Il monaco inglese
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Il monaco inglese

Valeria Montaldi

  1. 464 pages
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Il monaco inglese

Valeria Montaldi

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Milano nel 1246 è un dedalo di vicoli polverosi, percorsi da personaggi che nascondono segreti e intrighi. I ruderi fuori le mura sono in mano ai briganti, e al bosco del Quadronno sono stati ingaggiati dei lupari per tenere lontane dall'abitato le bestie feroci. In questa città, lacerata dal conflitto contro Federico II di Svevia, frate Matthew da St Albans si ritrova alle prese con il brutto affare in cui è coinvolto l'amico Arnolfo, abate di San Simpliciano, minacciato dai raggiri di Birago, un mercante senza scrupoli. Nell'aiutare Arnolfo, frate Matthew rischia la vita, ma trova l'amore che non pensava di poter provare. Un racconto avvincente che ricostruisce la Milano di età comunale, unendo alle atmosfere evocative una documentazione storica impeccabile.

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Information

Publisher
BUR
Year
2013
ISBN
9788858642429

VALERIA MONTALDI

Il monaco inglese











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Proprietà letteraria riservata
© 2006 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-64242-9



Prima edizione digitale 2013 da terza edizione Bur dicembre 2012




Copertina:
In copertina: illustrazione © Luca Tarlazzi
Art Director: Francesca Leoneschi
Graphic Designer: Giovanna Ferraris / theWorldofDOT
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Dedica

A Elisabetta
Le vrai est un moment du faux

Il vero è un momento del falso

(Guy Debord)

PROLOGO

Como, 1228

Gli occhi della bambina erano chiusi. Dall’angolo della bocca un rivolo di latte colava lungo il mento. La testolina, abbandonata contro il seno scoperto della madre, ciondolava al ritmo del respiro. Con delicatezza, la giovane strinse fra le braccia sua figlia e, dopo averle deterso il viso con una pezzuola pulita, la depose nella culla. La piccola si lamentò nel sonno, serrando i minuscoli pugni: una ruga di disappunto comparve per un attimo sulla sua fronte.
Mentre con una mano richiudeva i lembi della camiciola sui seni ancora gonfi di latte, la ragazza appoggiò l’altra sul bordo della culla e cominciò a spingerla avanti e indietro. I ganci che ne reggevano le funi cigolarono: nonostante quel rumore fastidioso, la bambina non si svegliò.
La giovane si voltò verso il pagliericcio. La sacca giaceva aperta sul pavimento di assi: dal fagotto delle sue poche cose mancava soltanto il guarnello, appeso ad asciugare sulla stanga. Deglutendo a forza nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime, si avvicinò alla sbarra di legno e lo staccò: era ancora umido. Dopo averlo disteso sul giaciglio, lo ripiegò con cura e lo sistemò nella sacca. Poi, allungando un braccio sotto il saccone di paglia, tastò fino a che le sue dita non incontrarono un involto di stoffa: lo estrasse e ne sciolse le cocche che lo tenevano annodato. Al centro della tela sgualcita comparve un piccolo anello d’argento: il castone conteneva una pietra azzurra che il tempo aveva reso slavata.
Soffocando un singhiozzo, richiuse i lembi del tessuto, stringendo il minuscolo fagotto fino a farsi dolere le dita: poi lo spinse in fondo alla bisaccia che teneva legata alla cintura. Mentre un affanno crescente le soffocava il petto, tornò alla culla. La piccola continuava a dormire: una bolla di saliva lattiginosa si gonfiava e sgonfiava sulle sue labbra. Facendo piano per non svegliarla, le sfiorò il capo con una mano: i pugni della bambina si aprirono. Dal bordo della culla, dove l’aveva lasciata, sollevò la pezzuola di lino con cui le aveva ripulito la bocca, la ripiegò e la infilò nella bisaccia.
Sulle sue dita rimase un intenso odore di latte. Incapace di reggere oltre lo strazio di quel distacco, la giovane donna si voltò in fretta e, raccolta la sacca dal pagliericcio, uscì dalla soffitta.

«Mi hai capito bene?»
La voce della padrona le arrivò smorzata alle orecchie. Da quando aveva lasciato il sottotetto, un rumore continuo, simile al frinire delle cicale, ronzava nella sua testa. In piedi accanto al focolare della grande cucina, la giovane fissava la donna che aveva di fronte. Tentò di rispondere, ma un tremito involontario cominciò a scuoterla, impedendole di articolare parola. Annuì.
Poma la guardò, con disprezzo. La rabbia verso di lei e verso l’ottuso comportamento di suo marito si era ormai attenuata, sostituita da una calma fredda che le aveva consentito di prendere quella decisione che, ne era certa, sarebbe stata la migliore per tutti. Osservando l’oggetto dell’insano desiderio di Birago, considerò quanto nemmeno la recente gravidanza avesse appannato la bellezza della ragazza. Nonostante l’ovale si fosse fatto più tondo e la figura si fosse lievemente appesantita, la pelle del viso restava chiara e compatta come seta, mentre dalla massa di capelli neri raccolti in una crocchia disordinata sulla nuca sfuggivano riccioli lunghi e ribelli che ombreggiavano la fronte e il collo. Anche gli occhi, sebbene ora fossero arrossati dal pianto, conservavano la loro originaria lucentezza e quell’intenso colore turchino che non aveva mai visto in nessun’altra donna.
Per un lunghissimo istante rimase in silenzio. Poi, voltandosi verso il focolare spento, ricominciò a parlare.
«I muli sono già pronti. Lo stalliere ti accompagnerà fino a Milano, dove domani prenderai servizio dal capomastro Raimondo da Bovara: sua moglie è morta dando alla luce il primo figlio e il bambino ha bisogno di una balia. Vedi, dunque, fino a dove sia giunta la generosità di Birago: nonostante il disastro che hai provocato in questa casa, mio marito ha deciso di perdonarti, offrendoti un’altra possibilità. Ma bada a te, ragazza» aggiunse severa, girandosi di nuovo verso di lei, «questa è la tua ultima occasione. Se non saprai sfruttarla a dovere, il resto dei tuoi giorni trascorrerà fra vicoli e terraggi, a mendicare un tozzo di pane o a vendere il corpo alla soldataglia di passaggio...»
Senza più riuscire a controllare le lacrime che premevano dietro le palpebre, la giovane cominciò a piangere.
«Per quanto riguarda la bambina» continuò Poma, distogliendo lo sguardo dal suo volto, «da oggi non è più figlia tua. Per tutti, sarò io ad averla partorita e nessuno saprà mai come sono andate le cose: la discrezione della balia e della servitù saranno ben pagate. Mettiti in mente queste parole: mai, e dico mai, dovrai tornare a cercarla. Sappi che se lo farai, segnerai la tua rovina, non la nostra: la parola di Birago Biraghi pesa quanto un sacco di monete d’argento, quella di una serva vale un pugno di cenere. E ora vattene, non voglio più vedere la tua faccia in questa casa.»
I lunghi passi con cui raggiunse la porta fecero ondeggiare la sua veste di seta. Spalancò il battente e, senza più proferire parola, rimase immobile, in attesa. Dopo un attimo di esitazione, la ragazza varcò la soglia e, a capo chino, salì i ripidi gradini che conducevano all’esterno del palazzo. Fuori, la luce del mattino le ferì gli occhi: l’acqua limpida del lago lambiva lenta i sassi della riva. Davanti al portico, lo stalliere la stava aspettando.

1

Castello di Graines, 1246

Le pedine erano allineate ai due lati della scacchiera. In mezzo, i riquadri contrastanti brillavano alla luce ondeggiante delle torce infisse nelle pareti.
La sala era deserta.
Dall’esterno, penetrando attraverso la profonda strombatura delle feritoie, arrivavano nella sala le voci concitate dei soldati di guardia, il pianto di qualche bambino e il nitrito dei cavalli nelle scuderie.
Pensando che per molti mesi non avrebbe più ascoltato quei suoni familiari e rassicuranti, Rachele si avviò verso la lunga scala di legno che, dal fondo della sala, conduceva agli ambienti soprastanti.
Aprì la porta della sua stanza: all’interno, il grande letto di larice era nascosto dalle cortine di cuoio istoriato che lo circondavano da tre lati. Addossato a una parete, il forziere che conteneva il suo guardaroba era aperto e lasciava intravedere i colori accesi delle vesti di seta. Si avvicinò al giaciglio e, dopo aver scostato una delle pesanti tende, si sedette: non riusciva ancora, dopo tutto quel tempo trascorso al castello, ad abituarsi a quel morbido, silenzioso affondare fra le piume del saccone. Per molti anni il suo corpo era stato accolto da strati di paglia dura e scricchiolante, malamente racchiusi in ruvide pezze di canapa, e il ricordo di quel contatto sgradito la tormentava ancora.
Lentamente, si sciolse il nodo sulla nuca. I capelli neri, liberati dal pettine d’argento che li tratteneva, ricaddero sulle spalle e sulla schiena. Si prese la testa fra le mani e socchiuse gli occhi. Chissà se stava per compiere la scelta giusta? Sarebbe riuscita a mantenere fino in fondo la decisione che aveva preso? Avrebbe trovato comprensione da parte di coloro che avrebbero dovuto assisterla nel lungo cammino che stava per intraprendere? Sollevò il capo, lasciando ricadere le mani in grembo: i suoi occhi si riaprirono e corsero al grande volume posato sul tavolo. Il tomo era aperto a metà e le fettucce di cuoio della legatura pendevano dai bordi. Senza abbandonarlo con lo sguardo, Rachele si alzò e, sedendosi sul panchetto, sfiorò la pergamena con la punta delle dita. No, sarebbe stato assurdo esitare, la sua vita era lì, fra quelle pagine: avrebbe dovuto apprendere tutta la sapienza racchiusa in quelle righe di scrittura e, se glielo avessero consentito, altre cose ancora della professione medica. Lo aveva promesso a suo padre e ne aveva parlato spesso anche con Aimone per ottenere da lui il consenso necessario: non aveva potuto diventare sua moglie, ma la gratitudine che gli doveva per averle salvato la vita le imponeva di sottomettersi alla sua volontà. Quando, tre anni prima, lo aveva seguito titubante al castello, la sua era stata una decisione dettata dalla disperazione, dalla consapevolezza di aver perduto tutto. Ora, invece, dopo aver condiviso con lui i giorni e le notti e aver constatato quanto grande fosse il rispetto di Aimone nei suoi confronti, l’inspiegabile attrazione iniziale che l’aveva spinta ad accettare la sua offerta di asilo era diventata amore. Non appena il castellano lo aveva capito, le aveva proposto di sposarlo, pur sapendo che la sua appartenenza alla fede ebraica avrebbe reso difficile la realizzazione di quel matrimonio. Aveva chiesto udienza al vescovo di Augusta per invocare il suo appoggio in vista di una dispensa papale, ma non aveva ottenuto nulla: il presule gli aveva risposto che i tempi non erano ancora maturi e che avrebbe dovuto aspettare. Nel frattempo, aveva aggiunto severo, quella donna giudea avrebbe dovuto essere trattata soltanto come un’ospite al castello e non come una concubina: la Chiesa e lo stesso visconte non avrebbero tollerato scandali.
Sebbene deluso e amareggiato, il castellano non aveva mutato comportamento nei suoi confronti: pur mettendo a repentaglio il suo feudo, aveva continuato a condividere le sue giornate con lei, in attesa di poter regolarizzare la loro unione.
Fino a una settimana prima.
Un mattino, un armigero aveva recato a Graines una lettera da parte di Bosone di Challant. Con quell’uomo, fratello del visconte Gotofredo, Aimone aveva già avuto più di un contrasto e l’arrivo inaspettato di una sua missiva non prometteva nulla di buono. Rachele ricordava come, pochi minuti dopo averla letta, fosse salito nella sua stanza senza farsi annunciare. Allo stupore per quella visita inaspettata si era subito sostituita la preoccupazione: Aimone era pallidissimo e le sue mani tremavano mentre le porgeva il rotolo di pergamena.
Aveva cominciato a leggere. A mano a mano che la sua mente coglieva il significato di quelle parole elegantemente vergate da un dotto scrivano, l’inquietudine iniziale era diventata paura. Con tono intimidatorio, Bosone metteva in guardia Aimone dal compiere un passo che, scriveva, seppur frutto di una scelta personale, avrebbe pregiudicato la sua futura permanenza a Graines come reggente del castello. Se, come i suoi informatori gli avevano segretamente riferito, un giorno Aimone avesse messo in atto il progetto di regolarizzare la sua unione con la giudea Rachele ben David, né lui stesso né il fratello Gotofredo avrebbero potuto garantire sulla prosecuzione di rapporti benevoli con il piccolo feudo di Graines. Quanto al matrimonio, aggiungeva, esso sarebbe stato oltremodo bizzarro, considerando la fede religiosa della donna. L’inusitata richiesta di una dispensa papale sarebbe stata del tutto inaccettabile da parte della Chiesa e il visconte, per parte sua, non l’avrebbe mai appoggiata presso il pontefice: se Aimone avesse sentito l’esigenza di trastullarsi con una donna durante le sue ore di ozio, ebbene, che ne scegliesse una di fede cristiana. La minaccia contenuta nella lettera era chiarissima: se il castellano l’avesse sposata, gli Challant lo avrebbero privato del feudo.
Il dolore e l’umiliazione l’avevano annientata: aveva sollevato lo sguardo e aveva incontrato quello del suo amante. Lo aveva fissato impietrita: sul volto di Aimone l’unico movimento percettibile era il guizzo involontario di un muscolo all’angolo degli occhi. Le labbra erano serrate.
Aveva distolto lo sguardo e lo aveva lasciato vagare sulla minuscola feritoia ricavata nella parete di pietra: incessanti, miriadi di granelli di polvere turbinavano contro la luce. Si era appoggiata alla porta e aveva gettato lontano la pergamena; poi, lasciandosi scivolare sul pavimento, si era raggomitolata su se stessa e aveva cominciato a piangere. Aimone le si era avvicinato in silenzio: dopo un tempo che le era parso lunghissimo, si era inginocchiato davanti a lei e le aveva preso le mani, accarezzandole e baciandole come quella prima volta in cui le aveva timidamente dichiarato il proprio amore. Il suo corpo forte era scosso da un tremito che non se ne andava. Erano rimasti così, incuranti delle ore che passavano, fino a quando dai camminamenti delle mura le voci dei soldati di guardia avevano annunciato la chiusura del ponte levatoio.
Quella notte avevano vegliato insieme, in quella stessa stanza che ora stava per lasciare. Avevano taciuto a lungo, ognuno perso nei propri pensieri: alla fine, mentre il primo chiarore dell’alba si insinuava nella feritoia, Rachele aveva parlato.
Se ne sarebbe andata.
Non poteva permettere, aveva detto con lo strazio nella voce, che il possesso del feudo da parte di Aimone fosse messo a repentaglio dalla sua presenza al castello. Sarebbe tornata a Milano nella stamberga che aveva condiviso con suo padre e di lì, quando se ne fosse presentata l’occasione, sarebbe partita per Venezia dove sapeva che esercitavano e tenevano scuola alcuni fra i migliori medici ebrei, arabi e cristiani. Se qualcuno di loro l’avesse accettata come studente, si sarebbe fermata in quella città e, nel corso degli anni, avrebbe studiato la loro arte, nell’intento di ottenere la licenza e, in seguito, l’iscrizione al collegio professionale.
Aimone era rimasto in silenzio. L’aveva guardata per qualche istante, poi, sollevandosi di scatto dal giaciglio, era uscito dalla stanza. Lentamente, si era alzata anche lei e, con il petto stretto in una morsa, aveva continuato ad aggirarsi fra quelle quattro mura senza nemmeno riuscire a piangere.
Era tornato soltanto ai vespri. Con voce fredda e una strana luce negli occhi, le aveva detto di aver accettato la sua decisione. Aveva aggiunto che, proprio in quei giorni, il mercante Otto Biener, di Canton des Allemands, stava per partire per Venezia, dove aveva in mente di allestire un fondaco per le sue lane pregiate. Gli aveva appena parlato e gli aveva chiesto se fosse disponibile a ospitarla nella sua comitiva, per scortarla fino a quella città lontana. Otto aveva accolto la proposta con entusiasmo: una volta giunti a destinazione, aveva assicurato, le avrebbe anche cercato una sistemazione decorosa, il più vicino possibile alla sede della scuola.
Aimone aveva concluso dicendo che la partenza era già stata fissata di lì a una settimana e che il bagaglio per un viaggio tanto lungo andava preparato per tempo.
A quelle sue ultime parole, Rachele non era più riuscita a controllarsi ed era scoppiata in un pianto dirotto. Coprendosi gli occhi con le mani come una bambina, si era gettata sul giaciglio e aveva affondato il volto nel guanciale, per soffocare il suono dei singhiozzi. Era rimasta lì, senza vedere né udire nulla, fino a quando quei sussulti violenti erano cessati. Allora, sollevandosi su un gomito, si era voltata: Aimone era lì, in piedi, e fissava le assi di larice del pavimento.
La maschera di indifferenza, tenacemente indossata fino a poco prima, era scomparsa dal suo viso. Dall’angolo delle palpebre, grosse lacrime scivolavano silenziose fra la barba ingrigita; la bocca era socchiusa e tremava. Rachele lo aveva guardato a lungo, smarrita. Poi, esitante, si era alzata dal giaciglio e gli si era avvicinata, tendendogli le braccia. Aimone aveva aperto le sue e l’aveva accolta contro di sé: erano rimasti abbracciati fino a che lui non l’aveva risospinta verso il saccone dove si erano lasciati entrambi ricadere. Avevano fatto l’amore con furia e disperazione, come non era mai accaduto prima. Quando, esausti, si erano ricoperti con la spessa coltre di lana inglese, la torcia infissa nel muro non dava più luce: la resina si era consumata del tutto.
Al buio, Aimone le aveva parlato ancora e questa volta non aveva tentato di fingere: con tono accorato, le aveva detto che non sapeva se sarebbe riuscito a sopportare quella separazione, ma che, d’altra parte, quella che lei aveva avuto il coraggio di prendere, era stata la decisione giusta. Per lei stessa, che avrebbe potuto finalmente coronare il suo sogno di diventare medico, e anche per lui, che durante la sua lunga assenza avrebbe tentato di trovare una soluzione. «Mi recherò ad Augusta e mi farò ricevere dal visconte» le aveva detto. «Poi, se sarà necessario, andrò fino a Roma e chiederò la dispensa papale per poterti sposare. Se non l’otterrò, mi rimetterò alle decisioni di Gotofredo: in fondo, mio figlio Bartolomeo ha già l’età giusta per succedermi nella guida del feudo e nessuno, nemmeno gli Challant, potrà privarlo della sua legittima successione. A quel punto, il feudo non mi apparterrà più e io sarò libero di governare la mia vita come meglio credo, senza dover sottostare a ricatti e giudizi malevoli. Ho promesso a tuo padre che mi sarei preso cura di te e per nessuna ragione al mondo intendo tradire la sua fiducia, così come non intendo tradire la tua. Quando hai rifiutato di abiurare alla tua fede per seguirmi, eravamo entrambi consapevoli che questo avrebbe causato difficoltà e dolore. Spero soltanto che il distacco che ci attende non faccia mutare il tuo amore per me: quanti altri uomini incontrerai lungo il cammino? Quanti di loro ti cercheranno, lusingandoti con il denaro o con il potere o, semplicemente, innamorandosi di te? Non posso perderti, Rachele, lo sai....

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Montaldi, V. (2013). Il monaco inglese ([edition unavailable]). RIZZOLI LIBRI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3304596/il-monaco-inglese-pdf (Original work published 2013)

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Montaldi, Valeria. (2013) 2013. Il Monaco Inglese. [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3304596/il-monaco-inglese-pdf.

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Montaldi, V. (2013) Il monaco inglese. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3304596/il-monaco-inglese-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Montaldi, Valeria. Il Monaco Inglese. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2013. Web. 15 Oct. 2022.