Memorie dal sottosuolo
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Memorie dal sottosuolo

Fëdor Michajlovi Dostoevskij

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Memorie dal sottosuolo

Fëdor Michajlovi Dostoevskij

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Io non solo non ho saputo diventare cattivo, ma non ho saputo diventare niente: né cattivo né buono, né furfante né onesto, né eroe né insetto. E ora vivo nella mia tana facendomi beffe di me stesso...

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Information

Publisher
BUR
Year
2011
ISBN
9788858618752
II

A PROPOSITO DELLA NEVE FRADICIA

Quando dal buio della confusione
col motto ardente della persuasione
t’ho sollevato l’anima caduta
e piena di terribili tormenti
maledicevi, fra mille pentimenti,
il vizio che t’aveva aggrovigliata;
quando la tua dimentica coscienza
condannata alla pena dell’evocazione
a me comunicò la narrazione
di tutto ciò che fu prima di me,
e coprendoti il volto con le mani
oppressa di vergogna e di sgomento
tu ti sciogliesti finalmente in pianto,
turbata, sbalordita...
Eccetera... eccetera...
(da una poesia di N.A. Nekrasov)1

I

Avevo soltanto ventiquattro anni. La mia vita era anche allora tetra, disordinata, solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo nessuno, e rifuggivo perfino dall’aprir bocca, e mi rannicchiavo sempre di più nella mia tana. Anche in ufficio, durante il lavoro, cercavo di non guardare nessuno e mi accorgevo benissimo che i colleghi mi consideravano un bislacco; ma mi pareva anche che mi guardassero con un certo disgusto. Mi balenava nella testa il pensiero che curiosamente a nessuno, salvo a me, venisse in mente di essere guardato con disgusto. Uno dei nostri impiegati aveva una faccia ripugnante e tutta butterata, una faccia perfino da brigante. Io non avrei osato neppure alzare lo sguardo su qualcuno, con una faccia così oscena. Un altro indossava una divisa così consunta che a stargli vicino si sentiva un gran puzzo. Eppure nessuno di questi signori si sentiva a disagio per l’uniforme, o per la faccia, o per motivi morali. Né a questo né a quello passava per la mente che li si guardava con disgusto. Ma se anche gli fosse venuto il dubbio non sarebbe cambiato niente, a meno che si fosse trattato del direttore. Ora m’è perfettamente chiaro che a causa della mia sconfinata vanità, che mi rendeva molto esigente verso me stesso, mi guardavo continuamente con una furiosa insoddisfazione che arrivava alla ripugnanza e per ciò attribuivo, nei miei pensieri, il mio sguardo a chiunque. Io per esempio detestavo la mia faccia, la trovavo orrenda e avevo perfino il sospetto che avesse un’espressione spregevole e allora, ogni volta che comparivo in ufficio, tentavo penosamente di conservare un’aria il più possibile indipendente perché non sospettassero in me della vigliaccheria, e di conferire un che di nobile alla mia espressione. “Pazienza se non ho una bella faccia” pensavo “purché sia nobile, espressiva e soprattutto straordinariamente intelligente.” Ma sapevo bene, e ne soffrivo, che non sarei mai riuscito con la mia faccia ad esprimere tutte quelle qualità. Ma la cosa più terribile è che la trovavo realmente stupida. E io mi sarei accontentato pienamente dell’intelligenza. Avrei perfino accettato la mia espressione spregevole purché la mia faccia risultasse nello stesso tempo terribilmente intelligente.
Naturalmente io detestavo tutti i nostri impiegati, dal primo all’ultimo, e li disprezzavo tutti, ma nello stesso tempo ne avevo una certa paura. Poi capitava che di colpo li considerassi superiori a me. Avveniva proprio così, un minuto li disprezzavo, il minuto dopo li ponevo al di sopra di me. Un uomo evoluto e per bene non può essere vanitoso senza avere infinite pretese e senza disprezzare se stesso in alcuni momenti fino ad odiarsi. Ma che li disprezzassi o li tenessi in eccessiva considerazione non riuscivo a non abbassare gli occhi di fronte a chiunque incontrassi. Ho fatto perfino degli esperimenti per tentare di sostenere lo sguardo del tale, ma sempre ero il primo ad abbassare gli occhi, era un tormento disumano. Temevo fino a stare male di essere ridicolo e adoravo servilmente la routine in ogni manifestazione esterna: seguivo amorevolmente i binari comuni e dentro di me temevo con tutta l’anima qualsiasi forma di eccentricità. Ma come potevo evitarla? Io ero morbosamente evoluto come dev’esserlo un uomo del nostro tempo. Loro erano tutti ottusi, uno simile all’altro come i montoni nel gregge. Forse in tutto l’ufficio ero l’unico perennemente convinto di essere un vile e uno schiavo. E proprio per questo a quanto pareva ero una persona evoluta. Ma non solo pareva, era proprio così; io ero vile e schiavo. Lo dico senza alcuna vergogna. Ogni uomo per bene del nostro tempo è e dev’essere vile e schiavo. È la sua condizione normale, ne sono profondamene convinto. È fatto così ed è strutturato su questo. E non in un tempo come il nostro per via di certe casuali circostanze, ma in generale, in tutti i tempi, l’uomo per bene dev’essere vile e schiavo. È la legge della natura di tutti gli uomini per bene della terra. E se a qualcuno capita di fare qualche prodezza non si consoli e non se ne rallegri, tanto di fronte a un altro calerà le brache. È l’unica, inevitabile via d’uscita. Le prodezze le fanno solo gli asini e i bastardi, e anche quelli fino a un certo limite. Non mette conto di occuparsi di loro perché non hanno alcuna rilevanza.
Mi tormentava allora anche una circostanza: proprio il fatto che nessuno mi assomigliasse. “Io sono solo e loro sono tutti” pensavo e restavo assorto a lungo.
Questo la dice lunga sul mio infantilismo.
Mi capitava anche di avere delle contraddizioni. Come quando mi prendeva un tale schifo all’idea di andare in ufficio che arrivavo al punto, a volte, di tornare a casa malato. Ma di colpo, di punto in bianco, sopraggiungeva una zona di scetticismo e di indifferenza (tutto in me era a zone) e allora io stesso ridevo della mia intolleranza e del mio ribrezzo, e mi accusavo di romanticismo. O non volevo parlare con nessuno oppure non mi limitavo a conversare ma addirittura progettavo di stabilire veri e propri rapporti d’amicizia. Tutto il mio disprezzo scompariva di colpo, di punto in bianco. E magari non c’era mai stato, in fondo al mio cuore, magari era solo un atteggiamento, un fatto letterario. È una questione che ancora non sono riuscito a chiarire. Appena stabilivo coi colleghi rapporti di amicizia, cominciavo a frequentare le loro case, a giocare a préférence, a bere vodka, a discutere di promozioni. Ma a questo punto lasciatemi fare una divagazione.
Noi russi non abbiamo mai avuto, genericamente parlando, quelle romanticherie lunari dei tedeschi e soprattutto dei francesi, che non si lasciano sfiorare da niente; neanche se la terra scricchiolasse sotto i loro piedi, neanche se la Francia crollasse tutta intera sulle barricate, farebbero una piega, per eleganza, e continuerebbero a cantare le loro lunari canzoni, tanto per dire, sino alla tomba, perché sono dei cretini. Da noi, in terra russa, non ci sono cretini; è noto. È il motivo per cui ci distinguiamo dalle altre terre europee. Di conseguenza anche la natura dei lunari non si sviluppa da noi almeno nella loro pura essenza. Con tutto ciò, i nostri giornalisti e critici «positivi» di un tempo, in cerca di personaggi come Kostanzoglo o come zio Pëtr Ivanovič,2 avendoli stupidamente considerati un nostro modello di vita, hanno inventato panzane sui nostri «romantici» considerandoli lunari come quelli tedeschi o francesi. Al contrario, le caratteristiche del nostro romantico sono totalmente opposte a quelle dell’europeo-lunare e nessuna misura europea si adatta a noi. (Già che ci sono lasciatemi usare questa parola «romantico»: è una dolce parola antica, rispettabile, benemerita e nota a tutti.) Le caratteristiche del nostro romantico sono di capire tutto, di vedere tutto e spesso inconfrontabilmente con più chiarezza di quanto non vedano le nostre menti più positive; di non conciliarsi mai con nessuno e con nulla e nello stesso tempo di non disprezzare niente; eludere tutto, accostarsi politicamente a ogni cosa; non perdere mai, neanche per un attimo, di vista lo scopo utile, pratico (be’, qualche piccolo alloggio statale, una piccola pensione, qualche piccola decorazione), tener d’occhio questo scopo attraverso tutti gli entusiasmi e i volumetti di poesia e insieme conservare dentro di sé «il bello e il sublime» fino alla tomba e, a proposito di tomba, conservare anche se stessi nella bambagia, come oggettini preziosi se non altro per essere utili al «bello e sublime». È un’anima larga il nostro romantico ed è il più imbattibile ciarlatano fra tutti i ciarlatani di casa nostra, ve l’assicuro... perfino per esperienza. Si capisce, tutto questo se il romantico è intelligente. Ma cosa dico! Il romantico è sempre intelligente; volevo soltanto osservare che se da noi ci sono stati anche dei romantici-cretini non vanno messi in conto, unicamente perché quando erano ancora nel pieno del loro vigore si trasformavano definitivamente in tedeschi e per conservare più agevolmente il loro oggettino prezioso si trasferivano dove capitava, il più delle volte a Weimar, o a Schwarzwald. Io per esempio ho disprezzato sinceramente il mio lavoro e se non l’ho mandato al diavolo è solo per necessità, perché lì ci devo stare per avere dei soldi. Risultato, lo vedete voi stessi, non ce l’ho mandato. Il nostro romantico piuttosto va fuori di testa (il che del resto succede molto raramente), ma non comincerà a fregarsene se non ha in vista un’altra carriera e mai lo sbatteranno a calci fuori dai piedi, tutt’al più lo trascineranno al manicomio nei panni del «re di Spagna»,3 ma solo se sarà diventato matto davvero. Ma da noi diventano matti solo i poveri cristi, malaticci e slavati. Mentre un numero incalcolabile di romantici arrivano man mano ai gradi alti. Straordinaria poliedricità! E che vocazione alle sensazioni più contraddittorie. Io anche allora me ne consolavo, e anche adesso mi tornano gli stessi pensieri. Perciò da noi ci sono anche tante «anime larghe» che perfino nell’ultimo tonfo non perdono mai il loro ideale. E sebbene non muovano mai neanche un dito per il loro ideale e sebbene siano briganti e ladri di tre cotte, tuttavia sono tesi al loro sorgivo ideale fino alle lacrime e nell’anima sono straordinariamente onesti. Sì, solo fra di noi il più inveterato mascalzone forse può essere perfettamente e intensamente onesto nell’anima, senza affatto cessare di essere un mascalzone. Ripeto dai nostri romantici vengono fuori a volte uno dopo l’altro dei tali faccendieri manigoldi (questa parola la uso con simpatia), capaci di ostentare improvvisamente un tale fiuto della realtà e una tale conoscenza di ciò che è positivo, da lasciare impietriti per lo stupore e a bocca aperta i loro capi e la gente.
Una poliedricità davvero sorprendente e Dio sa a che cosa si dirige e quali aspetti assume secondo le varie circostanze e che cosa ci riserva per il nostro futuro. Un materiale niente male. Non è per una sorta di patriottismo ridicolo o rozzo che lo dico. Del resto sono sicuro che voi pensate ancora che io scherzi. Ma chi lo sa, forse è anche il contrario, forse credete che io la pensi davvero così. In ogni caso, signori, io considererò entrambe le vostre opinioni un onore e un particolare privilegio. Ma perdonatemi questa digressione.
Con i miei colleghi naturalmente non ho conservato l’amicizia e ho cominciato molto presto a fregarmene e così, sinché per l’inesperienza giovanile d’allora, ho smesso perfino di salutarli, e ho rotto del tutto i rapporti. Questo, del resto, m’è successo in realtà una volta sola. In generale me ne stavo sempre per conto mio.
A casa principalmente leggevo. Avevo bisogno di soffocare con sensazioni esterne tutto quello che mi s’era accumulato dentro. Ma l’unica distrazione possibile era per me la lettura. La lettura certo mi era di grande aiuto, mi emozionava, mi deliziava, mi tormentava. Ma ogni tanto mi veniva a noia. Così mi veniva voglia di muovermi, e improvvisamente mi sprofondavo in una vita oscura, sotterranea, schifosa, neanche poi di vera depravazione, ma di mediocre depravazione. Le piccole passioni in me erano sempre acute, roventi a causa della mia congenita, morbosa sensibilità. Mi venivano degli attacchi isterici con lacrime e convulsioni. Tranne la lettura, non avevo altro da fare; non c’era niente che potessi apprezzare di ciò che mi circondava, niente da cui fossi attratto. Soprattutto m’invadeva l’angoscia: mi assaliva una voglia isterica di contraddizioni, di contrasto e allora mi abbandonavo a una vita depravata. Ma non è per giustificarmi che dico queste cose... Anzi, no; ho mentito. In realtà volevo proprio giustificarmi. Questo appunto lo faccio per me stesso, signori. Non voglio mentire. Mi sono impegnato.
Le mie depravazioni le commettevo in solitudine, la notte, di nascosto, tremebondo e osceno, con un senso di vergogna che non m’abbandonava neppure nei momenti più degradanti, anzi, che raggiungeva in quei momenti il parossismo fino alla maledizione. Temevo orribilmente che un momento o l’altro qualcuno mi vedesse, m’incontrasse, mi riconoscesse. Fin d’allora mi portavo nell’anima il mio sottosuolo. Me ne andavo qua e là nei luoghi più bui.
Una volta, passando di notte accanto a una bettola, vidi attraverso una finestra illuminata dei signori che, accanto a un biliardo, si malmenavano con le stecche, e uno lo buttarono fuori dalla finestra. In un altro momento mi sarebbe sembrata una cosa infame, ma in quel momento m’è venuto un moto d’invidia per quella persona gettata fuori, una tale invidia che entrai nella bettola, nella sala da biliardo: “Dai, entro anch’io nella zuffa e sbatteranno fuori dalla finestra anche me”.
Non ero ubriaco, ma cosa volete farci, con un isterismo simile puoi farti divorare dall’angoscia. Ma non accadde niente. Evidentemente non ero neanche adatto a volare dalla finestra, e sono uscito senza azzuffarmi con nessuno.
Non ero neanche entrato che un ufficiale mi ha fatto indietreggiare immediatamente.
Mi ero fermato accanto al biliardo e distrattamente gli ostacolavo il passaggio: mi ha afferrato per le spalle e, in silenzio, senza fiatare e senza spiegazioni, mi ha scostato da un punto all’altro, ed è passato come doveva, del tutto indifferente. Se mi avesse pestato avrei potuto anche perdonare, ma non potevo in alcun modo digerire che m’avesse spostato senza neppure accorgersi di me. Lo sa il diavolo cosa avrei dato allora per uno scontro più giusto, più elegante, più, come dire, letterario. Mi aveva trattato come se fossi una mosca. Sarà stato alto, quell’ufficiale, più di un metro e ottanta, io ero piuttosto basso e fragile. La lite, d’altronde, dipendeva da me: bastava che protestassi e m’avrebbero certamente buttato fuori dalla finestra. Ma io ci ho riflettuto e... ho preferito contenere la mia ira.
Uscii dall’osteria cupo e agitato per filare dritto a casa, e il giorno dopo continuai a commettere le mie piccole turpitudini, ancora più timidamente, in modo più avvilente e triste, quasi con le lacrime agli occhi. E tuttavia continuai. Non pensa...

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