Angelus Novus
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Angelus Novus

Saggi e frammenti

Walter Benjamin, Renato Solmi

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Saggi e frammenti

Walter Benjamin, Renato Solmi

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Difficile collocare criticamente la figura di Walter Benjamin: la sua originalità di pensatore e la sua opera - saggi teoretici, aforismi, impressioni di viaggio, ricordi - trascendono la storia, la filosofia o la letteratura nella loro accezione corrente. Questa antologia, pubblicata per la prima volta nel 1962 da Einaudi, raccoglie i testi piú rappresentativi, dai saggi filosofici Per la critica della violenza, Destino e carattere, Sulla facoltà mimetica, a quelli piú letterari su Baudelaire, Kafka e Goethe: tutti scritti rivelatori di una particolare forma di saggismo in cui le «affermazioni sulla vita» non possono prescindere dall'analisi di un determinato «paesaggio culturale» (il saggio sulle Affinità elettive diventa un trattato sull'amore e sul matrimonio nell'epoca moderna); e che mettono in luce le risorse di un laboratorio di pensiero tra i piú fervidi e originali del Novecento. Cronologia della vita e delle opere e bibliografia critica.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858416259

Baudelaire e Parigi

DI ALCUNI MOTIVI IN BAUDELAIRE

1.
Baudelaire contava su lettori che la lettura della lirica mette in difficoltà. A questi lettori si rivolge il poema introduttivo delle Fleurs du mal. La loro forza di volontà, e quindi anche di concentrazione, non arriva molto lontano; essi preferiscono i piaceri sensibili, e conoscono bene lo spleen, che annulla l’interesse e la ricettività. Stupisce incontrare un lirico che si rivolge a questo pubblico, il piú ingrato di tutti. Una spiegazione si affaccia subito. Baudelaire voleva essere compreso: egli dedica il libro a coloro che gli assomigliano. La poesia al lettore termina con l’apostrofe: «Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!» Ma il rapporto si rivela piú fecondo di conseguenze se s’inverte la formulazione dicendo: Baudelaire ha scritto un libro che aveva a priori scarse prospettive di successo immediato. Egli contava su un tipo di lettore come lo descrive il poema introduttivo. E si sarebbe visto che il suo calcolo era stato lungimirante. Il lettore a cui si rivolgeva gli sarebbe stato fornito dall’epoca seguente. Che questa sia la situazione, che, in altri termini, le condizioni per l’accoglienza di poesie liriche siano divenute piú infauste, è provato, fra l’altro, da tre fatti. Anzitutto il lirico non è piú considerato come il poeta in sé. Non è piú il «vate», com’era ancora Lamartine; è entrato in un genere. (Verlaine rende questa specializzazione tangibile; Rimbaud è già un esoterico, che tiene il pubblico – ex officio – lontano dalla propria opera). Secondo fatto: un successo di massa di poesie liriche non ha piú avuto luogo dopo Baudelaire. (Ancora la lirica di Hugo ebbe, al suo apparire, una vasta risonanza. In Germania la linea di confine è segnata dal Buch der Lieder). Ciò implica anche un terzo elemento: il pubblico è divenuto piú freddo anche verso la poesia lirica che gli era già nota dal passato. Lo spazio di tempo in questione si può datare suppergiú dalla metà del secolo scorso. Nel corso dello stesso periodo la fama delle Fleurs du mal si è estesa senza interruzione. Il libro che aveva contato sui lettori piú estranei, e che, all’inizio, ne aveva trovati ben pochi propizi, è divenuto, nel corso dei decenni, un classico; e anche uno dei piú ristampati.
Se le condizioni della ricezione di poesie liriche sono divenute piú infauste, è naturale supporre che la poesia lirica conservi solo eccezionalmente il contatto con l’esperienza dei lettori. Ciò potrebbe essere perché questa esperienza si è trasformata nella sua struttura. Questo spunto sarà forse approvato, ma ci troveremo tanto piú imbarazzati a definire ciò che si è trasformato in essa. In questa situazione dovremo rivolgerci alla filosofia, dove troveremo un fatto sintomatico. Dalla fine del secolo scorso, essa ha compiuto una serie di tentativi per impossessarsi della «vera» esperienza, in contrasto con quella che si deposita nella vita regolata e denaturata delle masse civilizzate. Si usa raccogliere questi tentativi sotto il concetto di filosofia della vita. Essi non muovono, naturalmente, dalla vita dell’uomo in società, ma si richiamano alla poesia, o meglio ancora alla natura, e alla fine, di preferenza, all’epoca mitica. L’opera di Dilthey L’esperienza vissuta e la poesia1 è uno dei primi tentativi della serie; che finisce con Klages e con Jung, che si è votato al fascismo. Come un monumento di gran lunga eminente, spicca su questa letteratura l’opera giovanile di Bergson, Matière et mémoire: che serba, piú delle altre, rapporti con l’indagine esatta. Essa è orientata sul modello della biologia. Già il titolo dice che essa considera la struttura della memoria come decisiva per la struttura filosofica dell’esperienza. In realtà l’esperienza è un fatto di tradizione, nella vita collettiva come in quella privata. Essa non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria. Ma Bergson non si propone affatto di specificare storicamente la memoria; e respinge, anzi, ogni determinazione storica dell’esperienza. Con ciò egli evita, anzitutto ed essenzialmente, di doversi avvicinare a quell’esperienza da cui è sorta la sua stessa filosofia, o contro la quale, piuttosto, essa è stata mobilitata: che è quella ostile, accecante, dell’epoca della grande industria. All’occhio che si chiude di fronte a questa esperienza si affaccia un’esperienza di tipo complementare, come la sua imitazione per cosí dire spontanea. La filosofia di Bergson è un tentativo di specificare e fissare questa imitazione. Essa rimanda quindi, indirettamente, all’esperienza che si affaccia direttamente a Baudelaire nella figura del suo «lettore».
2.
Matière et mémoire definisce il carattere dell’esperienza nella durée in modo che il lettore deve finire per dirsi: solo il poeta può essere il soggetto adeguato di un’esperienza consimile. Ed è stato infatti un poeta a mettere alla prova la teoria bergsoniana dell’esperienza. Si può considerare l’opera di Proust, A la recherche du temps perdu, come il tentativo di produrre artificialmente, nelle condizioni sociali odierne, l’esperienza come intesa da Bergson. (Poiché sulla sua genesi spontanea sarà sempre piú difficile contare). Proust, del resto, non si sottrae, nella sua opera, alla discussione di questo problema. Egli introduce, anzi, un momento nuovo, che contiene una critica immanente a Bergson. Questi non tralascia di sottolineare l’antagonismo fra la vita activa e la particolare vita contemplativa che è dischiusa dalla memoria. Sembra però, in Bergson, che il fatto di volgersi all’attualizzazione intuitiva del flusso vitale sia una questione di libera scelta. La diversa convinzione di Proust si preannuncia già nella terminologia. La mémoire pure della teoria bergsoniana diventa in lui mémoire involontaire. Fin dall’inizio Proust confronta questa memoria involontaria con quella volontaria, che è a disposizione dell’intelligenza. Alle prime pagine della grande opera è affidato il compito di chiarire questo rapporto. Nella riflessione che introduce il termine Proust parla della povertà con cui si era offerta al suo ricordo, per molti anni, la città di Combray, dove pure aveva trascorso una parte della sua infanzia. Prima che il gusto della madeleine (un biscotto), su cui ritorna quindi sovente, lo ritrasferisse un pomeriggio negli antichi tempi, egli era stato limitato a ciò che gli aveva fornito una memoria pronta a rispondere all’appello dell’attenzione. Essa è la mémoire volontaire, il ricordo volontario, di cui si può dire che le informazioni che ci dà sul passato non conservano nulla di esso. «Lo stesso vale per il nostro passato. Vanamente cerchiamo di rievocarlo; tutti gli sforzi del nostro intelletto sono inutili». Per cui Proust non esita ad affermare, in conclusione, che il passato è «al di fuori del suo potere e della sua portata, in qualche oggetto materiale (o nella sensazione che questo oggetto provoca in noi), che ignoriamo quale possa essere. Che noi incontriamo questo oggetto prima di morire o che non lo incontriamo mai, dipende solo dal caso».
È affidato, secondo Proust, al caso che il singolo acquisti un’immagine di se stesso, che diventi signore della propria esperienza. Dipendere, in una cosa simile, dal caso, è qualcosa di tutt’altro che naturale. Gli interessi interiori dell’uomo non hanno già per natura questo carattere irrimediabilmente privato; ma lo acquistano solo quando diminuisce, per gli interessi esterni, la possibilità di essere incorporati alla sua esperienza. Il giornale è uno dei tanti segni di questa diminuzione. Se la stampa si proponesse di far sí che il lettore possa appropriarsi delle sue informazioni come di una parte della sua esperienza, mancherebbe interamente il suo scopo. Ma il suo intento è proprio l’opposto, ed essa lo raggiunge. È quello di escludere rigorosamente gli eventi dall’ambito in cui potrebbero colpire l’esperienza del lettore. I principî dell’informazione giornalistica (novità, brevità, intelligibilità, e, soprattutto, mancanza di ogni connessione fra le singole notizie) contribuiscono a questo effetto non meno dell’impaginazione e della forma linguistica. (Karl Kraus ha mostrato infaticabilmente come e fino a che punto l’uso linguistico dei giornali paralizzi l’immaginazione dei lettori). La rigida esclusione dell’informazione dall’esperienza dipende anche dal fatto che essa non entra nella «tradizione». I giornali appaiono in forti tirature. Nessun lettore ha piú facilmente qualcosa da poter raccontare all’altro. C’è una specie di concorrenza storica fra le varie forme di comunicazione. Nel sostituirsi dell’informazione alla piú antica relazione, e della «sensazione» all’informazione, si rispecchia l’atrofia progressiva dell’esperienza. Tutte queste forme si distaccano, a loro volta, dalla narrazione; che è una delle forme piú antiche di comunicazione. Essa non mira, come l’informazione, a comunicare il puro in-sé dell’accaduto, ma lo cala nella vita del relatore, per farne dono agli ascoltatori come esperienza. Cosí vi resta il segno del narratore, come quello della mano del vasaio sulla coppa d’argilla.
L’opera in otto tomi di Proust dà un’idea delle operazioni necessarie per restaurare al presente la figura del narratore. Proust ha affrontato l’impresa con grandiosa coerenza. Egli si è imbattuto cosí, fin dall’inizio, nel compito elementare di riferire della propria infanzia; e ne ha misurato tutta la difficoltà nell’atto di presentare come effetto del caso se la sua soluzione sia anche solo possibile. Nel corso di queste riflessioni egli foggia l’espressione mémoire involontaire, che reca i segni della situazione in cui è stata creata. Essa appartiene al repertorio della persona privata isolata in tutti i sensi. Dove c’è esperienza nel senso proprio del termine, determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato collettivo. I culti coi loro cerimoniali, con le loro feste (di cui forse non si parla mai in Proust), realizzavano di continuo la fusione fra questi due materiali della memoria. Essi provocavano il ricordo in epoche determinate e restavano occasioni e appigli di esso durante tutta la vita. Ricordo volontario e involontario perdono cosí la loro esclusività reciproca.
3.
Alla ricerca di una definizione piú concreta di ciò che appare come sottoprodotto della teoria bergsoniana nella mémoire de l’intelligence di Proust, conviene risalire a Freud. Nel 1921 appariva il saggio Al di là del principio del piacere, che stabilisce una correlazione fra la memoria (nel senso della mémoire involontaire) e la coscienza. Essa si presenta come un’ipotesi. Le riflessioni seguenti, che si richiamano ad essa, non si propongono di dimostrarla. Esse si limiteranno a sperimentare la sua fecondità su nessi molto remoti da quelli che Freud aveva presenti all’atto di formularla. È piú probabile che, in nessi di questo genere, si siano imbattuti alcuni dei suoi allievi. Le riflessioni in cui Reik sviluppa la sua teoria della memoria si muovono, in parte, proprio sulla linea della distinzione proustiana fra reminiscenza involontaria e ricordo volontario. «La funzione della memoria, – scrive Reik, – è la protezione delle impressioni. Il ricordo tende a dissolverle. La memoria è essenzialmente conservatrice, il ricordo è distruttivo». La proposizione fondamentale di Freud, che è alla base di questi sviluppi, è formulata nell’ipotesi che «la coscienza sorga al posto di un’impronta mnemonica». (I concetti di ricordo e di memoria non presentano, nel saggio freudiano, alcuna differenza fondamentale di significato in funzione del nostro problema). Essa «sarebbe quindi contrassegnata dal fatto che il processo della stimolazione non lascia in essa, come in tutti gli altri sistemi psichici, una modificazione duratura dei suoi elementi, ma sbollisce, per cosí dire, nel fenomeno della presa di coscienza». La formula basilare di questa ipotesi è «che presa di coscienza e persistenza di una traccia mnemonica sono reciprocamente incompatibili per lo stesso sistema». Residui mnemonici si presentano invece «spesso con la massima forza e tenacia quando il processo che li ha lasciati non è mai pervenuto alla coscienza». Tradotto nella terminologia proustiana: parte integrante della mémoire involontaire può diventare solo ciò che non è stato vissuto espressamente e consapevolmente, ciò che non è stato, insomma, un’«esperienza vissuta». Tesaurizzare «impronte durevoli come fondamento della memoria» di processi stimolatori, è riservato, secondo Freud, ad «altri sistemi», che bisogna pensare diversi dalla coscienza. Secondo Freud, la coscienza come tale non accoglierebbe tracce mnemoniche. Essa avrebbe, invece, un’altra e importante funzione: quella di servire da protezione contro gli stimoli. «Per l’organismo vivente la difesa contro gli stimoli è un compito quasi piú importante della loro ricezione; l’organismo è fornito di un proprio quantitativo di energia, e deve tendere soprattutto a proteggere le forme particolari di energia che operano in esso dall’influsso livellatore, e quindi distruttivo, delle energie troppo grandi che operano all’esterno». La minaccia proveniente da queste energie è una minaccia di chocs. Quanto piú normale e corrente diventa la loro registrazione da parte della coscienza, e tanto meno si dovrà temere un effetto traumatico degli chocs. La teoria psicoanalitica cerca di spiegare la natura degli chocs traumatici «con la rottura della protezione contro gli stimoli». Il significato dello spavento è, secondo quella teoria, l’«assenza della predisposizione all’angoscia».
L’indagine di Freud traeva spunto da un sogno tipico nelle nevrosi traumatiche. Esso riproduce la catastrofe da cui il soggetto è stato colpito. Sogni di questo genere cercano, secondo Freud, «di realizzare a posteriori il controllo dello stimolo sviluppando l’angoscia la cui omissione è stata causa della nevrosi traumatica». A qualcosa di simile sembra pensare Valéry; e la coincidenza merita di essere rilevata, perché Valéry è uno di quelli che si sono interessati del particolare modo di funzionamento dei meccanismi psichici nelle odierne condizioni di vita. (Ed egli ha saputo conciliare questo interesse con la sua produzione poetica, che è rimasta puramente lirica, ponendosi cosí come il solo autore che rimandi direttamente a Ba...

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