Il dovere di avere doveri
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Il dovere di avere doveri

Luciano Violante

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Il dovere di avere doveri

Luciano Violante

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Luciano Violante sostiene che si deve tornare al concetto di «dovere» per far vivere pienamente la forza della democrazia. Senza doveri non esiste il concetto di nazione: i doveri specificano il senso complessivo della cittadinanza, come obbligo politico e come rete di rapporti civici. La continua rivendicazione di diritti senza alcun riferimento ai doveri, inoltre, aumenta l'egoismo sociale e allenta i legami di appartenenza alla comunità civile. I diritti senza doveri trasformano i desideri in pretese, sacrificano il merito e finiscono per legittimare gli egoismi individuali. Promettendo diritti senza richiedere l'adempimento di doveri si accresce il rancore sociale - perché si promette quello che non si può mantenere - e, in ambito pubblico, si conferiscono poteri di veto, lasciando campo libero alla demagogia e al populismo. Una tesi coraggiosa e attuale, per una nuova etica della cittadinanza.

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Capitolo secondo

I lati in ombra della politica dei diritti

1. L’eclisse dei diritti sociali.
La politica dei diritti intende contrastare gli effetti negativi della globalizzazione che si manifestano soprattutto nella drastica riduzione delle protezioni sociali. Tuttavia nella esperienza concreta quella politica è prevalentemente, se non esclusivamente, politica delle libertà individuali, mentre restano del tutto marginali i diritti sociali. Le due categorie di diritti non sono equiparabili. Mentre tutti i diritti di libertà possono essere realizzati direttamente per via giudiziaria, sfuggendo alla mediazione delle istituzioni politiche, dei partiti e dei sindacati, i diritti sociali, che comportano scelte di priorità, spesa pubblica, ristrutturazione delle relazioni sindacali, dipendono dalle mediazioni di partiti, Parlamento, sindacati, regioni, comuni, autorità europee. I diritti sociali sono rimasti estranei al tumultuoso avanzare dei diritti di libertà individuale non per ragioni tecniche, ma per ragioni prevalentemente culturali, perché la globalizzazione economica ha reso prevalenti anche nella cultura comune i valori dello scambio e dell’individualismo, che sono indifferenti ai valori umani della liberazione dal bisogno, determinanti della stessa ragion d’essere dei diritti sociali.
La carenza di interesse per questa materia riguarda anche l’Unione Europea, che proclama una serie di diritti sociali, ma a questo riconoscimento non fa seguire una coerente applicazione, anche perché sono oggetto delle politiche comuni le sole decisioni di politica economica, non anche le decisioni sulle politiche fiscali1.
Questa discrasia comporta che sul terreno delle politiche sociali i vincoli di bilancio condizionano ogni altra politica. L’articolo 148 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) predispone una procedura particolare per l’adozione da parte del Consiglio Europeo di «orientamenti» per favorire l’occupazione, ma si tratta di indicazioni tutt’altro che vincolanti (a differenza di quanto accade per i vincoli di bilancio e per i diritti della persona) tanto che gli Stati ne devono solo «tenere conto». Ancora piú chiaro è il successivo articolo 149 che, dopo aver previsto l’adottabilità di misure dirette a promuovere la cooperazione tra gli Stati membri e a sostenere i loro interventi nel settore dell’occupazione, precisa che «tali misure non comportano l’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri».
Questa fragilità dei diritti sociali nell’ambito dell’Unione Europea si riscontra anche sulla scena internazionale. Il Consiglio d’Europa, organizzazione che conta 47 paesi e quindi piú vasta della Ue, ha promosso una Carta Sociale e ha istituito un Comitato Europeo dei diritti sociali, al quale le organizzazioni sindacali possono ricorrere in caso di inadempienza degli Stati agli obblighi che discendono dalla Carta Sociale. Il meccanismo delineato vive una vita asfittica e la Carta Sociale è trascurata anche dai giudici nazionali, vittime forse anch’essi di quella cultura della globalizzazione che ignora il valore dell’uguaglianza sostanziale e inalbera i soli vessilli delle libertà individuali. D’altra parte anche la Corte Costituzionale si è rivelata ragionevolmente cauta, non invasiva delle competenze della politica, quando ha dovuto affrontare il tema dei “diritti che costano”, prudenza che invece non caratterizza le decisioni relative ai diritti “non costosi” dal punto di vista finanziario.
Una ordinanza cautelare del Consiglio di Stato dell’8 maggio 2014 in materia sanitaria ha affrontato, sfuggendo alle fascinazioni della politica dei diritti, che avevano invece sedotto il Tar Piemonte, il problema della compatibilità della tutela dei diritti sociali (nella specie: livelli essenziali di assistenza sanitaria) con il principio costituzionale del pareggio di bilancio, che rappresenta un dovere inderogabile per tutte le autorità di governo:
[…] l’equilibrio di bilancio nel vigente sistema costituzionale costituisce un principio costituzionale inderogabile. Pertanto l’importo complessivo delle risorse di volta in volta disponibili nei diversi comparti non è derogabile neppure in presenza di livelli essenziali di assistenza sanitaria come dimostra l’oramai amplissima giurisprudenza amministrativa a favore dei tetti di spesa;
– in questo senso va l’ammonimento della Corte costituzionale richiamato anche dalla sentenza impugnata secondo cui «il soddisfacimento di tali livelli non dipende solo dallo stanziamento di risorse, ma anche dalla loro allocazione e utilizzazione» (Corte cost., sent. n. 36 del 2013);
tale ammonimento va quindi correttamente interpretato nel senso che il livello essenziale va inteso come un vincolo di priorità della spesa nell’ambito delle risorse disponibili ed in tal senso non si pone (almeno immediatamente e ordinariamente) in conflitto con il principio generale e pervasivo dell’equilibrio di bilancio; […]2.
L’ordinanza afferma che il giudice (nella specie il Tar Piemonte) non può sottrarsi ai vincoli di coerenza tra risorse e impieghi nell’ambito della quale l’autorità politica deve esercitare la propria discrezionalità. I livelli essenziali delle prestazioni sociali rappresentano un vincolo di scopo e di priorità all’interno delle risorse date e non oltre le risorse date. La provvista di nuove risorse non spetta al giudice, salvo che il giudice dimostri che sono state attribuite risorse a prestazioni di minor rilievo costituzionale.
La differenza di tutela fra diritti che attengono alla libertà di agire e diritti che attengono alla libertà dal bisogno dà origine a un paradosso che riguarda la stessa ragion d’essere dell’attuale politica dei diritti. Se una delle motivazioni principali della politica dei diritti era costituita dalla difesa della democrazia dall’assalto della globalizzazione, nell’eclisse dei diritti sociali è possibile vedere un paradossale allineamento delle politiche dei diritti alle logiche proprie della globalizzazione, che non temono i diritti attinenti all’individuo, ma avversano con decisione i diritti che portano all’uguaglianza sostanziale e alla liberazione dal bisogno.
2. Politica dei diritti e guerra umanitaria.
I diritti fondamentali avevano tradizionalmente il loro spazio privilegiato all’interno dei confini dello Stato nazionale. Questi confini sono oggi superati per due ragioni. La specifica fase storica che viviamo, caratterizzata dalla circolazione globale e immediata delle comunicazioni, rende conosciute e quindi intollerabili a tutto il mondo civile le violazioni particolarmente gravi dei diritti fondamentali, dovunque realizzate. Conseguentemente gli Stati che hanno una leadership mondiale, spesso gli Stati Uniti, come potenza globale, o le unioni di Stati, altrettanto spesso l’Unione Europea o le Nazioni Unite, sono destinatari di pressanti richieste di intervento per la tutela di quei diritti violati.
La natura stessa dei diritti fondamentali, inoltre, in quanto attinenti alla dignità umana, li rende universali, di modo che appare non tollerabile e bisognosa di reazione una loro violazione duratura, grave e non semplicemente occasionale.
È emersa cosí la dottrina della «responsabilità di proteggere»3, figlia di una sorta di universalismo morale in base al quale i diritti fondamentali hanno un nocciolo etico che sovrasta la sovranità dei singoli Stati e che impone una loro difesa attraverso i cosiddetti interventi umanitari, che comprendono tanto interventi militari, con l’uso della forza, quanto decisioni non militari, come l’embargo.
Il fondamento formale della responsabilità di proteggere risiede in una decisione assunta nel 2005 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che formalizzò due principî: «tutti gli Stati hanno la responsabilità di proteggere le loro popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica, dai crimini contro l’umanità»; i membri delle Nazioni Unite, inoltre, hanno l’obbligo di assistere gli Stati nell’adempimento della loro responsabilità, e «quando uno Stato viene manifestamente meno alle sue responsabilità, soggetti esterni devono assumere iniziative tempestive e decisive per proteggere le popolazioni da quei crimini con forme compatibili con la Carta delle Nazioni Unite».
La «responsabilità di proteggere» è oggetto di critiche secondo le quali il paradigma dei diritti umani costituirebbe spesso una nuova forma di colonizzazione occidentale, in base alla quale chi non si adegua allo standard proposto dai paesi piú forti, e non ha le risorse per far valere le proprie ragioni, vere o supposte, rischia di essere oggetto di misure repressive. Conseguentemente scompare la pari dignità di tutti gli Stati sovrani e si creano nuove gerarchie nelle relazioni internazionali tra chi si assicura l’appartenenza al circolo privilegiato degli Stati protettori dei diritti umani e tutti gli altri4.
L’espressione Responsibility to Protect (RtoP) compare per la prima volta nel rapporto della International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS) nel dicembre 2001. La Commissione era stata incaricata di rispondere al quesito posto da Kofi Annan, al tempo Segretario generale dell’Onu, circa le condizioni che imporrebbero alla comunità internazionale il dovere di intervenire per obbiettivi umanitari, anche superando la sovranità degli Stati nazionali. Il rapporto, consegnato pochi mesi dopo la strage dell’11 settembre, venne travolto dal cambio di obbiettivo: dalle misure per prevenire i crimini contro l’umanità si passò alle misure per prevenire il terrorismo e salvaguardare la sicurezza dei cittadini dei paesi occidentali.
L’invasione dell’Iraq, spiega il sito della International Coalition for the Responsibility to Protect, fece crescere le preoccupazioni che la nuova strategia potesse essere usata in modo strumentale per erodere la sovranità di paesi poco sviluppati5. La preoccupazione, come i fatti hanno dimostrato, non era e non è infondata. Dopo l’11 settembre la globalizzazione dei diritti umani e la conseguente definizione della responsabilità della protezione si sarebbero integrate con le esigenze di sicurezza interna dei singoli Stati. La «guerra globale al terrore» sarebbe stata ispirata anch’essa dalla finalità di protezione dei diritti umani, ma questa volta si tratterebbe dei diritti di sicurezza e libertà dei cittadini degli Stati occidentali minacciati da possibili attacchi terroristici6. D’altra parte se si compara l’iniziativa militare in Iraq e Afghanistan con l’inazione in Siria e Darfur, per citare solo alcuni casi, ci si rende conto della relatività della categoria di intervento internazionale a protezione dei diritti umani e di come questa categoria sia spesso un alibi per interventi che hanno altre finalità.
Attraverso i passaggi successivi, dai diritti umani alla responsabilità della protezione, dalla responsabilità della protezione al diritto alla sicurezza, il monopolio della forza viene a coincidere con il monopolio dei diritti e della morale, intreccio che finisce col giustificare la guerra umanitaria.
Il diritto alla sicurezza, germoglio estremo fiorito sul ramo dei diritti umani, ha sopraffatto quel ramo e lo ha inglobato nelle proprie spire. D’altra parte la sicurezza in quanto tale non è un valore ma uno strumento per la tutela di valori come la vita, la salute, la dignità. Trasformare la sicurezza in un obbiettivo finale è un artificio, frutto della estremizzazione della categoria dei diritti umani, che fa entrare in campo un pericoloso concetto carico di ideologia e privo di limiti perché la sicurezza tende a diventare infinita e oppressiva.
Quando la politica “insaziabile” dei diritti umani entra in un gioco internazionale governato dalla forza ne diventa inevitabile un uso strumentale. Di qui deriva la necessità di moderare gli entusiasmi e di avvertire il rischio permanente di un piegamento della politica dei diritti alle esigenze di carattere geostrategico.
3. Politicizzazione della giustizia.
La politica dei diritti ha esercitato un indubbio fascino anche sulla cultura politica, innescando un processo di giuridicizzazione della politica al quale hanno corrisposto forme crescenti di politicizzazione della giustizia7. Nell’arretramento non della politica ma delle forme democratiche della politica – l’osservazione è di Massimo Luciani8 – sono riconosciute come degne di tutela solo quelle aspirazioni che possano tradursi in diritti. Nel dibattito parlamentare e politico sempre piú frequentemente il confronto non si svolge attorno ai bisogni sociali, alla evoluzione dei costumi, ai processi di civilizzazione del paese, ma attorno a diritti che si assumono esistenti o inesistenti sulla base di trattati, Carte costituzionali, dichiarazioni internazionali, leggi, sentenze, tutti strumenti tipici della giurisdizione. Sempre piú spesso le istituzioni politiche non si misurano sulla protezione di un bisogno nella forma di un diritto, ma sul riconoscimento di un’aspirazione, come se essa fosse già un diritto. Chi contesta la domanda nega che possa trattarsi di un diritto, come è accaduto per il fine vita, o si adopera per circondarlo di impedimenti, come è accaduto con la procreazione medicalmente assistita. La torsione porta inevitabilmente alla trasformazione del dibattito politico in dibattito giuridico, alla paralisi della decisione politica, come è avvenuto con il fine vita, o a decisioni estranee alla logica e alle necessità umane, come è avvenuto con l’imposizione, nella legge sulla procreazione assistita (l. 40/2014), della produzione di embrioni in numero strettamente necessario a un unico...

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