La Cina del Novecento
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La Cina del Novecento

Dalla fine dell'Impero ad oggi

Guido Samarani

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La Cina del Novecento

Dalla fine dell'Impero ad oggi

Guido Samarani

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Per la Cina, intesa nel suo insieme, il Novecento è stato molte cose: guerra e pace, lotta contro la miseria e l'arretratezza e per lo sviluppo e la modernizzazione, sforzo per recuperare l'identità perduta e per forgiarne una nuova, impegno per la rinascita della nazione cinese e per un suo ruolo centrale in ambito regionale e internazionale. Tuttavia, il Novecento è stato innanzitutto il secolo che ha visto precipitare e giungere al suo culmine la crisi, iniziata nel secolo precedente, della millenaria tradizione imperiale e prendere corpo e affermarsi le forme organizzative, i valori e gli ideali della Repubblica cinese.
Il volume analizza le tappe, gli eventi e le questioni principali che hanno segnato la storia della Cina durante il Novecento, muovendo dalla fine dell'Impero (1911) e giungendo fino ai giorni nostri e mirando soprattutto a mettere in luce le radici storiche del «miracolo cinese» cui oggi siamo di fronte, evidenziandone le conquiste e i successi, ma anche tutti i problemi e le contraddizioni.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858414323

PARTE SECONDA

Identità comuni, identità diverse: la Repubblica Popolare Cinese,
Taiwan, Hong Kong e Macao (1949-2004)

La fondazione della Repubblica Popolare Cinese (o anche Cina Popolare) nel 1949 rappresentò una tappa fondamentale nell’ambito del processo di rinascita di una moderna identità nazionale in Cina, con la ricostruzione essenziale dell’unità politica e territoriale e il recupero della sovranità nazionale.
Certo, l’isola di Taiwan, nonché altre isole minori, erano ora sotto il controllo dei nazionalisti e qui si era presto insediato un governo alternativo a quello dei comunisti che godeva di un largo consenso internazionale e del determinante sostegno da parte statunitense (la Repubblica di Cina in Taiwan, come fu riconosciuta per piú di vent’anni da larga parte della comunità internazionale, o piú semplicemente Taiwan, come è oggi identificata da quasi tutti i paesi nel mondo che riconoscono ufficialmente la Cina Popolare come unico legittimo rappresentante del popolo cinese). E inoltre, Hong Kong e Macao restavano ancora sotto il dominio coloniale, rispettivamente della Gran Bretagna e del Portogallo.
Tuttavia, benché fosse evidente alla dirigenza comunista che l’unità nazionale non era stata del tutto portata a termine e che occorreva fare ogni sforzo al fine di completare in tempi brevi il processo di riunificazione, l’importanza storica della grande vittoria del 1949 restava intatta e indiscutibile.
La prospettiva di una riunificazione completa a breve termine, per via diplomatica o anche militare, appariva tuttavia difficile, soprattutto nel caso di Taiwan: il determinante appoggio di Washington a Chiang Kai-shek nella difesa dell’isola da una possibile invasione da parte dei comunisti rendeva infatti ardua qualsiasi ipotesi militare, tanto piú in quanto qualsiasi mutamento degli equilibri politici nell’area avrebbe sicuramente comportato ulteriori tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel quadro globale della «guerra fredda» e della divisione del mondo in «sfere d’influenza» e «blocchi» contrapposti.
Quanto a Hong Kong e Macao, la strada che sembrava delinearsi era quella dell’accettazione di fatto della realtà coloniale e della paziente costruzione di una soluzione diplomatica in tempi non necessariamente brevi, anche se dopo il 1949 non sarebbero certo mancati momenti anche gravi di crisi tra la Cina Popolare e le autorità britanniche e portoghesi.
Peraltro, l’obiettivo di portare a compimento l’unificazione nazionale si sommava all’esigenza, ancor piú vitale, di fare fronte a una situazione interna caratterizzata dall’emergenza e da gravi problemi irrisolti: ora, per la nuova leadership comunista, si trattava di affrontare un nuovo grande compito storico, quello di governare un paese immenso, profondamente segnato da decenni di guerre, di tragedie e di divisioni e profondamente diversificato al suo interno.
Si trattava di un compito assai diverso da quello portato a termine con il 1949 ma certo non meno arduo e complesso: in particolare, restava prioritario l’obiettivo della lotta contro l’arretratezza e la povertà e per la crescita e lo sviluppo. Si trattava di un obiettivo che i nazionalisti avevano largamente mancato di realizzare, anche a causa della guerra, e che – accanto a quelli della riunificazione nazionale e della «democrazia» – era stato al centro dell’impegno ideale e politico del «padre della Repubblica», Sun Yat-sen, al cui esempio gli stessi comunisti si sarebbero piú volte richiamati dopo il 1949 al fine di respingere qualsiasi ipotesi di lettura che contrapponesse in modo radicale rivoluzione repubblicana e rivoluzione comunista.
La lotta contro l’arretratezza e per lo sviluppo si intrecciava con un’altra grande questione alla quale i nazionalisti non erano stati sostanzialmente in grado di offrire una risposta positiva e vincente: la capacità di comprendere e di utilizzare al meglio l’articolazione e la pluralità territoriale (potere centrale e identità locali, unità nazionale e identità etniche), ideale (marxismo e identità politiche e culturali alternative, ateismo e identità religiose) ed economico-sociale (città e campagna, diversificazioni produttive, sociali e di costume) presenti nel paese, fornendo soluzioni e risposte che coniugassero nel miglior modo possibile difesa dell’integrità nazionale, stabilità e sviluppo economico-sociali e capacità di rappresentare e non di reprimere simili risorse fisiche e spirituali.
All’interno di questa seconda parte, i primi otto capitoli (dall’ottavo al sedicesimo compreso) saranno dedicati alle vicende della Repubblica Popolare Cinese, i due successivi rispettivamente a Taiwan e a Hong Kong e Macao e l’ultimo a epilogo del volume.

Capitolo ottavo

Ricostruzione e «nuova democrazia»

Gli anni che separano la fondazione della Repubblica Popolare Cinese a Pechino (1° ottobre 1949) dalla promulgazione della prima Costituzione e dalla conseguente definizione dell’assetto del nuovo Stato socialista (settembre-ottobre 1954) sono profondamente segnati dai temi dell’emergenza (politica, economica, sociale) e dal parallelo sforzo dell’avvio della ricostruzione nazionale dopo decenni di guerra. L’immane e complesso compito che attende la nuova dirigenza cinese è peraltro reso piú difficile e, per certi aspetti, drammatico dal grave deteriorarsi della situazione internazionale, con l’avvio e l’estendersi della «guerra fredda» tra «blocco capitalista» (guidato dagli Usa) e «blocco socialista» (diretto dall’Urss e al quale la Cina si unirà, pur nel mantenimento di un proprio profilo specifico), di cui la guerra di Corea, nella quale Pechino fu fortemente coinvolta e che fu combattuta proprio in un’area di frontiera con la Cina, rappresentò il simbolo piú evidente.
Una volta superate le principali emergenze interne e internazionali e completato essenzialmente il processo di ricostruzione, a partire dall’autunno del 1954 l’obiettivo prioritario divenne la definizione di un programma di sviluppo economico e sociale, relativamente moderato e gradualistico, secondo quanto delineato da Mao Zedong sin dal 1940 attraverso il principio della «nuova democrazia», il quale aveva posto una forte enfasi sulla riconciliazione e la collaborazione di classe.
Naturalmente, la situazione nel 1949 era assai diversa rispetto a quella di inizio decennio, e Mao stesso, nei mesi precedenti la vittoria (giugno 1949), aveva aggiornato e adattato la propria analisi attraverso la formulazione del concetto di «dittatura democratica popolare», nella quale il tema della «dittatura democratica» da parte della classe operaia (e quindi del Pcc) veniva esplicitamente rivendicato. Ciononostante, il carattere relativamente moderato e graduale della strategia complessiva in campo economico-sociale appare nel documento del 1949 largamente confermata, come dimostra altresí il termine di «repubblica popolare» adottato per il nuovo Stato, che faceva esplicito riferimento a un termine («popolo») che esprimeva un approccio sociale assai piú ampio e articolato rispetto alle classi (operai e contadini) cui il Pcc faceva tradizionale riferimento.
La politica della «nuova democrazia», aggiornata al momento della presa del potere, rimase essenzialmente in vigore sino all’ultima parte del 1957, quando fu sostituita da una strategia piú radicale basata sull’accelerazione dello sviluppo economico.
Il capitolo traccia il percorso della Cina in questi primi otto anni, articolati in due fasi distinte. In un capitolo successivo verrà invece affrontata la questione della politica estera cinese e, in quest’ambito, della centralità che assunse alleanza con l’Unione Sovietica.
1. La risoluzione del 1945 e il rinnovamento del partito.
La conquista del potere nel 1949 rappresentò senza dubbio una svolta fondamentale nella storia del Partito comunista cinese. Dopo la presa del potere, il partito divenne il perno di un sistema di organizzazione a tre facce (partito, governo-Stato, esercito, rimasto essenzialmente tale sino a oggi) al quale fu assegnato il compito di decidere sulle maggiori questioni di politica interna e internazionale.
Esso tuttavia era – e sino a oggi ha continuato largamente a essere – un partito elitario piú che di massa: nel 1945 gli iscritti erano 1,2 milioni, nel 1949 quasi 4,5 milioni, nel 1956 circa 10 milioni, nel 1977 circa 35 milioni, nel 1997 poco oltre i 60 milioni e oggi circa 66 milioni, con un rapporto membri del partito-popolazione complessiva nell’ordine del 5-6 per cento.
Tuttavia, le basi ideologiche di tale svolta vanno ricercate negli ultimi mesi di guerra (si veda il capitolo settimo), con le decisioni assunte nel giugno del 1944 che enfatizzavano l’importanza vitale del lavoro politico nelle aree urbane, equiparandolo di fatto a quello tradizionalmente svolto nelle aree già liberate, con il VII Congresso nazionale del Pcc del 1945 e in particolare con l’approvazione da parte del Comitato centrale del Pcc della fondamentale Risoluzione su alcuni problemi storici (aprile 1945).
La visione e l’interpretazione da parte di Mao Zedong della storia del partito aveva già guadagnato consensi sin dai primi anni Quaranta, identificando nella storica Conferenza di Zunyi degli inizi del 1935 – durante la quale, come si è visto, il ruolo di Mao era andato affermandosi anche se in modo non incontrastato – lo spartiacque tra «linea politica tendenzialmente erronea» (prima del 1935) e «linea politica tendenzialmente corretta» (dal 1935 in poi). Di fatto, la risoluzione del 1945 riguardò proprio il primo periodo, rinviando a tempi successivi un’analisi sulla fase post-1935.
La difficoltà e complessità del lavoro di elaborazione, rifinitura e stesura finale del testo della risoluzione è pienamente evidenziata dal fatto che fu necessario quasi un anno (dal maggio del 1944 all’aprile del 1945) per giungere alla sua approvazione definitiva.
Infatti, nel maggio del 1944 nel corso della settima sessione plenaria del Comitato centrale, oltre ad avviare la preparazione del congresso che si sarebbe tenuto l’anno successivo, venne nominata una commissione speciale con l’incarico di preparare una bozza della risoluzione: essa era composta da Ren Bishi, che fu incaricato di preparare una prima stesura, Liu Shaoqi, Kang Sheng, Zhou Enlai, Zhang Wentian, Peng Zhen, Gao Gang e Bo Gu, con l’assistenza dello storico Hu Qiaomu.
La versione finale della risoluzione fu approvata, per l’appunto, il 20 aprile del 1945, dopo una quindicina di revisioni. Essa analizzava la storia del partito tra il 1921 e il 1935, concentrando la propria critica sulle «tre linee erronee di sinistra» che – si suggeriva – ne avevano segnato la vita tra il 1927 e il 1935 (Qu Qiubai, Li Lilisan e i «ventotto bolscevichi»). In particolare, l’enfasi veniva posta su questi ultimi e per la prima volta i nomi di Wang Ming e di Bo Gu venivano citati in un documento ufficiale quali responsabili principali degli errori politici commessi tra il 1931 e il 1935.
L’esigenza di preservare il piú possibile l’unità del partito in una fase particolarmente difficile e delicata spinse tuttavia a ricercare l’accettazione dello spirito della risoluzione anche da parte di Bo Gu e di Wang Ming: cosí, il primo venne incluso nella commissione incaricata della stesura del testo, mentre il secondo, ammalato, non poté essere eventuale compartecipe del lavoro preparatorio. La storiografia ufficiale indica che Wang Ming inviò successivamente una lettera all’Ufficio politico del Pcc nella quale si accettava la risoluzione; al contrario, lo stesso Wang dichiarò che aveva rifiutato dapprima di sottoscrivere il testo e di riconoscere i propri errori politici, e che solo in un secondo momento aveva deciso di scrivere la lettera di accettazione ma unicamente al fine di preservare la propria posizione nel partito in vista di un futuro scontro politico con Mao.
Nella risoluzione, gli errori politici, militari, ideologici e organizzativi commessi da Wang e dai «ventotto bolscevichi» vengono costantemente contrapposti alla «linea corretta» portata avanti da Mao Zedong: sottovalutazione dell’importanza dei contadini e della guerra di guerriglia nonché settarismo e alienazione delle masse dal partito furono le principali accuse mosse.
La funzione della risoluzione non si limitò ovviamente a questa pur importante opera di denuncia politica: essa serví soprattutto a dimostrare la correttezza della linea e dei principî portati avanti da Mao rispetto ai suoi avversari e oppositori. Inoltre, essa cementò l’alleanza tra Mao Zedong e Liu Shaoqi: infatti, mentre il primo era largamente e apertamente lodato per il lavoro svolto all’interno della basi sovietiche e delle aree liberate, il secondo veniva indicato quale modello per il lavoro portato avanti nelle «aree bianche» poste sotto il controllo dei nazionalisti.
Cosí, la risoluzione e il successivo VII Congresso nazionale posero le basi per la creazione di una nuova leadership comunista unita e stabile, di un nuovo sistema di gestione politica e militare che combinava il controllo centrale con un sufficiente grado di flessibilità che tenesse conto di e incoraggiasse l’iniziativa locale, e di un potere concentrato in una sola persona, Mao, che non aveva probabilmente precedenti nella storia del partito.
La nuova dirigenza che aveva preso corpo attorno a Mao durante il 1945 fu sostanzialmente quella che salutò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nell’ottobre del 1949 e sarebbe largamente rimasta la stessa, con alcune pur rilevanti eccezioni, sino alla metà degli anni Sessanta.
Può dunque essere utile e interessante riflettere su alcuni aspetti significativi che riguardano le principali personalità di quegli anni, rimandando per ulteriori dettagli ai profili biografici a fine volume.
Nel corso del processo di formazione e di selezione del nuovo gruppo dirigente, Mao Zedong operò chiaramente secondo l’ottica di unificare il piú possibile le varie «anime rivoluzionarie» presenti nel partito, tracciando innanzitutto una linea di demarcazione tra coloro che ne avevano seriamente ostacolato l’ascesa dopo il 1935 (e quindi Wang Ming e i «ventotto bolscevichi») e coloro che non avevano condiviso singole posizioni politiche e ideologiche di Mao ma che ne avevano sostanzialmente sostenuto l’affermazione a partire dal 1935 (tra questi, Zhu De, Zhou Enlai, Peng Dehuai, Dong Biwu, Lin Boqu, oltre all’ex «bolscevico» Zhang Wentian). Cosí, aldilà della fedeltà personale verso Mao, elementi importanti che vennero considerati ai fini della scelta finale furono il talento individuale (Chen Yun, esperto di pianificazione economica), il grado di rappresentatività e di autorità in campo politico e militare (Zhu De, massima autorità in campo militare, che occupava nel 1945 il secondo e nel 1949 il terzo posto nella scala gerarchica; Ren Bishi, che aveva svolto un’azione particolarmente preziosa a favore di Mao quale rappresentante del partito nell’ambito del Comintern), l’anzianità politica (Dong Biwu e Lin Boqu, un elemento particolarmente importante nel contesto della cultura politica cinese non solo comunista).
In casi specifici, l’esigenza di tenere conto dei vari elementi nella composizione del nuovo gruppo dirigente portò Mao a sacrificare anche un fedele alleato quale Lin Biao, che non fu incluso nell’Ufficio politico, e a includere al contrario figure quali Peng Zhen, protagonista della lotta clandestina nella Cina settentrionale e strettamente legato a Liu Shaoqi, e Gao Gang, personalità chiave all’interno del movimento rivoluzionario del Nord-ovest, al fine di riequilibrare la rappresentatività di un gruppo dirigente tradizionalmente dominato da leader formatisi nelle basi rivoluzionarie situate nella Cina meridionale.
Un mutamento rilevante tra il 1945 e il 1949 fu indubbiamente l’ascesa di Liu Shaoqi dal terzo al secondo posto della gerarchia comunista. Benché Mao e Liu non sembrano aver avuto strette relazioni prima dell’inizio della Lunga Marcia (1934-35), appare indubbio che il secondo fu costantemente al suo fianco dopo il 1935 nella lotta contro Bo Gu e i «bolscevichi», anche se per motivi diversi: Mao nella difesa della propria strategia all’interno delle «basi rosse» e Liu in quella per lo sviluppo del lavoro politico nelle «aree bianche».
Il celebre discorso del 1939 di Liu Shaoqi, per il quale sarebbe stato pesantemente criticato durante la Rivoluzione Culturale, su «Come essere un buon comunista» divenne negli anni Quaranta uno dei piú importanti documenti da studiare da parte dei quadri e militanti comunisti e fu lodato dallo stesso Mao, diffondendo la fama di Liu Shaoqi quale brillante teorico nonché capace organizzatore politico e ponendo cosí le basi per la sua ascesa nel 1949 al secondo posto nella gerarchia del partito e, in prospettiva, per la sua nomina quale «successore naturale» di Mao Zedong.
Un caso altrettanto interessante, soprattutto in relazione all’importanza che la figura avrà nella storia della Cina Popolare per circa trent’anni, è quello di Zhou Enlai. Mao e Zhou si erano trovati su opposte posizioni tra il 1937 e il 1938, quando il secondo aveva esplicitamente sostenuto le posizioni di Wang Ming e dei «bolscevichi». Il ruolo di Zhou Enlai fu gradualmente rivalutato negli anni seguenti, anche alla luce della sua lunga militanza politica (probabilmente la piú lunga se si eccettua Mao stesso), dell’incontestabile talento e dell’aperta autocritica che egli compí per gli errori commessi, portandolo tuttavia a occupare una posizione inferiore a Liu Shaoqi nell’ambito del nuovo assetto politico.
Tra il 1945 e il 1949 venne altresí definendosi la struttura organizzativa del partito, secondo linee generali che sarebbero rimaste per larga parte in vigore nei decenni a venire.
Cosí, al centro l’Ufficio politico (composto da poche decine di membri) e il suo Comitato permanente (formato da un numero ristretto di alti dirigenti, membri dell’Ufficio politico) costituivano il cuore del potere decisionale; il Comitato centrale (composto in origine da un centinaio ma oggi da alcune centinaia di membri) svolgeva una funzione essenziale di sostegno e di ratifica delle decisioni assunte al vertice: particolarmente importanti erano le sessioni plenarie del Comitato centrale, che di norma di tenevano ogni sei mesi e che venivano indicate con una numerazione che seguiva l’ordine rispetto all’ultimo congresso nazionale (per esempio, prima sessione plenaria del VII Comitato centrale, eletto cioè durante il VII Congresso nazionale); il Congresso nazionale, infine (composto da molte centinaia di delegati), che rappresentava il momento formalmente piú alto nella vita del partito: secondo lo Statuto del 1945, esso doveva tenersi ogni tre anni ma in realtà ne trascorsero ben undici tra il VII (1945) e l’VIII (1956) e altri tredici tra l’VIII e il IX (1969); successivamente, il Congresso si sarebbe svolto con un certo anticipo (X: 1973; XI: 1977) e poi regolarmente ogni cinque anni (XII: 1982; XIII: 1987; XIV: 1992; XV: 1997; XVI e ultimo: 2002).
L’organizzazione centrale del partito era completata da vari comitati e commissioni, tra cui l’importante Commissione centrale di controllo o di ...

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