoci lo trovassero vuoto come la Luna o abitato già da un suo popolo con ogni diritto di starci: dai palestinesi ad esempio. Gli arabi non li conosci. Non hai mai sofferto con loro, non hai mai pianto per loro, non sono mai stati un problema per te. Di loro hai sempre saputo che inventarono i numeri, che i Crociati li invasero e li fecero a pezzi poi essi fecero a pezzi i Crociati e ci invasero: basta. Però un giorno è successo qualcosa. Hai letto che centinaia e centinaia di migliaia di creature, di palestinesi, eran fuggiti o eran stati cacciati dal paese che si chiamava Palestina e ora si chiama Israele. Un milione nel 1948, trecentomila nel 1967, ammassati come le pecore nei campi-profughi della Giordania, della Siria, del Libano, sotto minuscole tende che il vento abbatte e la pioggia fa affogare nel fango, dentro baracchine in metallo che l’inverno trasforma in blocchi di ghiaccio e l’estate in forni roventi. Sradicati, umiliati, spogliati d’ogni possesso e d’ogni diritto: i nuovi ebrei della Terra. E dai nuovi ebrei della Terra è nata una misteriosa parola: fidayn. Hai chiesto cosa significa e t’hanno risposto: uomini del sacrificio, guerriglieri. Hai chiesto che vogliono e t’hanno risposto: distruggere Israele, riprendersi la Palestina. Hai chiesto in che modo e t’hanno risposto: come i vietcong nel Vietnam, ammazzando, morendo. Ieri hanno attaccato un kibbutz a Ein Harod, oggi hanno distrutto una fabbrica di potassio a Sodoma, stamani hanno fatto scoppiare due bombe al mercato di Gerusalemme e stasera hanno sostenuto una battaglia a Safi. Mentre c’è chi li ammira e chi li disprezza, chi li chiama eroi e chi terroristi: indottrinati nell’odio per l’odio. Sicché hai deciso di andare a cercarli, conoscerli. Ma non negli uffici che hanno in città, e neppure nei campi-profughi dove la maggior parte dei visitatori si ferma: nei luoghi dove si nascondono, al fronte.
Un’impresa dura se ti presenti dicendo che la tua coscienza è sconvolta dal dubbio, che in più non credi alla guerra perché non ammetti che gli uomini uccidano gli uomini, neppure in nome di un diritto, di un sogno: il più sacrosanto diritto e il più nobile sogno. Il tuo pacifismo li insospettisce, la tua obiettività li ferisce: occhio per occhio, dente per dente, rispondono, e se non sei con noi sei contro di noi. Ma v’è qualcosa cui il fanatismo più disperato si piega: la sincerità. Col pretesto di farsi intervistare, Abu Lotuf, cervello di Al Fatah, m’aveva attentamente studiato. Poi aveva preso un foglio e ci aveva scritto due o tre frasi in arabo: l’indomani ero stata informata che il lasciapassare richiesto esisteva. Viaggiavamo da circa un’ora, attraverso i posti di blocco che si ripetevano con monotonia sconcertante, quando domandai ad Abu Abed: «Ma cosa c’è scritto in quel foglio?». Abu Abed esitò, imbarazzato. Poi lo tolse di tasca e tradusse. Diceva: «Non è una nemica di Israele. Non è un’amica della Palestina. O non ancora. Ordine di aiutarla nel suo lavoro e farle vedere le basi. Sia a nord che a sud».
Le basi fidayn si trovano principalmente lungo il confine col territorio occupato nel 1967 dagli israeliani. Vale a dire: sotto i monti del Golan, e cioè all’estremo nord della Giordania, sulla riva destra del fiume Giordano, sulla sponda destra del Mar Morto, nella Valle della Luna e giù per il Negev fino al golfo di Akaba. Si trovano anche nel Libano e soprattutto ai confini che il Libano ha con la Siria e con Israele, poi al confine della Giordania con la Siria dove esistono i campi di allenamento più seri, e al confine della Giordania con l’Arabia Saudita dove, a testimonianza di molti, si incontrano gli istruttori cinesi. E qualche tedesco.
Un tecnico della ditta italiana impegnata a costruire la strada che andrà dalla città di Ma’an fino alla frontiera saudita giura ad esempio d’esser stato arrestato, per mancanza di documenti, da un fidayn assolutamente tedesco. Del resto sappiamo di fidayn e istruttori francesi, algerini, cubani, e perfino di un fidayn italiano che al Libano tentai di incontrare senza riuscirci: Giuseppe Tuscano. I guerriglieri palestinesi non sono rigidi come i vietcong che dagli stranieri accettano armi, consigli, e mai uomini. Coi dovuti controlli e una pallottola in capo se risulti una spia, ti accettano anche se sei americano. Le Pantere Nere di San Francisco e New York hanno appena ricevuto il permesso di mandare alcuni adepti in Giordania, ad allenarsi per la guerriglia. Però le basi in cui questo accade, e cioè le basi all’interno, non hanno l’importanza strategica di quelle poste lungo il Giordano e il Mar Morto dove, si lasciò scappare un comandante di Al Fatah, esistono ben 42.000 fidayn. Sul fiume ne trovi spesso ogni chilometro o due e controllano la zona assai meglio dei soldati di Hussein. Gli israeliani, ovvio, lo sanno. Ciò che non sanno è in quali punti esse sono situate, e con quale criterio. Non solo perché si compongono sempre di piccoli gruppi facili a sparpagliarsi mai a lungo nel medesimo posto. Il posto è scelto coi criteri tipici della guerriglia: un bosco, una piantagione, le macerie di un villaggio distrutto, le mura di una casa colonica abbandonata ma intorno alla quale i campi si coltivano ancora. Individuarlo è difficile, ammeno di una spiata o d’un sospetto preciso, e così accade in Giordania ciò che accade in Vietnam: l’artiglieria bombarda a casaccio la zona, gli aerei mitragliano senza discriminazione gli automezzi che la percorrono. Soprattutto lungo la strada che va verso il fiume, vedere un Mirage che si abbassa su un’automobile o un taxi non è raro e viaggiarci diviene una sfida alla sorte. Sai quando parti, non sai quando e se arrivi.
Riconoscemmo assai presto la strada che va verso il fiume. C’eravamo già stati, di giorno, per recarci al ponte Allenby, ed essa è inconfondibile: si arrampica a spirale su per le montagne, poi scende sotto il livello del mare e lo sbalzo ti provoca ronzio agli orecchi, senso di oppressione. Però non dicemmo nulla ai nostri accompagnatori: la loro bocca era chiusa in un silenzio che chiedeva solo silenzio e il loro nervosismo era aumentato. Per trarre in inganno gli aerei, Abu George aveva spento un faro dell’automobile e, per sentirli arrivare, Abu Abed aveva abbassato il vetro del finestrino. Qui si sporgeva continuamente, teso a ogni rumore sospetto. Solo quando apparve quel lago di luce giù nella vallata al di là del confine, e dietro di esso altra luce, meno chiara ma più diffusa, i due uomini si lasciarono andare in un grido: «Gerico! Gerico! Gerusalemme!». E Abu George aggiunse, con la voce incrinata dal pianto: «Sento il profumo dei gelsomini di Gerusalemme». Infine fummo a El Shuna, l’ultimo villaggio prima del ponte Allenby, ormai frantumato dai razzi e dai mortai, e girammo a sinistra: su per la strada che costeggia il Giordano. Il profumo dei gelsomini si sentiva davvero, e le luci di Gerico ci venivano sempre più addosso: con un cannocchiale, scommetto, avresti potuto vedere i soldati israeliani. I posti di blocco s’erano fatti più frequenti: ogni due o tre chilometri ci fermava un bagliore azzurro di torcia, cinque o sei fidayn col volto coperto dal kassiah ci puntavano i kalashnikov e chiedevano il lasciapassare. Ottenutolo, ci esaminavano senza entusiasmo uno a uno e ci ordinavano di proseguire avvertendo: «Ou’a! Fate attenzione!». Ripartivamo guardinghi, a fari spenti, saltando sulle buche e sui sassi di una strada che forse non era più una strada ma un campo, mentre Abu Abed brontolava: «Domani bisogna andarcene, intesi? Restar qui è troppo pericoloso».
D’un tratto ci lasciammo alle spalle anche le luci di Gerico, il cielo si offuscò di una nebbiolina che annunciava la pioggia e quel profumo di gelsomini scomparve. Ebbi l’impressione che non viaggiassimo più lungo il fiume ma che percorressimo la sponda del Mar Morto. Confusamente si delineò un filare di alberi e qui Abu George spense i motori. Due fidayn armati apparvero come fantasmi dal nulla e ci dissero che da quel momento bisognava andare a piedi: loro ci avrebbero servito da scorta. Sembravano molto giovani, molto miti, e molto gentili. Cercando di intravederne il viso, come sempre nascosto dal kassiah, non potevi evitar di provare una specie di tenerezza per loro. Erano gli stessi che quasi ogni notte si imbrattavano il viso di vernice nera o polvere di carbone, si caricavano di munizioni ed esplosivi, e partivano verso i campi di mine, le mitraglie puntate. Eran gli stessi che poche ore prima avevo visto negli ospedali di Al Fatah, chi senza un piede, chi senza una gamba, chi senza le dita di una mano e chi cieco, e se ci parlavi ti rispondevan sereni: «Forse la vista mi tornerà e potrò rientrare alla base». Oppure: «Forse mi faranno un piede artificiale e potrò tornare a combattere». Con quella tenerezza in cuore mi chiesi cosa induce un uomo a far questo. Un uomo che non v’è costretto da una cartolina di richiamo, né da un partito, né da un generale…
Cos’è che li fa diventare fidayn?
Tre giorni avanti io avevo già posto questa domanda a qualcuno. Era successo in un campo di addestramento sulle colline di Amman: durante una manovra cui m’avevan permesso di partecipare e in cui un ragazzo era rimasto ferito. La manovra era diretta da un ufficiale che passava le linee «almeno quattro volte al mese» e spesso era giunto fino a Tel Aviv. Si chiamava Giacobbe, colpiva per un volto sofferente, scavato, da Gesù Cristo: aveva anche i capelli rossi, la barbetta rossa, come Gesù Cristo. E gliel’avevo detto e m’aveva risposto: «Sono anch’io un Gesù Cristo. Sulla croce ci avevano messo anche me, solo che io sono sceso, e ho imparato a usare il fucile, le bombe a mano, i katiuscia, per ammazzare gli altri». Allora gli avevo chiesto com’è che un Gesù Cristo scende dalla croce per ammazzare gli altri, e lui mi aveva risposto così.
«Noi s’era contadini, capisci, e si possedeva un bel po’ di terra sotto i monti di Hebron. Mio padre l’aveva ereditata da suo padre che l’aveva ereditata da suo padre anche lui e via dicendo. Ci si aveva le vigne, e gli olivi, e si faceva l’olio, e il vino, e si coltivava la frutta: fichi, melograni e albicocchi. E poi si faceva il formaggio e si filava la lana perché si possedeva una trentina di pecore e dodici capre. E s’era felici. Perché non ci mancava nulla e la casa aveva anche tre camere per farci dormire gli amici in caso di bisogno, e la domenica si andava al villaggio per passeggiare in piazza e pregare dentro la moschea. Ma venne il 1948 e tutto finì. Era estate, ricordo, mi pare luglio. Io avevo tredici anni, il mio secondo fratello ne aveva otto e il mio terzo fratello ne aveva sei. E vennero i loro aeroplani e ci buttaron le bombe proprio sul villaggio, sui campi, e tanti morirono e si dovette scappare sui monti. E si rimase una settimana sui monti, poi si tornò perché tutto sembrava finito, ma s’era appena tornati che loro ci bombardarono di nuovo, e non solo con gli aeroplani, anche con l’artiglieria. E altri morirono, tanti. E poi arrivarono i loro commandos, e ci fecero uscire dalle case e si misero a minare le case che saltavano in aria con la roba dentro. Non le minarono tutte e mio padre voleva prendere un poco di roba prima che facessero saltare la nostra, ma loro: “Via, via! Partire, partire!”. E ci mandarono via senza farci prendere nulla, neanche una valigia, neanche un paio di scarpe, io ero scalzo e non potevo camminare: sentivo male ai piedi. Si lasciò perfino sessanta giare di olio che era il raccolto dell’anno, seicento chili all’incirca, ed alla mia mamma non permisero di agguantare il velo sebbene sapessero che per una mussulmana è terribile non coprirsi il viso col velo. Alla nostra vicina permisero di entrare un momento e afferrare il bambino di tre mesi, ma lei era tanto sconvolta che anziché il bambino afferrò un guanciale legato. In quanto devi sapere che noi i bambini appena nati si legano dentro un guanciale. Fu una cosa terribile, sai. Quando lei s’accorse d’aver tra le braccia il guanciale senza il bambino, la casa era saltata in aria… Impazzì.
Noi si camminò tutto il giorno poi si arrivò a quella cava dove si rimase nascosti in attesa che mi guarissero i piedi. S’erano tutti tagliati a camminar senza scarpe. Poi si arrivò a Betlemme dove ci misero in un campo di profughi e dove mio padre morì, non s’è mai capito di che. Non mangiava più, non dormiva più, non faceva che piangere e dire: “Perché? Cosa gli abbiamo fatto agli ebrei, con gli ebrei noi si andava d’accordo, ricordi quando si cucinava insieme? Ma che gli è successo agli ebrei? Non ci credo, io non ci credo!”. E quel campo divenne la nostra casa. In quattro ammucchiati sotto una tenda, poi in una baracca. E lì crebbi, mi feci anche un mestiere: camionista. E a ventitré anni mi sposai, con una ragazza del campo che conoscevo fin da bambino: la nipote di quella che aveva preso il guanciale invece del figlio. E si riuscì a ottenere una stanza, una sola ma in muratura, e la si aggiustò graziosamente, e lì nacquero i miei bambini perché la vita deve continuare sì o no? Ci eravamo come rassegnati, capisci, solo quella notte io mi resi conto che non si poteva continuare così. Era una notte come tutte le altre. Mi svegliai, e vidi la roba ammucchiata, il letto che non era un letto, e ripensai alla bella casa di Hebron, e mi resi conto d’aver perso tutto: il mio letto, la mia casa, la mia dignità. E mi dissi per questo è morto mio padre, per la vergogna, e capii che bisognava combattere per riavere il mio letto, la mia casa, la mia dignità.»
«E lo facesti, Abu Giacobbe?» «No, subito no. Accadde dopo, nel 1967, quando gli israeliani presero anche il resto della Palestina e passarono il fiume Giordano. Io in quei giorni facevo il camionista ad Amman. Portai il camion fino al ponte Allenby e siccome non mi fecero passare dovetti gettarmi in acqua, raggiungere l’altra sponda nuotando, mentre mi sparavano addosso. E giunsi al campo che era mezzo distrutto dai bombardamenti, e nella stanza mia moglie non c’era. E per tutto il giorno la cercai senza trovarla e poi la incontrai per caso nella scuola cattolica di Terra Santa. Insieme ai bambini. E mi disse che l’artiglieria israeliana aveva sparato per ore sul campo, tanta gente era morta e lei era scappata quaggiù pensando che non avrebbero mica sparato in una chiesa che apparteneva a Gesù. Però, mentre diceva così proprio in mezzo alla chiesa, arrivò una bomba al napalm e anche la scuola andò a fuoco. Io non volevo partire perché non volevo ripetere ciò che aveva fatto mio padre diciannove anni prima. Partii perché...

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