La sarta di Parigi
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La sarta di Parigi

Georgia Kaufmann

  1. 420 pages
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La sarta di Parigi

Georgia Kaufmann

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New York, 1991. Rosa Kusstatscher ha costruito un impero della moda sul suo gusto squisito e la capacità di indovinare l'abito perfetto per ogni occasione. Ma stasera, mentre si prepara per l'incontro più importante della sua vita, l'usuale sicurezza vacilla. Si sforza di trovare il vestito adatto e scegliere la giusta tonalità di rossetto e, nel farlo, inizia a raccontare la sua vicenda straordinaria. La storia di una povera ragazza di montagna, originaria di un piccolo villaggio del Sud Tirolo. Dell'occupazione nazista e della fuga dall'Italia di notte. Della speranza e del dolore straziante in Svizzera; del glamour e dell'amore a Parigi; dell'ambizione e della perdita a Rio de Janeiro; del successo e della scoperta di sé a New York. Una vita passata a correre, solo adesso Rosa se ne rende conto. È una donna che ha conquistato il mondo. Ma a quale prezzo?

In parte ispirato alle vicende della madre e della nonna dell'autrice, La sarta di Parigi è un avvincente romanzo storico che racconta la vita avventurosa di una donna forte e affascinante e che, tra eventi epocali, amori e protagonisti indimenticabili, accompagna il lettore attraverso i continenti e cinquant'anni di storia del Novecento.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2021
ISBN
9788835706915
1

Pietra

1991

Si è già fatta quest’ora, ma chère? Arriverò in ritardo. Stavolta sono davvero a terra. No, non è per via del tempo – New York a novembre non è mai stimolante, neppure nel migliore dei casi. E neanche perché le collezioni invernali di quest’anno sono così squadrate e scialbe. È che non riesco a pensare a qualcosa di appropriato da mettermi. Non guardarmi con quell’aria così sorpresa. Sarei perfettamente in grado di scegliere che cosa indossare per una cena alla Casa Bianca o una sfilata di moda o la riunione di un consiglio di amministrazione, ma queste occasioni impallidiscono in confronto all’importanza di ciò che mi aspetta stasera.
Ti prego, rimani, ma chère. Mi aiuterà a calmarmi, tanto più che questo incontro avrà una ricaduta anche su di te. Può cambiare le nostre vite. Ma ci sono alcune cose che devo mettere a posto, prima. Lascia stare quelle carte, per favore. È il mio testamento, lo stavo controllando. Ho soltanto sessantatré anni – non è nei miei piani morire nei prossimi cinque! – ma, come sai, mi piace essere preparata. Come ho detto, questo appuntamento è importante.
Conosci la storia di questa casa, vero? L’unica cosa che abbiamo deciso di non cambiare quando abbiamo riorganizzato gli spazi è stato il bagno. Non ho mai incontrato un imprenditore che non badasse al centesimo. Spendere e spandere non rientra nelle abitudini di coloro che si sono costruiti una fortuna con le proprie forze. Qualsiasi scelta io faccia è incentrata sullo stile, naturalmente, ma ancora di più sulla capacità di capire la struttura, i materiali, la funzione. Quando si disegna un abito o una stanza, o qualsiasi cosa in realtà, il materiale è di primaria importanza. L’abilità sta nel capire innanzitutto il tessuto e i materiali, conoscerne i punti di forza e di debolezza. Sono le scelte che ho fatto in questo bagno a creare l’atmosfera.
Sai che cos’è questo? Marmo. Tutta la stanza è rivestita di marmo. Naturalmente si tratta di marmo italiano, non solo perché le mie origini sono quelle, ma perché i marmi indiani sono porosi e così difficili da far brillare che, nonostante la loro impareggiabile bellezza, non sono pratici in una sala da bagno. Un buon design produce bellezza se il materiale è adatto all’impiego. Questo marmo è bellissimo e impermeabile; vedi come sembra prendere vita con queste venature di rosa, rosso, grigio e bianco che si rincorrono e si sovrappongono? È stato laborioso scovare una varietà di Arabescato Orobico Rosso di un rosa così delicato. Non so dirti quante lastre ho esaminato in tante cave diverse per trovare una tonalità così tenue. Poi per nulla al mondo avrei rischiato di rovinare questa meraviglia trasferendola al piano superiore, perciò è rimasta qui dov’era. È diverso dal bagno padronale che abbiamo di sopra; per quello ho pensato a qualcosa di sobrio e signorile. L’intento era quello di dimostrare che Mr James Mitchell non era un volgare e appariscente parvenu, ma una persona di classe. Scegliere il marmo di Carrara era fuori discussione. Tutto quel bianco in una stanza? No, sarebbe stato come acquistare un capo di alta moda più per l’etichetta che per il taglio, il modello e il tessuto. Come fa la gente con tanti soldi ma priva di gusto.
Sto divagando. Sono così agitata che mi sta venendo la nausea. Dunque. Cosa stavo dicendo? Ah sì, ora ricordo: Breccia Oniciata, ecco la varietà che ho scelto per il bagno al piano di sopra. È un elegante marmo beige screziato di intrusioni e striature bianche, rosa e lilla. Così come bisogna scegliere il materiale giusto per una piastrella e il tessuto giusto per un abito, è necessario selezionare il look adatto per un appuntamento. Se sto per recarmi a un incontro d’affari, devo considerare in che misura desidero lasciare il segno, quanto intendo sedurre. Se ho intenzione di fare colpo con il mio fiuto e il mio potere imprenditoriale, questo avverrà nel momento stesso in cui entrerò dalla porta indossando un capo Dior o Yves Saint-Laurent. Se voglio mettere in luce la mia creatività, il mio talento artistico e le mie capacità come stilista, sceglierò un abito Dumarais. Oppure, se voglio ammaliare qualcuno facendolo sentire a proprio agio con la mia femminilità per poi sfoderare la mia abilità professionale, mi presenterò con una creazione Chanel. Posso ottenere l’effetto desiderato nel tempo che mi occorre per entrare in una sala e attraversarla. Ma non stasera.
Tutto questo è ridicolo, ma chère. Mi hai mai visto titubante al momento di scegliere che cosa indossare? Non ho mai ritenuto il mio guardaroba eccessivo prima d’ora. Il problema è che sono troppo impaurita e agitata, devo fare una buona impressione, ma non so da dove iniziare. Di solito inizio con il tessuto, ma chère, sempre il tessuto. L’ho imparato fin dalla prima volta in cui ho creato un modello. Lo stesso modello, realizzato in lana, seta o cotone, oppure la stessa stoffa, tagliata di sbieco o a drittofilo, ti porta a un risultato diverso ogni volta. La stoffa funziona a un livello subliminale. Il cotone significa estate, e l’estate significa relax. Il lino ha caratteristiche simili, ma è più raffinato e ci vuole una buona dose di sicurezza in se stessi per non badare alle sgualciture. La lana evoca l’inverno, il tepore e la protezione dal freddo. La seta è adatta a tutte le stagioni e richiama sempre una sensazione di opulenza e di lusso. Quanto al nylon e al poliestere… be’, il nylon ha un ruolo determinante quando si tratta di calze, ma sarebbe meglio che rimanesse sempre nascosto.
Me ne sono andata di casa – una casa in cui, tra l’altro, non esisteva una doccia e ci si lavava soltanto una volta alla settimana, la domenica prima di andare in chiesa – con nulla se non la proverbiale valigia sgangherata contenente quattro straccetti e un po’ di biancheria intima. Da allora, contando solo sul duro lavoro e su un talento naturale, ho creato tutto questo. Così ogni giorno, ogni singolo giorno, entro in bagno e mi domando: «Che immagine devo dare di me oggi? Chi devo incontrare? Che cosa intendo ottenere?». Inizio con il trucco e i capelli, poi mi vesto, e quando ho perfezionato il look sono pronta per uscire e presentarmi al meglio delle mie possibilità. Non lascio nulla al caso. Sarei stata un’ottima giovane esploratrice scout.
Sono una donna fortunata: la mia conformazione naturale e le lezioni di portamento prese da Dior hanno fatto sì che io stia bene praticamente con qualsiasi tipo di abbigliamento. Non c’è niente da fare: sono elegante anche con un paio di jeans e una T-shirt. Se hai stile, si vede, indipendentemente da quello che indossi. Ma stasera? Non ho idea di cosa sarebbe appropriato, di cosa andrebbe bene per l’occasione. Non lo so proprio.
È arrivato il momento di raccontarti una storia. Una lunga storia. La mia storia. Solo allora saprò che cosa indossare, come prepararmi all’incontro. E tu potrai essermi d’aiuto.
Tutto ebbe inizio da mia madre, naturalmente; tutto inizia sempre con i propri genitori. Mi ci è voluto parecchio tempo per capire che le persone, nonostante le buone intenzioni, possono commettere degli errori, e che spesso sono proprio le conseguenze involontarie delle loro azioni a lasciare i segni più profondi su un bambino.
Non è solo una leggenda: avevamo davvero molto poco quando ero piccola. Negli anni Trenta l’Italia era un Paese povero e lassù in montagna di soldi ne circolavano pochi. La popolazione era per lo più costituita da contadini che lavoravano duramente per garantire il sostentamento alla propria famiglia. Le vacanze trascorse fra piste da sci e camminate dovevano ancora arrivare. Non c’era nemmeno un negozio di giocattoli a Bressen, la città di mercato situata nella grande vallata che portava a Merano e Bolzano, i centri principali del Sud Tirolo. Ce n’era soltanto una piccola selezione in fondo al negozio di abbigliamento. A Oberfals, gli unici giocattoli che avevamo erano quelli di legno che i contadini intagliavano nelle lunghe sere d’inverno.
Quando avevo otto anni, mia madre, per Natale, mi regalò una bambola di legno dipinta. Era rozza e non aveva vestiti, ma nella mia mente di bambina la trovavo bellissima. Ci giocavo continuamente. L’avevo chiamata Elisabeth, come la principessina inglese il cui padre era appena diventato re. Sapevo già cucire e lavorare a maglia. Imparavamo presto, non per il piacere di farlo, ma come un’abilità pratica e necessaria. Così raccoglievo scampoli di vecchi tovaglioli, strofinacci e pezzi di stoffa e, quando mia madre non aveva bisogno di me nella Gasthaus, passavo le sere a cucire un guardaroba completo per la mia bambola principessa, un punto dopo l’altro. È difficile ora giudicare il risultato della mia prima incursione nel mondo della sartoria, ma all’epoca ero soddisfatta del mio lavoro. Per lei cucii un abito con un corpino di pizzo ricavato da un vecchio centrino, e delle mutandine e una canottiera di cotone bianco. Preparai dei calzini fatti a maglia che non ne volevano sapere di stare su, e anche un cardigan. Quando attraverso il “Dolomiten”, il quotidiano regionale, filtrò la notizia dell’imminente incoronazione di re Giorgio VI, il padre della principessa, tagliai la sciarpa, quella blu scuro con i fiorellini gialli che si abbinava con il mio costume tradizionale tirolese, e ne ricavai un lungo abito da cerimonia con lo strascico che feci indossare alla mia bambola per quell’occasione così speciale.
All’inizio la tenevo sempre in casa, ma poi, pian piano, cominciai a portarla fuori con me, prima in chiesa e poi a scuola, nella cartella. Ci entrava appena – la punta dei piedini spuntava da un angolo – ma ero convinta che anche una futura regina avesse bisogno di un po’ di istruzione. La settimana dopo l’incoronazione di Giorgio VI, a maggio, mostrai alla mia amica Ingrid Stimpfl come la principessa Elisabeth aveva seguito il corteo reale dietro suo padre. Ci stavamo chiedendo come creare una bordura di pelliccia per l’abito: la settimana prima il papà di Ingrid aveva portato a casa un coniglio da cucinare e secondo lei la pelliccia dell’animale avrebbe potuto fungere da ermellino. Ingrid stava chiacchierando tranquilla mentre io lisciavo la coda dell’abito quando d’un tratto si interruppe a metà frase, lo sguardo fisso oltre le mie spalle e un’espressione rabbuiata sul viso. Mi voltai.
Rudi Ramoser si era insinuato dietro di me. Benché avesse solo tredici anni, era alto e ben piantato, con i muscoli di un montanaro. Era un bel tipo, biondo con gli occhi azzurri e un atteggiamento spavaldo rafforzato dal fatto che suo padre era l’uomo più facoltoso della città nonché cognato del sindaco, Herr Gruber.
«Du, Gitsch!» mi apostrofò Rudi. «Con cosa stai giocando?» chiese beffardo facendo un passo avanti.
«Con la mia bambola» gli risposi guardandolo dritto in faccia, tenendogli testa. Ero abituata ai prepotenti.
«Quella sarebbe una bambola?» mi schernì, e si guardò intorno per vedere se qualcuno ci stava osservando. «Un pezzo di legno, semmai.»
Rudi era più grande di me e non voleva certo la mia bambola, voleva solo punzecchiarmi. Avevo visto quello sguardo negli occhi di mio padre quando era ubriaco. Avevo imparato a starne alla larga. «È mia» dissi facendo un passo indietro. «Non ho paura, sei soltanto un Raudi
«È la principessa Elisabeth» intervenne la mia amica. Ingrid Stimpfl era una ragazzina tenera, ma non troppo sveglia.
«La principessa Elisabeth.» Rudi allungò la mano per prenderla, ma io la tenni stretta al petto. «Fammi vedere» insistette con un ghigno mentre le sue dita torcevano le mie una a una per poi schiacciarle tutte insieme nella sua stretta.
Quando mi ebbe strappato la bambola dalle mani, mi voltò le spalle e si allontanò. «Domani ti farò sapere cosa devi fare se la rivuoi indietro.»
Ingrid si mise a frignare. Io avevo le mani striate di rosso e bianco per quanta forza Rudi aveva usato per aprirle e strapparmi Elisabeth. Mi morsi il labbro. Quel bullo non mi avrebbe fatto piangere.
I miei genitori non avevano molto tempo da dedicarci. Mia madre gestiva la Gasthaus Falsspitze, l’unico bar-ristorante di Oberfals. Lavorava davvero sodo (suppongo sia una cosa buona che mi ha trasmesso). Mio padre, invece, era tanto dissoluto quanto lei era operosa e tollerante. Quando il bar era aperto, mia madre era affaccendata ma disponibile, però tutti sapevamo che non dovevamo interromperla mentre era impegnata in cucina. Sembrava completamente assorta nel ripetitivo rituale che la vedeva tritare, grattugiare e rimestare. C’era un ritmo meditativo nei suoi movimenti che mi piaceva stare a osservare.
Quando corsi in cucina quel pomeriggio, trafelata e confusa, stava preparando i canederli. Tutto il pane raffermo del giorno prima era ammonticchiato davanti a lei e un grande coltello brillava nella sua mano mentre lo tagliava a pezzettini per preparare l’impasto. Era talmente metodica che si poteva quasi stabilire che ora fosse in base allo stadio di preparazione in cui si trovava al momento. Dovevano essere appena passate le tre.
«Mamma.» Cercavo di farmi sentire con voce incerta. Ricordo che ero combattuta fra l’ansia di aver perso la mia bambola e il timore di interrompere mia madre.
La lama del coltello si alzò in aria e poi si abbassò, un colpo netto.
«Mamma!» gridai più forte.
Lei alzò lo sguardo. Il coltello continuava a spezzettare il pane raffermo. «Ho da fare.»
Non riuscii a trattenere le lacrime. «Rudi Ramoser mi ha rubato la principessa Elisabeth.»
«Chi?» chiese lei distrattamente dopo una lunga pausa.
«La mia bambola. Quella che mi hai regalato a Natale.»
Mia madre posò il coltello e mi fissò. «E allora? Riprenditela.»
«Ma mamma, lui ha tredici anni. È più grande di me.»
«Rosa, è solo una bambola. Sono troppo impegnata per occuparmi di queste faccende.» E afferrò di nuovo il coltello.
Il giorno dopo Rudi Ramoser mi stava aspettando all’uscita da scuola. Era appoggiato al muro di fronte e parlava con altri ragazzi, ma quando mi vide si staccò dal gruppo.
«Vuoi indietro la tua bambola, Gitsch?» C’era un’espressione apparentemente innocente nei suoi grandi occhi azzurri, ma la sua voce aveva un tono sarcastico.
«Sì» dissi, decisa a non lasciar trapelare nemmeno un briciolo di paura.
«Ci vediamo al ponte. Alle tre.»
La Gasthaus si trovava al centro del paese e dalla piazza si diramava la strada per Unterfals e St. Martin che, appena fuori dal centro abitato, attraversava il fiume Fals. Dopo la scuola le vie erano deserte; ai bambini venivano affidati lavoretti domestici e commissioni da sbrigare mentre le madri preparavano da mangiare e gli uomini erano ancora al lavoro. Conoscevo tutti gli abitanti di tutte le case che incontrai lungo il percorso. Osservai l’affresco raffigurante San Gio...

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