Il tempo della clemenza
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Il tempo della clemenza

John Grisham

  1. 528 pages
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Il tempo della clemenza

John Grisham

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Clanton, Mississippi. 1990. Quando l'avvocato Jake Brigance viene nominato suo malgrado difensore di Drew Gamble, accusato a soli sedici anni di aver ucciso Stuart Kofer, vicesceriffo della Ford County, capisce di trovarsi di fronte al caso più difficile della sua carriera.

Perché Drew è soltanto un ragazzo timido e spaventato che non dimostra la sua età, e questo rende il suo crimine ancora più incredibile e agghiacciante. Ma sua madre e sua sorella, che insieme a lui vivevano a casa di Stuart, sanno cosa lo ha spinto a commettere questo terribile gesto. Conoscono fin troppo bene la doppia vita della vittima.

Molti a Clanton invocano la pena di morte, l'assassinio di un poliziotto è considerato un atto inammissibile, e la professione di Stuart Kofer lo rendeva a suo modo intoccabile in un contesto sociale pieno di ombre e contraddizioni.

Il ragazzo ha poche chance di sfuggire alla camera a gas e Jake è l'unico che può salvarlo, in un processo controverso che dividerà l'opinione pubblica, mettendo a rischio anche la sua vita e quella della sua famiglia.

Il tempo della clemenza è uno dei più emozionanti legal thriller scritti da John Grisham, un romanzo profondo, drammatico e pieno di umanità che segna il ritorno dell'avvocato Jake Brigance, già amatissimo protagonista di Il momento di uccidere e L'ombra del sicomoro.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2020
ISBN
9788835706052

1

L’infelice casetta sorgeva in mezzo alla campagna, a una decina di chilometri da Clanton, lungo una vecchia strada della contea che non portava da nessuna parte. Dalla carreggiata non si vedeva. Vi si accedeva da un vialetto di ghiaia che digradava e si incurvava sinuoso, e di notte faceva sobbalzare i fari che si avvicinavano. La loro luce filtrava attraverso le finestre e le porte della facciata, come per avvertire chi era in attesa all’interno. L’isolamento dell’edificio contribuiva all’orrore incombente.
La mezzanotte della domenica era passata già da molto quando i fari finalmente comparvero. Irruppero nella casa proiettando ombre sinistre e silenziose sulle pareti, poi sparirono mentre l’auto si abbassava prima di percorrere l’ultimo tratto. Chi era dentro avrebbe dovuto essere addormentato da ore, ma in quelle notti terribili riposare era impossibile. Sul divano in soggiorno, Josie fece un respiro profondo, disse una preghiera veloce e si avvicinò piano alla finestra. L’auto sbandava e sobbalzava come sempre o era sotto controllo? Lui era ubriaco come al solito o aveva rallentato il ritmo delle bevute? Lei si era messa una sottoveste provocante per attirare la sua attenzione e magari distoglierlo dalla violenza. In passato c’era riuscita, una volta gli era piaciuto.
L’auto si fermò accanto alla casa e lei lo guardò scendere. Barcollava e inciampava, e Josie si preparò a quello che stava per succedere. Andò ad aspettarlo in cucina, dove la luce era accesa. Accanto alla porta, parzialmente nascosta in un angolo, c’era una mazza da baseball di alluminio che apparteneva a suo figlio. L’aveva messa lì un’ora prima, per difendersi in caso lui avesse deciso di aggredire i ragazzi. Aveva pregato il Signore perché le desse il coraggio di usarla, ma continuava ad avere dei dubbi. Lui urtò contro la porta della cucina e scosse il pomello come se fosse chiusa a chiave; non lo era. Alla fine la spalancò con un calcio mandandola a sbattere contro il frigorifero.
Da ubriaco, Stuart era goffo e violento. La sua pallida carnagione irlandese si arrossava, le guance si infiammavano e gli occhi luccicavano di un fuoco acceso dal whiskey, che lei aveva visto troppe volte. A trentatré anni i suoi capelli avevano cominciato a ingrigirsi e a cadere, e lui cercava di nasconderlo con un orribile riporto che, dopo una sera passata a girare per locali, gli aveva lasciato lunghe ciocche che pendevano sopra le orecchie. Sulla faccia non aveva tagli o lividi, forse era un buon segno, forse no. Gli piaceva fare a botte nelle bettole, e dopo una serata complicata di solito si leccava le ferite andando dritto a letto. Ma se non c’erano state risse, spesso veniva a cercarle a casa.
«Che ci fai in piedi?» grugnì mentre tentava di chiudersi la porta alle spalle.
«Ti stavo aspettando, tesoro. Stai bene?» chiese Josie con tutta la calma possibile.
«Non ho bisogno che mi aspetti. Che ore sono, le due?»
Lei sorrise, come se fosse tutto a posto. Una settimana prima aveva deciso di andare a letto e di aspettarlo lì. Lui era tornato a casa tardi, era salito al piano di sopra e aveva minacciato i ragazzi.
«Quasi le due» disse in tono dolce. «Andiamo a letto.»
«Perché hai addosso quella roba? Sembri proprio una puttana. Stasera c’è stato qui qualcuno?»
Niente di nuovo, le solite accuse. «Ovviamente no» rispose Josie. «Stavo solo per coricarmi.»
«Sei una troia.»
«E dài, Stu. Ho sonno. Andiamo a letto.»
«Con chi eri?» ringhiò lui mentre ricadeva contro la porta.
«Con chi? Con nessuno. Sono stata qui tutta la sera con i ragazzi.»
«Sei una stronza bugiarda, lo sai?»
«È la verità, Stu. Andiamo a letto, è tardi.»
«Mi hanno detto che un paio di giorni fa qualcuno ha visto il pick-up di John Albert qui fuori.»
«E chi è John Albert?»
«E chi è John Albert, chiede la puttanella? Sai benissimo chi è John Albert.» Si staccò dalla porta, fece qualche passo incerto verso di lei e cercò di reggersi al piano della cucina. Le puntò un dito contro. «Sei una troietta e fai venire qui i tuoi ex. Ti avevo avvertita.»
«Io sto solo con te, Stuart, te l’ho detto mille volte. Perché non mi credi?»
«Perché sei una bugiarda e ti ho già beccata a raccontare balle. Te la ricordi la carta di credito? Stronza.»
«Per favore, Stu, è stato un anno fa e l’abbiamo risolta.»
Lui le afferrò il polso di scatto con la sinistra e si preparò a colpirla forte in faccia: la schiaffeggiò a mano aperta, uno schiocco sonoro e sgradevole, carne contro carne. Lei gridò di dolore e spavento. Si era ripromessa di non urlare per nessun motivo, perché i ragazzi erano al piano di sopra dietro la porta chiusa a chiave, ad ascoltare tutto.
«Smettila, Stu!» strillò e si toccò la faccia cercando di riprendere fiato. «Basta botte! Ti ho detto che me ne vado e ti giuro che lo faccio!»
Lui scoppiò a ridere. «Ah, sì? E dove vai, puttanella? Torni nel camper nei boschi? Torni a vivere in macchina?» Le strattonò il polso, la fece girare e le circondò il collo con il suo grosso avambraccio. Le sussurrò rabbioso all’orecchio: «Non hai un posto dove stare, stronza, nemmeno il parcheggio di roulotte in cui sei nata». Le schizzò sull’orecchio un fiotto di saliva calda che puzzava di whiskey e birra stantii.
Josie fece uno scatto e cercò di liberarsi, ma Stu le spinse il braccio verso l’alto, come se volesse spezzarle un osso. Lei non poté impedirsi di gridare di nuovo e, mentre lo faceva, pensò con dolore ai suoi figli. «Mi rompi il braccio, Stu! Basta, ti prego!»
Lui le abbassò il braccio di qualche centimetro, ma strinse la presa. «Dove te ne vai? Hai un tetto sulla testa, hai da mangiare e una camera per i tuoi figli schifosi e parli di andartene? Non penso proprio» le sibilò all’orecchio.
Josie si irrigidì e si dimenò cercando di sfuggirgli, ma lui era un uomo forte e violento. «Stu, mi stai rompendo il braccio... Ti prego, lasciami!»
Per tutta risposta, lui la strattonò ancora di più e lei gridò. Gli diede un calcio allo stinco con il tallone nudo, si voltò e lo colpì alle costole con il gomito sinistro. Per un attimo lo colse di sorpresa, non gli fece male ma riuscì a liberarsi e rovesciò una sedia. Altro baccano che avrebbe spaventato i ragazzi.
Stu caricò come un toro impazzito, la prese per il collo e la sbatté contro il muro affondandole le unghie nella carne. Josie non riusciva a gridare, a deglutire né a respirare, e il bagliore folle negli occhi di lui le disse che quello era il loro ultimo scontro. Stavolta l’avrebbe uccisa per davvero. Cercò di scalciare, inutilmente, e in un lampo Stu le sferrò un gancio destro al mento che le fece perdere i sensi. Josie crollò a terra e rimase distesa sulla schiena, a gambe divaricate. La sottoveste era aperta, i seni esposti. Lui osservò per un paio di secondi quello che aveva fatto.
«Puttana, mi ha colpito per prima» mormorò, poi andò a prendere una lattina di birra dal frigorifero. La stappò, bevve un sorso, si asciugò la bocca con il dorso della mano e aspettò di vedere se lei avrebbe ripreso i sensi o se per quella notte era al tappeto. Non si muoveva, perciò le si avvicinò per sentire se respirava.
Era sempre stato un attaccabrighe e conosceva la prima regola: colpiscili al mento e sono secchi.
La casa era silenziosa e immobile, però lui sapeva che i ragazzi erano al piano di sopra, nascosti, in attesa.
Drew aveva due anni più della sorella Kiera, ma la pubertà, come quasi tutti i cambiamenti normali della sua vita, stava tardando ad arrivare. Aveva sedici anni, per la sua età era minuto e la cosa lo disturbava, soprattutto quand’era accanto alla sorella, che stava combattendo con l’ennesimo imbarazzante scatto di crescita. Loro due tuttavia non sapevano di avere padri diversi, e che il loro sviluppo fisico non sarebbe mai stato in sincrono. Ereditarietà a parte, in quel momento erano più uniti che mai, come lo sono due fratelli che ascoltano inorriditi la madre subire l’ennesimo pestaggio.
La violenza stava aumentando e gli abusi erano sempre più frequenti. Pregavano Josie di lasciare quella casa e lei faceva promesse, ma tutti e tre sapevano che non avevano un posto in cui andare. La madre li rassicurava che le cose sarebbero migliorate, che Stu era un brav’uomo quando non beveva, e che lei era decisa a guarirlo con il suo amore.
Nessun posto in cui andare. La loro ultima “casa” era stata un vecchio camper nel cortile di un lontano parente imbarazzato di ospitarli. Tutti e tre sopportavano la vita con Stu soltanto perché lui possedeva una vera casa, fatta di mattoni e con un tetto di lamiera. Non soffrivano più la fame, anche se avevano ancora ricordi dolorosi di quei giorni, e andavano a scuola. La scuola in realtà era il loro rifugio, perché lui ne stava alla larga. C’erano problemi – scarsi risultati scolastici per Drew, pochi amici per entrambi, vestiti vecchi, le file per i pasti gratis –, ma là almeno erano lontani da Stu, e al sicuro.
Anche quand’era sobrio, il che, grazie a Dio, accadeva la maggior parte del tempo, era un idiota sgradevole che si lamentava di dover pagare le spese per i ragazzi. Lui non aveva figli, perché non ne aveva mai voluti e perché i suoi due matrimoni precedenti erano durati poco. Era un violento convinto che la sua casa fosse il suo castello. I ragazzi erano ospiti indesiderati, intrusi, e di conseguenza dovevano fare tutto il lavoro sporco. Stu aveva una lista infinita di lavoretti da propinargli, la maggior parte mirata a camuffare il fatto che lui stesso non era altro che un pigro sciattone. Alla minima trasgressione imprecava contro i ragazzi e li minacciava. Comprava cibo e birra per sé e insisteva perché il magro stipendio di Josie coprisse il “loro” lato del tavolo.
Ma i compiti ingrati, il cibo e le intimidazioni non erano niente a confronto della violenza.
Josie respirava a malapena, immobile. Lui, in piedi davanti a lei, le guardò il seno e come sempre desiderò che fosse più grande. Diamine, persino Kiera aveva le tette più grosse. Il pensiero lo fece sorridere e decise di andare a dare un’occhiata. Attraversò il piccolo soggiorno buio e cominciò a salire le scale facendo tutto il baccano possibile, per spaventarli. A metà strada chiamò a gran voce in tono acuto, sbronzo e quasi allegro: «Kiera, oh, Kiera...».
Nel buio, lei rabbrividì e strinse più forte il braccio di Drew. Stu riprese a muoversi rumorosamente, i suoi passi risuonavano pesanti sulle scale di legno.
«Kiera, oh, Kiera...»
Aprì la porta della stanza di Drew, poi la richiuse sbattendola. Girò il pomello di quella di Kiera, chiusa a chiave. «Ah ah, Kiera, lo so che ci sei. Apri la porta.» Le diede una spallata.
I fratelli erano seduti vicini ai piedi del piccolo letto con lo sguardo fisso sulla porta. A bloccarla c’era un’asta di metallo arrugginita che Drew aveva trovato nel fienile: pregavano che reggesse. Un’estremità della sbarra premeva contro la porta, l’altra contro il telaio di metallo del letto. Quando Stu cominciò a sbatacchiare il pomello, Drew e Kiera, come stabilito, si appoggiarono all’asta metallica per aumentare la pressione. Si erano preparati per questo piano d’azione ed erano quasi sicuri che la porta avrebbe retto. Avevano anche programmato un attacco, nel caso in cui la porta si fosse spalancata. Kiera avrebbe afferrato una vecchia racchetta da tennis e Drew una bomboletta di spray al peperoncino da spruzzare in faccia a Stu. Gliel’aveva comprata Josie per ogni eventualità. Stu poteva anche picchiarli di nuovo, ma almeno avrebbero reagito.
Lui sarebbe riuscito anche a sfondare facilmente la porta a calci. Lo aveva fatto un mese prima, salvo dare in escandescenze perché quella nuova gli era costata cento dollari. All’inizio aveva insistito per far pagare Josie, poi aveva voluto i soldi dai ragazzi, ma alla fine aveva smesso di lagnarsi.
Kiera piangeva in silenzio, impietrita, però pensava anche che ci fosse qualcosa di insolito. Le altre volte, quand’era venuto nella sua stanza, a casa non c’era nessuno. Non c’erano stati testimoni e lui l’aveva minacciata di ucciderla se ne avesse parlato con qualcuno. Stu aveva già messo a tacere sua madre: aveva intenzione di fare del male anche a Drew, di minacciarlo?
«Oh, Kiera, Kiera» cantò lui stupidamente mentre cadeva di nuovo contro la porta. La sua voce era un po’ più debole. Forse c’era la possibilità che lasciasse perdere.
Appoggiati alla sbarra di metallo, i fratelli aspettavano un’esplosione di aggressività, ma Stu rimase in silenzio. Poi si allontanò, i suoi passi svanirono sulle scale. Calò il silenzio.
E in silenzio era anche la loro madre, il che significava una tragedia. Era di sotto, morta o priva di sensi, altrimenti Stu non avrebbe salito le scale senza ingaggiare una lotta furibonda. Josie gli avrebbe cavato gli occhi nel sonno se avesse fatto ancora del male ai suoi figli.
Trascorsero secondi e minuti. Kiera smise di piangere e i due fratelli si sedettero sul bordo del letto, in attesa di qualcuno, di un rumore, una voce, una porta sbattuta. Ma niente.
«Dobbiamo fare qualcosa» sussurrò infine Drew.
Kiera era pietrificata e non riuscì a rispondere.
«Vado a vedere come sta la mamma. Tu rimani qui con la porta chiusa a chiave, capito?»
«Non andare.»
«Devo farlo. Le è successo qualcosa, altrimenti sarebbe venuta su. Sono sicuro che è ferita. Stai qui e tieni chiuso a chiave.»
Spostò la sbarra e aprì piano la porta. Sbirciò verso le scale e non vide altro che oscurità e la luce fioca del portico. Kiera lo osservò e gli richiuse la porta alle spalle. Drew scese il primo gradino stringendo forte lo...

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Grisham, J. (2020). Il tempo della clemenza ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3378877/il-tempo-della-clemenza-pdf (Original work published 2020)

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Grisham, John. (2020) 2020. Il Tempo Della Clemenza. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3378877/il-tempo-della-clemenza-pdf.

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Grisham, J. (2020) Il tempo della clemenza. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3378877/il-tempo-della-clemenza-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Grisham, John. Il Tempo Della Clemenza. [edition unavailable]. Mondadori, 2020. Web. 15 Oct. 2022.